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Andy Warhol – Perchè ripeteva in modo ossessivo lo stesso soggetto? I suoi film


di Stefano Roffi
 
L’interesse per la ripetizione del soggetto, per la sua glorificazione e, al contempo, demistificazione si presenta in Warhol già nell’infanzia: pare infatti che Andy a otto anni si divertisse a proiettare per ore sulle pareti di casa il medesimo film di Mickey Mouse.
All’inizio degli anni Sessanta, quando è un artista in ascesa della scena pop newyorkese, adotta il cinema come campo di sperimentazione parallelo alla pittura, girando film muti con attori tecnicamente non preparati dove l’eloquenza del corpo sostituisce l’interpretazione tradizionale. Con la sua cinepresa 16 mm Warhol esegue una registrazione impassibile della realtà, trasformando se stesso in macchina; i primi film, infatti, vanno intesi quale evoluzione del lavoro avviato con la Campbell’s Soup: volti come lattine.
La riproduzione delle immagini fabbricate dai media, alla base dell’interesse estetico di Andy, comporta l’adozione di tutte le tecniche della serializzazione, della moltiplicazione di poche icone selezionate in virtù della loro pregnanza, anche se spesso possono sembrare, nella loro banalità, casuali. Viene usata la riproduzione filmica per restituire la dimensione della durata di oggetti dell’immaginario urbano o quotidiano, con un’operazione che recupera sul piano della temporalità, proprio del cinema, quei processi di dilatazione già realizzati nella bidimensionalità della serigrafia e della pittura. I suoi film risultano così conformi all’estetica del Warhol pittore, delle sue opere in cui la ripetizione seriale nega il concetto stesso del tempo e dello spazio, senza inizio e fine e senza un luogo d’azione preciso e caratterizzante.
Mai conquistato dalla vita, egli frappone tra la propria sensibilità albina e le persone che lo interessano un diaframma protettivo, costituito dalla cinepresa, evitando ogni tipo di approccio emotivo. Riprendere e registrare diventa un modo per distaccarsi, trasformando la realtà in una realtà mediata.
Andy così si esprime col consueto distacco provocatorio: “Trovo il montaggio troppo stancante. Lascio che la camera funzioni fino a che la pellicola finisce, così posso guardare la persone per come sono veramente”. “Ho girato i miei primi film utilizzando un solo attore che fa la stessa cosa sullo schermo per parecchie ore, mangiare o dormire o fumare; e l’ho fatto perché di solito la gente va al cinema solo per vedere la star, per divorarla; in questo modo invece ha almeno la possibilità di guardare solo la star quanto le pare, qualsiasi cosa stia facendo, e divorarsela finché ne ha voglia. Inoltre era anche molto più semplice da realizzare”.
Warhol avverte che la vita è troppo vana per pensare che si possa ingabbiare in schemi cervellotici: egli “moltiplica” la società del consumo, ponendola di fronte a mille specchi e rendendo ciò che vi è riflesso ancora più vuoto della prima matrice, tanto che lo spettatore finisce per accorgersi dell’inconsistenza dell’originale. Il cinema fornisce all’artista elementi per la sua ricerca estetica, pittorica e filmica: attraverso allusioni e rimandi espliciti vengono ripresi figure e miti dell’immaginario hollywoodiano per farne un uso dissacrante o per utilizzarli come materiali per un gioco di contaminazioni.
Sleep ed Empire, girati fra il 1963 e il 1964, come i successivi film di Andy, contengono una forte carica critica verso l’audience, presentando immobilità e assenza di narrazione (un uomo che dorme e l’Empire State Building in ripresa fissa) – l’esatto contrario dell’azione scenica delle storie che conquistavano il pubblico -, per di più per una durata inconsueta e insopportabile; alla prima proiezione di Sleep assistono nove persone, due delle quali abbandonano la sala dopo meno di un’ora.
 

 

 
Kiss (1963) mostra per circa cinquanta minuti numerose coppie di ignoti mentre si baciano, riprese una alla volta a comporre un’antologia/campionario del bacio stesso. L’intensità dell’amplesso supplisce all’assenza di espressione, fornendo al regista una fonte emotiva alternativa alla mimica dei visi, annullati in funzione della ripetitività di un atto, topico del cinema hollywoodiano, che riproduce e parcellizza la sensualità carismatica del bacio-maratona delle star Ingrid Bergman e Cary Grant in Notorius di Hitchcock. Warhol commuta durata mitica e fascino divistico in serialità e indifferenziazione pop; baci parodistici i suoi, che assurgono alla gloria dello schermo per il solo fatto di essere filmati da un artista.
 

 
I film di Andy capovolgono così i postulati del cinema narrativo hollywoodiano, dimostrando il rifiuto verso qualsiasi regola formale con lunghe sequenze prive di montaggio, inquadrature fisse sul soggetto e rari movimenti di macchina – oltre trent’anni prima del manifesto catartico Dogma 95 di Lars von Trier -, con una banalizzazione parodistica della tradizione, per dichiarare, anche col cinema, l’avvento della “business art”, mirata a produrre utili grazie alla sua godibilità di massa.
E’ del 1965 Vinyl, con Edie Sedgwick, giovanissima ereditiera “carpita” come musa da Warhol, che in lei vede “un pezzo d’arte pop camminante”. Edie incarna l’immagine mitologica hollywoodiana del “sogna come se potessi vivere in eterno, vivi come se dovessi morire oggi” nata pochi anni prima con James Dean.
 

