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Nei labirinti dell'anamorfosi. Da un solo punto è possibile vedere Dio. La tecnica


L'anamorfosi del ritratto di san Francesco di Paola, nell'omonimo convento di Roma
L’anamorfosi del ritratto di san Francesco di Paola, nell’omonimo convento di Roma

L'immagine del ritratto,, della grotta e degli alberi si ricompongono perfettamente soltanto da un punto di vista
L’immagine del ritratto,, della grotta e degli alberi si ricompongono perfettamente soltanto da un punto di vista



Scuola fiamminga, “Anamorfosi cilindrica di un’erezione della Croce”, part., seconda metà del XVII secolo
Scuola fiamminga, “Anamorfosi cilindrica di un’erezione della Croce”, part., seconda metà del XVII secolo

Simon Vouet, I satiri ammirano l'anamorfosi di un elefante. In questo caso siamo di fronte a un'anamorfosi circolare, com'è quella che ci appare nell'illustrazione precedente. Un cilindro specchiante hala funzione di fare sintesi dell'immagine e di riportarla alla forma naturale
Simon Vouet, I satiri ammirano l’anamorfosi di un elefante. In questo caso siamo di fronte a un’anamorfosi circolare, com’è quella che ci appare nell’illustrazione precedente. Un cilindro specchiante ha la funzione di fare sintesi dell’immagine e di riportarla alla forma naturale

 
Nelle foto: anamorfosi con proiezione cilindrica, Fondazione Mazzotta
Anamorfosi con proiezione cilindrica, Fondazione Mazzotta

 
 
 a cura di Maurizio Bernardelli Curuz
“In pittura dicesi anamorfosi la proiezione mostruosa o la rappresentazione sfigurata di un’immagine eseguita su un piano, la quale, nondimeno, da un certo punto di vista appare regolare e fatta con proporzioni giuste”. (Diderot e D’Alambert, “Encyclopédie”, 1751)
“Anamorfosi” è parola che appare nel Seicento e designa una certa specie di “depravazioni ottiche” fondate sui giochi della riflessione e della prospettiva. Si tratta di immagini distorte, mostruose e indecifrabili che, se viste da un certo punto dello spazio o riflesse con accorgimenti vari, si ricompongono, si rettificano, infine svelano figure a prima vista non percepibili. La conoscenza dei procedimenti per costruirle fu a lungo trasmessa come dottrina magica e segreta, finché a partire dal Cinquecento le immagini anamorfiche hanno cominciato a diffondersi. Infine nel Seicento l’anamorfosi ha invaso i trattati di prospettiva, la pratica architettonica e le feconde speculazioni ottiche dell’epoca, diventando poi una sorta di lucido e onniavvolgente delirio nell’opera di due grandi gesuiti, Kircher e Bottini. In questo libro – il primo e l’unico, si può dire, su tale tema affascinante – Jurgis Baltrusaitis, assistito dalla sua grandiosa erudizione, non solo riesce a ricostruire l’evoluzione di dottrine e di opere che erano sfuggite o erano rimaste incomprensibili agli storici dell’arte precedenti, ma delinea un capitolo decisivo nella storia dell’immaginario europeo. “Anamorfosi” apparve per la prima volta nel 1955, poi in edizione ampliata nel 1969, infine – nel 1984 – con due capitoli inediti, qui per la prima volta tradotti, che tracciano la storia dell’anamorfosi nell’età moderna, fino a oggi. Così vediamo Baltrusaitis chinarsi su testi di Cocteau, Barthes, Lacan ed esaminarli come fossero oscuri reperti, allo stesso modo in cui il suo sguardo di sovrano delle aberrazioni si posava sulle stranezze di ignoti dotti secenteschi. (Jurgis Baltrusaitis, “Anamorfosi o Thaumaturgus opticus”, edizione riveduta ed ampliata, 285 pagine, Adelphi)

