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Antonio Canova erano due



di Lionello Puppi

Della seconda morte di Antonio Canova scultore sappiamo solo che accadde “a ore sette antimeridiane del giorno venticinque del […] mese di aprile” 1873 “nella casa di proprietà di Aita Vincenzo posta in Piazza di sotto al civico numero centonove” a Follina, cittadina del Trevigiano celebre per la mole enigmatica dell’abbazia benedettina che la domina.

Se delle circostanze – la lunga e straziante agonia: con le viscere lancinate da crampi insopportabili, il respiro soffocato dai soprassalti di singhiozzo e vomito, e la mente agitata da dubbi sul testamento espresso – della prima morte di Antonio Canova scultore, avvenuta nella casa di Bacino Orseolo a Venezia suppergiù alla stessa ora, ma del giorno 13 ottobre 1822, sappiamo tutto, la seconda resta avvolta dal mistero e adombra domande allarmanti.

Antonio Canova (1814-1873), Esercizi0 di nudo
Antonio Canova (1814-1873), Esercizio di nudo

Non ne conosciamo, infatti e per cominciare, le cause, giacché il dispositivo della “sentenza del Regio Tribunale Civile e Correzionale di Conegliano” pronunciata il 28 maggio 1873, in base alla quale, recuperate le complete coordinate anagrafiche del defunto, ne veniva autorizzata la sepoltura, sembra introvabile, insinuando, peraltro, il sospetto di frangenti inconfessabili visto che, nei tre registri dei verdetti pronunciati in materia civile l’anno 1873 e conservati nell’archivio di quel Tribunale, il nome di Antonio Canova non figura, suggerendo quindi il ricorso agli incartamenti d’assunto penale che, però, sinora son stati vanamente ricercati. Dall’ombra, tuttavia, di siffatta empasse, un paio di fatti balenano invitando malignamente a immaginare il peggio.

La comunicazione dell’ora e del giorno del “decesso di Canova Antonio” vien fatta

– recandosi “nel Palazzo Comunale di Follina” e comparendo “dinanzi a […] Tabacchi Giovanni Segretario Delegato Ufficiale dello Stato Civile per gli atti di nascita e di morte” – da tali “Cecchella Michele di Pietro di anni trenta contadino [e analfabeta] e Vezzato Giuseppe di Felice di anni ventisette tessitore, ambi assistenti del defunto e domiciliati a Follina”, ma la loro testimonianza è del “ventisei del mese di aprile a ore otto antimeridiane”, cioè di poco più di ventiquattr’ore dopo la morte del Canova, sopraggiunta – come dichiarano; e, sopra, ne abbiam preso atto – alle ore sette del giorno precedente.

Perché tanto ritardo? Ma, poi e ancora. Che cosa significa quella qualifica di “assistenti” del Canova che pur esplicitamente affermano nel momento in cui, però, sembrano saper solo che l’assistito doveva esser “domiciliato nel Comune di Venezia” e che si trovava “per caso in questo Comune di Follina”? Perché l’“Aita Vincenzo” nella cui casa il Canova perde la vita, non comunica in prima persona all’Ufficiale competente l’avvenuto decesso del suo ospite? E, infine: perché nei libri dei defunti della parrocchia di Follina il nome del Canova non risulta registrato? Arrischieremo più avanti qualche ipotetica e provocatoria risposta, anticipando per adesso il presentimento, suggerito dagli interrogativi testé avanzati, che la morte possa ascriversi a suicidio.

Antonio Canova (1814-1873), Esercizio di nudo
Antonio Canova (1814-1873), Esercizio di nudo


Come che sia andata, l’indagine approdata all’introvabile “sentenza” liberatoria del 28 maggio 1873 metteva anzitutto in chiaro che “lo stesso [Canova Antonio] era figlio di Alvise e di Tonei Angela, scultore, di anni cinquantanove, domiciliato a Venezia e coniugato a Milani Luigia” e intimava la redazione rettificata e completa dell’“atto di morte” nei registri dell’Ufficio di Stato civile del Comune di Venezia. Ci fa poi sicuri che la resurrezione di Antonio Canova non avvenne all’interno di una trama di parentele – ancorché ci consegni la sorpresa di sapor fatidico di un comune nome materno, Angela -, giacché era stato del 10 luglio 1814 il battesimo impartito dal “Molto Reverendo Padre Luigi Balbi ex monaco cassinese patrizio veneto” nella chiesa veneziana della Madonna dell’Orto ad “Antonio Baldissera Giuseppe figlio di domino Alvise Canova di Sebastiano veneto, fabbricator di fornaci e di Angela Tonei jugali, nato il primo corrente”; la coppia abitava “in Corte Nova di San Gerolamo al n° 2391” e metterà al mondo subito dopo un altro figlio, Sebastiano, nato il 5 aprile 1816 e battezzato tre giorni appresso.

