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Pittura: la scuola veneziana dell’Ottocento



di Francesca Baboni

I pittori non hanno animo di rompere le catene della tradizione, non hanno l’animo di guardare il vero in faccia”. Così Camillo Boito descrive i fenomeni culturali della Venezia di inizio Ottocento.
In quest’atmosfera stagnante e difficile (dopo il successo delle vedute settecentesche di Canaletto e Guardi) è Ippolito Caffi (1809-1866), intorno agli anni ’50, che coglie i primi elementi del vero, introducendo il gusto per il racconto e per la luce. Artista e personaggio romantico di grande fascino, tra i maggiori e più originali vedutisti dell’Ottocento italiano, assume una dimensione e un respiro europei che lo avvicinano a Corot e, in qualche modo, al contemporaneo Turner, suscitando, nella sua breve ma intensa vita, consensi ed ammirazione. Personalità forte ed inquieta, dallo spirito avventuroso, viaggiatore instancabile e patriota convinto, partecipa ai moti del 1848-49 e alla terza Guerra d’Indipendenza fino alla morte nel corso della battaglia di Lissa, a 57 anni, imbarcato nell’ammiraglia Re d’Italia. Nei suoi quadri Ippolito Caffi rinnova la grande tradizione del vedutismo veneto cercando di captare lo spazio e ricercando nuovi raccordi prospettici.


Ma è con Domenico Bresolin (1813-1900) che a Venezia viene impressa una svolta nella pittura di paesaggio. Titolare di cattedra all’Accademia, rivoluziona la didattica portando gli allievi, tra cui Guglielmo Ciardi, a dipingere en plein air. Sarà proprio il suo allievo Ciardi a creare una vera “scuola di pittura” veneziana, assieme a Giacomo Favretto, il più grande di tutti, Federico Zandomeneghi che andrà in seguito a Parigi, Luigi Nono, Ettore Tito e Pietro Fragiacomo, conosciuti e apprezzati come dei veri e propri maestri. Venezia da una parte e la campagna veneta dall’altra, diventano così i protagonisti della pittura, e il rapporto tra finzione e verità, immaginazione e fedeltà al vero, assume un significato nuovo che i pittori interpretano sulla scia della tradizione veneziana, nelle potenzialità di luce e di colore, ma con individualità e originalità.
Guglielmo Ciardi (1842-1917) studia nel collegio di Santa Caterina e all’Accademia di Belle Arti della sua città. Nel gennaio del 1868 lascia Venezia per un viaggio che lo porta prima a Firenze, al Caffè Michelangelo, dove incontra i macchiaioli e Nino Costa, poi a Roma e a Napoli dove lavora per diversi mesi a contatto con gli artisti della Scuola di Posillipo e della Scuola di Resina, oltre che con Filippo Palizzi. Ai primi del 1869 è di nuovo a Venezia e diventa personalità importante nell’ambito del paesaggismo europeo; celebri sono difatti le sue Lagune e la profondità degli orizzonti. Affermando come la pittura d’accademia sia ormai da buttare, aderisce alle tendenze macchiaiole acquisendo uno straordinario senso della luce e del colore.




