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Alberto Burri: fiamma, cellophan e dita. Nel filmato come modellava le sue opere










New York, con la mostra al Guggenheim, ha definitivamente collocato alberto Burri nell’olimpo degli artisti del Novecento. Esplorando la bellezza e la complessità del processo creativo che sta alla base delle opere di Burri, l’esposizione ha eletto l’artista a protagonista della scena artistica del secondo dopoguerra, rivedendo la tradizionale letteratura sugli scambi culturali tra Stati Uniti e Europa negli anni ’50 e ‘60. Burri prese le distanze dalle superfici pittoriche e dallo stile gestuale propri sia dell’Espressionismo astratto americano sia dell’Arte informale europea, rimaneggiando pigmenti singolari, materiali umili ed elementi prefabbricati. Anello di transizione tra collage e assemblaggio, Burri raramente ricorreva all’uso della pittura e del pennello, prediligendo la lavorazione della superficie per mezzo di cuciture, combustioni e lacerazioni, per citare alcune delle sue tecniche. Ciò che si può affermare è che egli utilizza materiale di scarto o lavorazioni di tipo edilizio e artigianale per produrre opere d’arte. E veniamo al filmato che lo vede alle prese con la fiamma e il cellophan che egli modella, una volta fuso, con le dita. Questi lavori risalgono soprattutto agli anni Cinquanta. Nel 1954 realizza piccole combustioni su carta. Continua a utilizzare il fuoco anche negli anni successivi, realizzando Legni (1956), Plastiche (1957) e Ferri (1958 circa).

 

BIOGRAFIA
Nato a Città di Castello (Perugia) nel 1915, Burri studiò medicina e prestò servizio in Africa settentrionale come ufficiale medico nell’esercito italiano durante la Seconda Guerra Mondiale. Nel 1943, a seguito della cattura della sua unità in Tunisia, venne recluso nel campo di prigionia di Hereford (Texas), dove iniziò a dipingere. Nel 1946 Burri fece ritorno in Italia e si dedicò interamente all’arte, una decisione nata dall’esperienza diretta della guerra, della privazione e della catastrofica sconfitta dell’Italia.
La sua prima personale, allestita nel 1947 presso la Galleria La Margherita di Roma, riuniva paesaggi e nature morte, ma a seguito di un viaggio a Parigi tra il 1948 e il 1949 iniziò a sperimentare con sostanze catramose, pomice macinata, vernici industriali e strutture metalliche per creare accrescimenti e squarci che devastassero l’integrità della superficie pittorica. Successivamente cercò di stravolgere la struttura profonda del quadro forando, esponendo e ricostituendo la superficie del supporto. Alla tradizionale, intonsa tela tesa, Burri preferiva assemblare le proprie opere partendo da brandelli di stracci, frammenti di impiallacciature di legno, fogli di alluminio saldati o strati di plastica fusa, il tutto in un processo che lo portava a cucire, fissare, saldare, pinzare, incollare e bruciare i materiali. Il suo lavoro rase al suolo e riconfigurò la tradizione pittorica occidentale, muovendosi al contempo verso una riconcettualizzazione delle dimensioni e del potere emozionale del collage modernista.
Burri sposò la ballerina americana Minsa Craig e nel 1963 iniziò a trascorrere ogni inverno nella residenza di Los Angeles, ma ciò nonostante fu sempre considerato un artista italiano. Nel 1978 l’artista istituì la Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri a Città di Castello. La Fondazione Burri è oggi attiva in due siti museali che espongono opere di Burri installate dallo stesso artista: il Palazzo Albizzini e gli Ex Seccatoi del Tabacco. La Fondazione ha gentilmente prestato due opere appartenenti alla propria esposizione permanente: Grande Bianco (1952) e Grande Bianco (1956). La prima opera rappresenta uno dei tre grandi collage tessili che Robert Rauschenberg aveva visto nello studio di Burri a Roma, durante una visita agli inizi del 1953. Tutte e tre queste grandi opere saranno riunite nell’esposizione.
In concomitanza con la mostra il Guggenheim Museum ha condotto un approfondito studio conservativo delle opere selezionate per la retrospettiva unitamente a numerosi altri lavori tratti dalle varie serie di Burri. Grazie ad un team multidisciplinare di curatori, esperti in conservazione e
restauratori di dipinti, documenti, artefatti e tessuti, lo studio ha analizzato l’enorme varietà di originali e complessi materiali e processi creativi dell’artista.
Storia dell’esposizione
Burri avviò la propria carriera a Roma ma allestì regolarmente alcune mostre negli Stati Uniti a partire dagli inizi degli anni ’50, sia a Chicago, presso la Allan Frumkin Gallery, sia a New York, presso la Stable Gallery e Martha Jackson Gallery. Nel 1953 James Johnson Sweeney, direttore e curatore del Guggenheim Museum, inserì Burri nell’importante esposizione Young European Painters: A Selection e nel 1955 scrisse la prima monografia sull’artista. Tra i vari premi ottenuti si annoverano il Terzo premio del Carnegie International di Pittsburgh (1959), il Premio dell’Ariete di Milano (1959), il Premio UNESCO alla Biennale di San Paolo (1959), il Premio della Critica per la personale delle proprie opere alla Biennale di Venezia (1960), il Premio Marzotto (1965) e il Gran Premio alla Biennale di San Paolo (1965). La prima retrospettiva Americana fu presentata dal Museum of Fine Arts di Houston (1963). Tra le mostre principali ricordiamo la retrospettiva al Musée National d’Art Moderne di Parigi (1972), la retrospettiva alla Frederick S. Wight Gallery dell’Università della California di Los Angeles (1977) e itinerante al Marion Koogler McNay Art Institute di San Antonio, Texas, e la retrospettiva del Guggenheim Museum (1978). Nel 1994 partecipò alla mostra The Italian Metamorphosis, 1943–1968 sempre al Guggenheim.