Dell’attività di Alvise – altra volta designato “possidente”, altra “negoziante”, altra ancora “fornasier” -, sappiamo poco, mentre apprendiamo che la famiglia s’accrescerà di nuovi arrivi: Giovanni, nato il 29 settembre 1825; Giovanna, nata il 17 febbraio 1829 ma morta poco dopo; Domenico, nato il

21 luglio 1831; Luigia, nata l’8 ottobre 1833, al fonte dei quali – messi alla luce dalla stessa levatrice, una Angela Rossi della parrocchia di San Marcuola – non appaiono, in qualità di padrini, personaggi di particolar rilievo sociale.

Doveva svolgere attività di piccolo imprenditore funzionale all’edilizia, Alvise, traendone proventi bastanti ad assicurare al nucleo familiare un tenore di vita decente, anche al di là della sua morte: che dovette accadere verso la metà degli anni Trenta, suggerendo alla vedova di trasferirsi al civico 4103 di Cannaregio insieme con tutti i figliuoli, ciascuno dei quali ormai – ad eccezione di Antonio – esercita una propria modesta attività artigianale, giusta un censimento della popolazione databile intorno alla metà del secolo: se Giovanni è militare di leva dal 1846 (e perirà, affogato nel Sile, sette anni dopo: un suicidio?) e Luigia è ancora nubile, Domenico fa il “fabbro” e Sebastiano – che, nel frattempo, ha perduto la moglie Paola Furin dalla quale aveva avuto due figlie, rimaste con lui – il “venditore di sale”.

Ma Antonio, dunque? Sta con la famiglia, certo; per “gravi motivi”, la cui natura ignoriamo, s’è già “disunito” dalla moglie Luigia Milani (che era di otto anni più giovane di lui, e doveva averla sposata nei primi mesi del 1848, forse quindi nel bel mezzo della breve stagione repubblicana guidata da Daniele Manin, visto che il certificato di stato libero della donna data del 26 gennaio) ed è designato “scultore”, ciò che significa, anzitutto, che i genitori avevano riservato a lui un livello di istruzione e di educazione che non potevano garantire agli altri figli, ed era inevitabile trattandosi del primogenito. Ma perché consegnarlo all’Accademia delle Belle Arti anziché ad altri studi? Ne era predestinato nel momento in cui, al fonte battesimale della Madonna dell’Orto, riceveva il nome inevitabile e necessario di Antonio?

Se gli archivi dell’Istituzione

– governata in quegli anni, con un’autorità che sconfinava nell’autoritarismo, dal “segretario perpetuo” Antonio Diedo, portatore ostinato di una visione classicistica ormai anacronistica – ci consentono di restituire i lineamenti del curriculum scolastico di Antonio Canova, che fu di lena insolitamente lunga tragittando dal 1829, allorché il

24 marzo lo troviamo immatricolato alla Scuola di Ornato, al 1838, quando ne cogliamo la conclusione appagante, non sapremo mai quali, nell’ambiente, sia dalla parte dei professori (sino ad un incontro imprescindibile) sia degli studenti, possano esser stati gli atteggiamenti espliciti, i comportamenti aperti (burle, frizzi, facezie? esitazioni, perplessità?) verso chi, nel nome, replicava la presenza di colui ch’era stato, ed era, nume tutelare della Scuola cui aveva donato il cuore, né come il giovanotto reagisse.