L’anamorfosi nasce come esplorazione delle massime possibilità offerte dal quadro prospettico. Secondo Baltrusaitis, che sottolinea l’origine antica di questa tecnica, tutto deve essere nato come evoluzione delle lievi rettifiche apposte dagli artisti e dagli architetti per “rimediare all’errore della vista”, “ma derivano anch’esse da medesimo principio dell’alterazione delle forme naturali, grazie al quale si ottiene l’uniformità mediante la difformità e la stabilità mediante lo squilibrio”. Chi lavorava confrontandosi necessariamente con un quadro prospettico, aveva evidenziato i limiti della cosiddetta prospettiva lineare. Il Rinascimento esplorerà le numerose possibilità offerte dall’assetto prospettico, non solo come strumento per la corretta rappresentazione del reale, ma come mezzo per ottenere spazi illusori. “A Milano, in San Satiro (1482-1486), il Bramante – scrive Baltrusaitis – simula una vasta abside in uno spazio di un metro e venti di profondità. Gli scorci audacissimi del cornicione, dei cassettoni e dei pilastri in stucco e in terracotta danno l’impressione perfetta di un ambiente dal soffitto a volta intera, ma se vogliamo entrarvi andiamo a sbattere contro un muro”. Lo sviluppo della cosiddetta prospettiva accelerata, che tende cioè a creare l’illusione di una vastissima profondità del dipinto e che forza, attraverso le regole geometriche, il piano del reale, è legato anche alla diffusione cinquecentesca del teatro e alle sperimentazioni prospettiche ad essa connesse, specialmente a partire dalla metà del secolo, alle quali attingono anche gli architetti per l’edificazione dei palazzi e per l’allestimento dei giardini. “Nel trattato di prospettiva del Sirigatti (1596) tutto il palcoscenico è inclinato. Gli attori – annota Baltrusaitis – non si muovono più nel mondo reale ma in un mondo illusorio”. Le prospettive accelerate – in arditissimi scorci -, l’inclinazione delle tavole sulle quali gli attori recitano diventano punto di riferimento anche per studiosi di ottica e pittori.

Il confronto con il mondo classico e le compensazioni prospettiche. A proposito delle deformazioni prospettiche, Baltrusaitis riporta la leggenda relativa a Fidia che, con un collega, era stato chiamato a scolpire una statua, la quale doveva essere posta su un alto pilastro. “Alcamene scolpì una statua armoniosa, Fidia una figura dalle membra deformate, con la bocca aperta e il naso allungato. Il giorno in cui le due opere vennero esposte, il primo artista ottenne tutti i suffragi mentre il suo rivale per poco non venne lapidato. Ma la situazione si ribaltò, quando le due statue furono collocate al loro posto (…) La statua di Fidia diventò bellissima mentre l’altra suscitò il riso degli spettatori. (…) La leggenda delle forme che vengono deformate per restare belle rivive dunque in due fonti diverse”. La seconda è costituita dalla Colonna traiana, “che dal Cinquecento in poi era considerata un prodigio di ottica”. Gli artisti dell’antichità classica che avevano lavorato alla celebre opera si erano infatti trovati a “sfigurare” le scene nelle fasce superiori del bassorilievo, per correggere gli errori indotti dalla distanza e dall’inclinazione dell’occhio dell’osservatore, ed ottenere una visione dimensionalmente uniforme rispetto alle fasce elicoidali più basse. Come scriveva il Lomazzo, “quando agiscono su altezze ragguardevoli, sono constretti a correggere la rappresentazione, dipingendo – come avviene nel ‘Giudizio universale’ di Michelangelo (ndr) – le figure tanto più grandi quanto più esse rimpiccioliscono a causa dell’altezza dei luoghi”.
Leonardo fu il primo anche nella deformazione. Il geniale Leonardo ha diritto di primogenitura anche nei confronti dell’anamorfosi. “Due disegni allungati, quello del viso di bambino e quello di un occhio, che troviamo su un foglio del Codice atlantico (1483-1518) con i segni appena percettibili delle linee di proiezione gradualmente crescenti, completano l’insegnamento del grande artista. Sono le anamorfosi più antiche che attualmente si conoscano” scrive Baltrusaitis nel libro pubblicato da Adelphi. “Indubbiamente – prosegue lo studioso – nel primo periodo le ricette giuste erano tenute gelosamente segrete; i procedimenti geometrici esatti furono rivelati integralmente soltanto nel corso del Seicento, con la formazione del secondo gruppo di anamorfosi e con la sua diffusione in molteplici direzioni”.

Leonardo da Vinci, “Codice atlantico”, 1483-1518
Leonardo da Vinci, “Codice atlantico”, 1483-1518