Il film è la prima trasposizione cinematografica del romanzo di Burgess Arancia Meccanica: in un contesto di degradante, distaccata drammaticità, il titolo stesso, Vinyl (vinile ovvero falsa pelle, volgarizzazione commerciale della vera pelle del giubbotto simbolo delle icone Dean e Brando), sintetizza l’idea di falsità e di parodia che ne permea lo sviluppo, soprattutto a sottolineare l’irrealtà delle torture mostrate. Sineddoche delle proprie incredibili gambe, alter-ego dell’indifferenza del regista, Edie osserva annoiata, strafatta ed astratta la scena punitiva che si svolge sotto i suoi occhi, conferendo al film un senso di grottesco straniamento.
Andy abbandona rapidamente Edie sostituendola come un prodotto scaduto con la new-entry Nico, dea lunare e voce spettrale dei Velvet Underground. Nico è il personaggio più memorabile di The Chelsea Girls (1966), nato come una sorta di ritratto a tutto tondo della variegata umanità che popola la Factory di Warhol. Il film riunisce brandelli di vita “in diretta”, pieni di disperazione, durezza e panico, in cui le Superstars inventate dall’artista (Ingrid Superstar, la medesima Nico, Malanga, Ondine, Brigid Polk, sorta di avatar delle dive hollywoodiane in versione genuinamente esagerata) sono riprese in situazioni di conflitto con gli altri o con se stesse.
 

 
La proiezione “a dittico”, in modo che allo spettatore si presentino affiancate due situazioni, una sonora e l’altra muta, una a colori e l’altra in bianco e nero, genera un effetto di confusione vagamente schizofrenica. Warhol porta quindi sullo schermo pseudo-icone inattendibili, per affermare che il potere è tutto dell’immagine e della comunicazione commerciale: attrici drogate e incapaci, usate come bambole e colte in atteggiamenti privi di contenuto, possono conseguire la celebrità tanto quanto le talentuose e impegnate Liz e Marilyn, tutte in definitiva prodotti di consumo con un destino di uso e distruzione da parte del sistema.
Il medium si impone sull’autenticità della rappresentazione, rendendola insignificante. La recitazione si espande in un’ambiguità tra il reale e l’irreale; gli attori recitano se stessi, ma non per questo la conduzione registica è secondaria o la sceneggiatura assente. In The Chelsea Girls, Andy costruisce i personaggi partendo dall’identità psicologica e fisica di chi intende usare come attore, accuratamente selezionato attraverso “screen test” in cui i soggetti vengono scrutati con imbarazzante invadenza, non per metterne alla prova le capacità ma per riconoscere in loro le caratteristiche degli individui che interpreteranno con naturalezza i ruoli che Warhol ha nel suo copione mentale.
Ai divi di Hollywood iconizzati nelle serigrafie e così affidati all’inattualità e alla fissità funerea del culto dell’irrealtà egli oppone quindi la vitalità autentica delle sue cavie da cinepresa, ricreando una Hollywood di retrofacciata, con personaggi colti negli atti quotidiani, una banda di esseri veri e disperati che non fingono, ma litigano, si bucano, piangono per sincera sofferenza: l’algida Nico non si atteggia a diva felice dell’idolatria che ispira per poi rinchiudere e mascherare nella propria corazza bionda drammi di droga e dolore forieri di morte come la Marilyn finale, già potenzialmente sorridente dalla pagina dei necrologi del Los Angeles Times.
Quindi un cinema basato su esperimenti con le persone, un “Big Brother” pionieristico in cui gli attori vengono in apparenza coinvolti per dar vita a uno spaccato di interazione umana con comportamenti spontanei, mentre in realtà ognuno corrisponde a un preciso identikit psico-fisico costruito dallo sceneggiatore, che non ricerca capacità interpretative ma persone/personaggi che combacino col ruolo che ha in mente, ossia quello di smontatori dell’ideologia divocratica.
In questo modo Warhol rivoluziona la funzione tradizionale della regia e della sceneggiatura, alle quali attribuisce un significato di carattere eminentemente psicologico che in fondo si esaurisce nel casting e nei provini; in seguito l’“attore” dovrà soltanto essere se stesso. Una “psico-regia” che culmina con Lonesome Cowboys (1967), anche questa una parodia della Hollywood mitica e dei suoi eroi del West machi e monoespressivi, l’ultima pellicola che vede Andy in prima persona dietro la macchina da presa.

 
Tutta la parabola filmica di Warhol mostra l’artificialità del cinema hollywoodiano, stabilendo però nel contempo un rapporto di dipendenza con la più grande fabbrica mondiale di immagini e di immaginario, rapporto che implica il riconoscimento di un primato. Vince il banco.