La bibliografia del veneziano Giacomo Favretto (1849-1887) è piuttosto scarna. I primi insegnamenti gli furono impartiti dal conte Antonio de’ Zanetti, e dallo zio di questi, Gerolamo Astolfoni. I suoi schizzi giovanili sono notati da un certo Vincenzo Favenza, antiquario, che li ammira a tal punto da insistere col padre del giovane ed ottenere che gli assicuri un’educazione artistica. Dopo un esperimento presso lo studio di Antonio Vason, dove apprende le prime nozioni di pittura, Favretto entra quindi all’Accademia di Belle Arti. Scrive Boito nel 1874: “Nei veneti ci sono due novellini eccellenti, Giacomo Favretto e Luigi Nono…”. Favretto si pone a Venezia così come il maggiore artefice, l’iniziatore della pittura del “vero”; notissimo è il suo capolavoro del 1873, La lezione di anatomia, conservata ora a Milano presso la Pinacoteca di Brera, in cui si avvicina alle modalità della “macchia” utilizzando rapporti cromatici e di prospettiva del tutto nuovi. Nel 1884 invia all’Esposizione di Torino cinque quadri, che ottengono un lusinghiero successo di critica e pubblico. La sua breve carriera termina durante l’Esposizione di Venezia del 1887, che segna per lui un vero trionfo. Non riesce a scampare alla febbre tifoide e muore il 12 giugno dello stesso anno.
Luigi Nono (Fusina 1850-Venezia 1918), nonno del famoso compositore, è un altro importante esponente della scuola veneziana dell’Ottocento. Allievo di Pompeo Molmenti all’Accademia di Belle Arti di Venezia, concluso l’apprendistato accademico, dipinge vedute della campagna trevigiana e scene di genere: predilige temi intimi e effetti sentimentali (come in Verso sera a Coltura, 1873; Bambino malato, 1876). Si reca a Firenze, Roma e Napoli nel 1876, nel 1878 è a Parigi e a Vienna. Vicino ai pittori di Barbizon e ai naturalisti francesi di metà secolo, è spesso a Venezia a partire dal 1879 e si trasferisce definitivamente nella città lagunare nel 1888: nominato professore nel 1899, contribuisce, con Favretto, all’affermazione della nuova scuola di pittura veneziana. Apprezzato in Italia e all’estero, particolarmente in ambito mitteleuropeo, espone a Monaco, Berlino, Pietroburgo, ottenendo importanti riconoscimenti. Prende parte con regolarità alle Biennali veneziane. Nell’opera Il rosario del sabato, ci mostra la pietà popolare di un intero paese, per la preghiera del sabato sera. I devoti hanno il colore e la struttura della pietra con cui sono costruite le case fino a confondersi: immagine dell’unità del popolo con l’ambiente di vita e con la natura. Solo un uomo, è in disparte, in ozio. I connotati simbolici e politici di quest’opera sono evidenti, considerati i tempi infuocati in cui è grande il cambiamento di mentalità e condizione nell’ambiente cittadino e rurale.
Federico Zandomeneghi nasce a Venezia nel 1841 ed è ospite di Diego Martelli, frequentatore del Caffè Michelangelo di Firenze e teorico della poetica macchiaiola, nella tarda primavera del 1865, epoca alla quale risale l’esecuzione di uno dei suoi capolavori, La lettura, nel quale effigia la compagna del critico, Teresa. Rientrato a Venezia nel 1866, si allontana fisicamente dagli amici Macchiaioli, dei cui progressi si tiene però costantemente informato. Soggiorna lungamente a Castiglioncello nell’inverno 1873-74, realizzandovi una figura di Portatrice con gerla in capo, sullo sfondo delle alture di Rosignano Marittimo. Nel giugno del 1874 lascia definitivamente l’Italia per stabilirsi a Parigi dove rimarrà per ben quarantatré anni, fino alla morte. Nel 1878 inizia a partecipare alle esposizioni impressioniste. Il 31 dicembre del 1917 viene trovato morto nella sua casa, pochi mesi dopo la scomparsa dell’amico Degas. L’opera di Zandomeneghi, dal taglio profondamente originale, si presta a diverse letture critiche. Da una parte viene considerato un artista esclusivamente “italiano”, ponte tra Venezia e i Macchiaioli; dall’altra, invece, egli è fatto rientrare nel capitolo dell’impressionismo, con la sua forte appartenenza al movimento (espone con gli impressionisti dal ’74), senza peraltro mai smentire le sue radici veneziane.
Ultima personalità del gruppo – ma non meno importante – degna di attenzione è quella di Pietro Fragiacomo (Trieste 1856-Venezia 1922), paesaggista elegiaco e tonale, sicuro punto di riferimento per la grande pittura veneta di paesaggio tra Otto e Novecento.