Nel Cinquecento le prime anamorfosi L’apporto della scuola di Dürer. Se la rifondazione della cultura anamorfica è soprattutto italiana, gli sviluppi avverranno in altri Paesi europei. Un allievo del Dürer – maestro che, come sappiamo, ideò la cosiddetta “finestra”, utilizzata per la precisione dei rilievi prospettici – fu infatti tra i principali protagonisti del rilancio della “rappresentazione obliqua delle realtà”. Schön, infatti, esasperando le regole di correzione prospettica, realizzò un’incisione di notevoli dimensioni (0,44 x 0,75 m), “suddivisa – come afferma Baltrusaitis – in quattro registri trapezoidali dove il tratteggio zebrato si prolunga in paesaggi disseminati di figurine. Città e colline, personaggi e animali vengono riassorbiti, o meglio inghiottiti, in un turbine di tratti aggrovigliati, a prima vista indecifrabili. Se però guardiamo al lato dell’incisione, tenendo l’occhio vicinissimo al foglio, si vedono scaturire dal nulla quattro teste sovrapposte e delimitate da cornici rettilinee”. Tutto sembra frutto di una “stregoneria”. Noto, relativamente a quest’epoca, è il ritratto (che vediamo nella foto tratta dal libro pubblicato da Adelphi) di Edoardo VI (1546). Nella parte superiore della tavola, l’opera è presentata da un punto di vista ordinario, quindi frontale. Osservando di sbieco il dipinto (immagine inferiore), leggiamo invece, perfettamente, il volto del sovrano. L’occhio infatti, da quella posizione, coglie soltanto alcune linee della rappresentazione, che sono poi quelle indispensabili ad evidenziare perfettamente la fisionomia regale. Dicevamo dell’origine italiana dell’anamorfosi, tra Quattrocento e Cinquecento. Dürer, infatti, in una lettera inviata nel 1506 da Venezia, annunciava di essere in procinto di partire per Bologna per “impararvi l’arte di una prospettiva segreta”.
“Ritratto anamorfico di Edoardo VI”, 1546
“Ritratto anamorfico di Edoardo VI”, 1546

Paesaggi che nascondono figure o farfalle che diventano gigli. L’autore di “Anamorfosi o Thamaturgus opticus” si sofferma sugli esempi più eclatanti di deformazione ottica cinquecentesca, che diventano sempre più arditi. A questo proposito viene pubblicata una tavola di Jacques Lipchitz “che sembra a prima vista un agglomerato di figure ovoidali prive di contenuto, che fanno pensare alla moderna pittura astratta. (…) La composizione – annota lo studioso – è particolarmente sapiente: nelle incisioni di Schön le figurine normali mescolate alle forme dilatate sfumano nella visione di sbieco, qui invece esse subiscono una metamorfosi. Uno dei tavolini diventa un libro, l’altro un braccio della croce e le farfalle si trasformano in gigli”. Ricordiamo altri dipinti nei quali appaiono paesaggi fluidi, disgregati, con cani, lepri, velieri, cavalieri, uccellatori, “accanto a oggetti misteriosi che, disseminati sul terreno o sospesi e osservati di sbieco, offrono la rappresentazione dei santi Pietro e Paolo, del Cristo e dell’Angelo, del Volto Santo, della Vergine e del Bambino, di Francesco d’Assisi che riceve le stigmate”.
 
 
Le anamorfosi furono utilizzate per comunicazioni “riservate”. Gli studiosi hanno sottolineato anche l’utilizzo criptico dell’anamorfosi, nel campo dello spionaggio, del complotto o della circolazione di immagini proibite. E’ il caso delle effigi che circolavano tra i sostenitori di Carlo I, il re inglese decapitato nel 1649. “Diversi ritratti segreti del sovrano si diffusero in Inghilterra fra i suoi partigiani; su uno di essi la testa si assottiglia in una fronte allungatissima che finisce quasi a punta”.
Anonimo, particolare de “La Maddalena alla Sainte Baume”, dipinto su carta, 1662
Anonimo, particolare de “La Maddalena alla Sainte Baume”, dipinto su carta, 1662