Pagine di un opuscolo dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, dove Antonio Canova II appare tra i premiati
Pagine di un opuscolo dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, dove Antonio Canova II appare tra i premiati



Certo si è che aveva cominciato maluccio: sembra reticente, non brilla; e le note, che riceve intorno alla disposizione allo studio, alla condotta, all’applicazione, al profitto, sino al 1831 son ben poco lusinghiere, visto che si distingue piuttosto per aver “manc[ato] a moltissime lezioni”, quasi l’ambiente lo soffocasse e gli risultasse, insomma, insopportabile. L’iscrizione alla Scuola di Statuaria, nel 1835, sembra però liberarlo e riscattarlo: perde solo quattro lezioni su diciannove nel biennio 1835-1836 e altrettante nel successivo; una, nel biennio 1837-1838: in Luigi Zandomeneghi ha trovato un maestro che gli accorda fiducia e lo segue con assiduità, provvedendo anche a motivare le assenze. “Sono in parte scusabili

– scrive alla Presidenza -, in parte pienamente giustificate e basterà che [chi di dovere] scorra i rapporti mensili per essere generoso verso quell’alunno che attese grandemente all’invenzione (e lo troverà anche registrato negli studi di statuaria […]) come si potrà vedere […] in un bassorilievo che esprimerà Alessandro alla vista di Diogene”.

Punta veramente in alto, per lui, quel maestro. Del resto, non porta il nome di Antonio Canova, l’allievo sul quale ha concentrato l’attenzione? Ebbene, ch’egli sia Antonio Canova redivivus. Mentre altri scolari già ricevono commissioni per l’adornamento di spazi ecclesiali in piccoli centri della prossima terraferma, il nostro predestinato s’apparta, si concentra, s’esercita, e già una nota del

1° dicembre 1835 lo sorprende mentre “sta modellando un gruppo di tutto rilievo con pienezza di sentimento e di grazia”, che son qualità anche in seguito riconosciutegli, con doti di “stile, invenzione” e buona disposizione per la “scultura eroica” espressa a “rilievo intero”.

Poco alla volta, Zandomeneghi lo avvicinava alla ruota del destino della sfida diretta che, nel 1838, lo porrà davanti al gruppo di Teseo in lotta con il centauro, per copiarlo dal modello in gesso del marmo – ch’era stato acquistato dall’imperatore Francesco I per collocarlo nell’imitazione dell’ateniese Theseion eretta nella Hofburg di Vienna (ma è oggi nel Kunsthistorisches Museum) – che il fratellastro del primo Antonio Canova, Giambattista Sartori, aveva donato all’Accademia veneziana (ma oggi sta in deposito presso la gipsoteca di Possagno): capolavoro concepito nella luce di Fidia, trepidamente atteso e poi acclamato da Quatremère de Quincy nella monografia di un paio d’anni prima.

Poteva rallegrarsi, Zandomeneghi, illudendosi di aver visto giusto. “Questo gruppo meraviglioso per profondità di sapere e forse di sentimento fu ben colto nel suo complesso e felicemente eseguito, per il che, se non si fosse avvertito qualche difetto nella gamba del Teseo e nella scoperta parte del centauro, avrebbesi senza più coronato col primo premio che per tali mende si converse in secondo”. Tant’è. Siam alla data del 1° luglio e un biennio appresso, il 5 agosto, Antonio Canova redivivus, con altrettanti bassorilievi, riceverà pieno riconoscimento per l’“invenzione”, il “nudo aggruppato” e il “nudo semplice”: non più copie dall’omonimo scultore, ma esercizi alla maniera di lui.

Copia della Danae di Correggio. Il rilievo,  oggi nei Musei di Berlino, è stato attribuito al primo Canova.  All’“altro” Canova lo assegna invece Lionello Puppi
Copia della Danae di Correggio. Il rilievo,
oggi nei Musei di Berlino, è stato attribuito al primo Canova.
All’“altro” Canova lo assegna invece Lionello Puppi

Orbene: ci è dato di verificare e confermare il giudizio al cospetto di tre reperti che son giunti a noi, e ci volevano l’insaziabile curiosità e il naso, per scovarli, di Guerrino Lovato – uno scultore, anche lui, che ci ha restituito le plastiche grazie decorative del Teatro La Fenice; ed ama affrontare enigmi iconografici -, il quale ci s’imbatté mettendo in ordine il fondo di calchi e rilievi, che aveva sagacemente acquistato, provenienti dalla bottega veneziana di quell’Emanuele Munaretti che fu fonditore celeberrimo, e la cui perizia s’era misurata con i malanni sofferti nel tempo da capolavori bronzei quali i celeberrimi Cavalli di San Marco e la Cancellata del Gay nella Loggetta sansoviniana.

