E’ un artista materico che usa oggetti informatici e multimediali ormai in disuso per rappresentare la sua poetica; pezzi di computer rotti o obsoleti vengono nobilitati da Zangrossi, che inserendoli nelle sue composizioni e ricoprendoli di ruggine, li eleva al pari dei classici oggetti da lavoro, li permea della sacralità che solo l’invecchiamento dà. La vita di questo artista polesano è stravolta, in età adolescenziale dalla disabilità e dal dolore, che gli negano la possibilità di vivere come i suoi coetanei, ma che affinano la sua sensibilità verso le cose belle e l’arte.
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Aveva il dono di andare oltre l’apparenza, oltre l’aspetto esteriore, utilizzando il colore come strumento rivelatore, attraverso cui restituire sulla tela l’essenza del personaggio raffigurato. Egli anticipò per molti versi quel tipo di penetrazione psicologica che caratterizzò in seguito la ritrattistica seicentesca, a cominciare da Rubens. Dimostrò come non solo attraverso la luce e l’ombra o il disegno, ma anche attraverso un uso straordinario del colore si potesse restituire il valore psicologico di una personalità. Ed è interessante osservare come pure in certi accostamenti cromatici egli ponesse un significato psicologico
Per Giuseppe Marino Urbani de Gheltof far emergere un documento dai labirinti di un archivio o costruirlo di sana pianta, era la stessa cosa, ma non è la seconda malversazione che pagò con l’emarginazione sociale e con la follia che l’avrebbe tratto a morte poco più che cinquantenne nel “Regio Manicomio criminale di Montelupo Fiorentino” il 27 febbraio 1908