La tecnica più semplice per realizzare questi dipinti sugli intonaci dei muri. Il sistema più diretto e semplice per realizzare dipinti anamorfici era legato all’utilizzo della luce. I pittori stendevano, seguendo le consuete proporzioni naturali di stampo realistico, il disegno da “nascondere”: un volto, un oggetto, uno stemma. Trasferivano poi il disegno su un cartone, come avveniva normalmente nelle operazioni preparatorie degli affreschi; il cartone veniva infatti bucato con la punta di un chiodo in corrispondenza d’ogni linea del disegno stesso. A questo punto si agiva schermando lateralmente il cartone per evitare che la luce del sole o della lampada entrasse nella stanza in cui sarebbe stato realizzato il dipinto. I fasci luminosi, in questo modo, passavano esclusivamente attraverso ogni foro del cartone, proiettando un “fotodisegno” sulla parete. Quando il foglio veniva messo di sbieco, il disegno tratteggiato dalla luce si allungava a dismisura sul muro. A questo punto il pittore si avvicinava alla parete e, con un carboncino o una punta, ricalcava la proiezione luminosa, imprimendo sul muro le linee anamorfiche. Il disegno scorciato appariva così allungato da risultare incomprensibile a una vista frontale. Il pittore colorava poi il volto stesso e, per mascherare ulteriormente la fisionomia, dipingeva frontalmente piccoli cespugli, animali, oggetti che avevano il compito di creare un paesaggio apparente.
Le formule geometriche e ottiche di grande precisione. Chi avesse voluto realizzare anamorfosi con grande precisione era costretto comunque ad affidarsi a complessi schemi ottici. Il disegno originale – poniamo fosse un volto – veniva steso su un foglio diviso in quadretti numerati che consentivano di identificare con precisione ogni singola porzione della raffigurazione stessa. Su un altro foglio veniva poi realizzato un trapezio particolarmente allungato, suddiviso in rettangoli e numerato con lo stesso criterio utilizzato per il quadrato. Al numero del quadrato corrispondeva il numero del rettangolo nel quale era stato suddiviso il trapezio. All’interno di ogni rettangolo venivano pertanto riportate – in allungamento, rispettando la delineazione del reticolo del quadrato – le linee dilatate del disegno anamorfico.
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Samuel Marolois, “Schema anamorfico arcaicizzante”, 1614
Samuel Marolois, “Schema anamorfico arcaicizzante”, 1614

Il castello incantato poneva le sue radici nell’ottica. Le ricerche sull’“occhio ingannato e risarcito” proseguirono alacremente, soprattutto a livello di studi ottici, che poi trovarono applicazione in pittura. Ci fu chi, anche grazie a questi lavori, riuscì ad ottenere successo e denaro. E’ il caso di Hesselin, consigliere e sovrintendente ai piaceri del re di Francia. “Quando ricevette nel suo castello di Essonnes la regina Cristina di Svezia, che lo conosceva per la sua reputazione singolare come uno degli uomini più abili e galanti di Francia, egli la condusse in una dimora incantata dove tutto era illusorio, incerto, cangiante. I muri svanivano e apparivano sale immense, dove le nuvole trasportavano una città incendiata e il carro della Fama, poi una serie infinita di porte, davanti alla prima delle quali erano due svizzeri di guardia che parevano finti, mentre poi si staccavano dalla parete e danzavano”. “La rappresentazione di Essonnes era interamente basata su strutture prospettiche accelerate e finte, e non è escluso che certe apparizioni e certe scomparse fossero prodotte mediante forme allungate”.
Nel convento le ricerche maggiori dedicate alle deformazioni visive. Il convento dei Minimi di Parigi, fondato nel 1608, era un importante nodo di studi scientifici, all’interno dei quali l’anamorfosi costituiva un notevole centro di interesse. L’indagine costante nel mondo della fisica – alimentata dalla contiguità dei religiosi al pensiero di Cartesio – aveva avuto, in quel luogo, anche comprensibili sbocchi decorativi. Sopra l’altar maggiore della chiesa del monastero “si vedeva un corpo di Cristo in equilibrio precario”. Nell’edificio erano anche rappresentati, secondo i principi ottici dell’anamorfosi, un “San Giovanni Evangelista che scrive l’Apocalisse” e “San Francesco di Paola”, fondatore, appunto, dell’Ordine dei Minimi. La prima opera fu dipinta da Niceron – autore del trattato “Thaumaturgus opticus” – prima a Roma, poi a Parigi. “La seconda è opera – scrive Baltrusaitis – del padre Emmanuel Maignan, ed è rimasta intatta nel convento romano in cui faceva da pendant all’anamorfosi del confratello parigino, scomparsa in seguito ai danni causati all’edificio dai soldati francesi che occuparono l’edificio nel 1798”. Per realizzare questo dipinto (del quale vediamo qui l’immagine in scorcio, che offre la visione di San Francesco di Paola) il monaco-artista mise a punto una complessa macchina, “simile a una forca per impiccagioni”, dalla quale si dipartivano fili utilizzati per simulare i raggi visivi. Naturalmente quando l’affresco viene osservato da una posizione frontale, la figura del santo non appare. Frontalmente è invece visibile un paesaggio dalle linee dilatate nel quale appaiono il mare, paesi costieri e imponenti contrafforti.
Emmanuel Maignan, “San Francesco di Paola”, affresco anamorfico, 1642
Emmanuel Maignan, “San Francesco di Paola”,
affresco anamorfico, 1642