A capo di quali peripezie fossero capitati là, quei tre reperti, non è dato appurare, ma sarà stato ben dopo il 1882, quando il Munaretti ventiquattrenne, invitato dalla Ditta Arcuati (di cui, in seguito, rileverà la Fonderia) si stabiliva dalla natia Vicenza tra le Lagune: e resta, comunque, che l’iscrizione sul più integro, che Lovato tien esposto nella sua bottega Al Mondo Novo presso Campo Santa Margherita (“Premio ad Antonio Canova di Venezia, 1838”), rimanda al bruciante quesito su cui, per sua beffarda incitazione, ci stiamo arrovellando; e a lui, a Guerrino quindi, non possiamo che dedicare le pagine – queste – che ne son venute fuori.

Ma, torniamo al nocciolo: che ci preme, ed è, una volta di più, un interrogativo moltiplicato. Uscito, con encomio, dall’Accademia, l’avrà messa su una bottega, Antonio Canova? Ancorché non provato, è verosimile, mentre che l’avesse allestita in un qualche vano dell’abitazione di Cannaregio dove l’intera famiglia s’era arroccata all’indomani della morte del padre, è semplicemente immaginabile: per non soggiungere che, a muovere suppergiù dagli anni Sessanta, quel nucleo sin là così compatto, sembra esplodere e frantumarsi in schegge inafferrabili, sì da suggerir l’ipotesi onde Antonio si sia messo per conto suo, da qualche parte.

Doveva esser difficile di carattere (la separazione dalla moglie lo testimonia in maniera flagrante), incostante d’umore (l’iniziale svogliatezza all’Accademia lo suggerisce): e far lo scultore portando quel nome e cognome doveva tormentarlo; sembra nascondersi. Non s’è reperita traccia di commissioni pubbliche, civili o religiose, che possa aver accettato e onorato, e si capisce: quale Autorità sarebbe stata così stravagante da ricercare Antonio Canova dopo i funerali solenni di Antonio Canova il 16 ottobre 1822, e il deposito del suo cuore all’Accademia?

Se qualche progetto avesse coltivato Luigi Zandomeneghi allorché si prendeva cura del giovane alunno portatore di un nome che sembrava includere un destino, non ne conosciamo la natura, anche se non è da interdire il sospetto che l’abbia ben presto dimenticato, abbandonandolo al disorientamento e alla solitudine di chi è stato privato dell’identità. Non vi sarebbe stata immagine plastica che lo scalpello e il trapano di Antonio Canova avesse suscitato dal marmo, che ad altri potesse essere riconosciuta se non ad Antonio Canova, che era un altro; e scelse, forse, per sopravvivere, la pratica artigianale dello scalpellino anonimo, lasciandosi tuttavia tentare, di tempo in tempo, da qualche collezionista che, non potendosi permettere un’opera di Antonio Canova, si contentava di godersene una di chi per beffa della sorte portava quello stesso nome e, firmandola, non imbrogliava nessuno.


In effetti, e d’accordo con Guerrino Lovato, la Madonnina conservata in una stanza del palazzo veneziano delle Fondamenta Nuove, che fu del conte Emile Targhetta d’Audiffret, segnata sul retro Antonio Canova o il bassorilievo in terracotta che copia la Danae del Correggio e reca in basso a sinistra la scritta A. Canova scul., oggi nei Musei di Berlino, potrebbero esser usciti dalle sue mani, come le figure in stucco e gesso di Creugante e Damasseno vendute all’incanto da Sotheby’s a Londra il 9 marzo 2009.

L’ombra incombe sui giorni della fatale escursione a Follina di Antonio Canova; li avvolge di un buio impenetrabile. Se, al momento del decesso, stava in casa di un notabile del posto, perché – ripetiamo – non costui – e gli sarebbe bastato attraversar la piazza -, ma due sprovveduti contadini, e col ritardo che abbiam segnalato, lo comunicano all’Anagrafe del Comune, a malapena avvertiti di nome e cognome del defunto? Neppure di Vincenzo Aita, ora come ora, conosciamo alcunché, se non che porta il cognome della famiglia un cui esponente, Francesco, fu benefattore di un paese vicino, Crespano, ed ebbe rapporti col fratellastro del primo Antonio Canova, Giambattista Sartori.

Un altro scenario, tuttavia, brumoso e inosabile, è dato presentire, giacché non possiamo dimenticare che Aita (o Eita) è l’etrusca divinità che regna, onnipotente, sull’Oltretomba; e inculca la titubanza se, celata nell’apparenza del possidente Vincenzo, non abbia, pietosa, invitato a Follina l’abusivo e superfluo Antonio Canova, per schiudergli, nell’antica abbazia, il varco verso il silenzio glaciale della terra dei morti dimenticati per sempre.