L’anamorfosi e la teologia: la Verità da un solo punto di vista. Uno dei motivi per i quali l’anamorfosi fu, nel Seicento, particolarmente studiata dai religiosi risiede nella valenza teologica della visione illusoria che si ricompone in un quadro di senso soltanto da un punto di vista. Veniva così sottolineata la facilità con la quale i sensi possono essere ingannati da una realtà che, solo all’apparenza, è trasparente alla comprensione. Dietro l’inganno del visibile, emerge invece la verità, attraverso la “vera via”, che si colloca, come Dio, al di là del sembiante. Una strada che deve essere imboccata soltanto da un punto di vista che non può essere centrale. “Tutto ciò che io ho fino ad oggi accettato per vero e per certo – scriveva Cartesio nella prima delle “Meditazioni metafisiche” – l’ho appreso dai sensi o mediante i sensi: ora in qualche caso sono riuscito a dimostrare che quei sensi erano ingannevoli, ed è proprio della prudenza non fidarsi mai più completamente di coloro che ci hanno ingannato una volta”. La ricerca del vero senso del dipinto giunge a compimento soltanto attraverso l’osservazione da uno o più segreti punti di vista, che riordinano il turbinio della realtà, indirizzando gli occhi verso i fondamentali dell’Essere. Omnis in unum: questo il motto che appare nella raffigurazione di un’anamorfosi del 1654. Tutto in uno. “Omnis, il tutto, il mondo intero col suo caos, le sue divisioni e i suoi enigmi – scrive Baltrusaitis – riappare nell’armonia e nella chiarezza in unum, vale a dire nello specchio luminoso che simboleggia un ordine superiore”.
Abraham Bosse, “I prospettici”, 1648
Abraham Bosse,
“I prospettici”, 1648

Così erano collocati “Gli ambasciatori” per far emergere il teschio dalla sala. Uno dei quadri più celebri nei quali appaia una proiezione anamorfica è il dipinto di Hans Holbein intitolato “Gli ambasciatori” (1533). Il disco fortemente scorciato che appare obliquamente, in sospensione sul pavimento, è, come ben sappiamo, la raffigurazione di un teschio. I due personaggi, ritratti a grandezza naturale, sono Jean de Dinteville, signore di Polisy (1509-1542) e George de Selve (1509-1542). Gli oggetti accumulati sullo scaffale al quale i due appoggiano il braccio risultano evidenti rappresentazioni dell’impegno intellettuale e artistico finalizzato alla conoscenza. Ma per quanto tutto il quadro sia segno di una tensione estrema nei confronti del sapere-potere – e dei piaceri ad esso connessi -, l’ambizione umana si deve arrendere di fronte al mistero della morte, che non appare immediatamente evidente, ma che richiede uno sforzo di chiaroveggenza, in base al quale ogni vanità sarà ricollocata nella giusta dimensione. “Nel castello di Polisy (…) – annota Baltrusaitis – esso fu senza dubbio collocato da Dinteville in una grande sala, di fronte a una porta e vicino ad un’altra, ciascuna di esse in corrispondenza con uno dei due punti di vista. (…) Il primo atto comincia quando il visitatore entra dalla porta principale e vede davanti a sé, a una certa distanza, i due signori che si stagliano sullo sfondo, come su un palcoscenico. (…) Un punto solo li turba: lo strano oggetto che vede ai piedi dei due personaggi. Avanza per vedere le cose più da vicino: il carattere fisico, quasi materiale, della visione, aumenta quando si avvicina, ma quell’oggetto singolare rimane assolutamente indecifrabile. Sconcertato, il visitatore esce dalla porta di destra, la sola aperta, ed eccoci al secondo atto. Quando sta per inoltrarsi nella sala attigua, gira la testa per dare un ultimo sguardo al dipinto, e in quel momento capisce tutto: per l’improvvisa contrazione visiva la scena scompare e viene fuori la figura nascosta. Dove, prima, tutto era splendore mondano, ora vede il teschio. I due personaggi, con il loro apparato scientifico, svaniscono, e al loro posto nasce dal nulla il segno del Nulla. Fine della rappresentazione”.
Hans Holbein, “Gli ambasciatori”, 1533
Hans Holbein, “Gli ambasciatori”, 1533

L’anamorfosi in chiave di divertimento popolare. Importante per la diffusione della tecnica anamorfica – e della sua estensione da un mondo di iniziati alla realtà popolare – è l’utilizzo, a partire dal Seicento, di uno specchio cilindrico o conico che veniva collocato al centro del foglio e che condensava le linee incomprensibili del disegno sottostante, fino ad ottenere, sulla superficie convessa, l’immagine che era stata nascosta sul piano. Questo sistema, con il passare del tempo, si prestò ad essere trasformato in un divertimento popolare. Alcune case editrici, nell’Ottocento, diffondevano anche disegni licenziosi che si ricomponevano soltanto con l’utilizzazione di uno specchio.