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La pernice e il pavone – Il significato nella pittura antica





Il gallinaceo fu utilizzato in pittura come simbolo di lussuria, ma come un peccatore che poi torna alla Chiesa. Il pavone di Cristo riesce a cancellarne gli effetti negativi. La presenza dei due animali in Antonello, Bellini, Bruegel e Botticelli. E qualche piccolo mistero

“Come una pernice che cova uova da lei non deposte è chi accumula ricchezze, ma senza giustizia. A metà dei suoi giorni dovrà lasciarle e alla fine diverrà uno stolto”. Così scrive Gerolamo, Padre della Chiesa, avvalorando la connotazione negativa attribuita alla pernice, emblema del guadagno illecito. Secondo la tradizione, infatti, l’uccello era solito rubare le uova degli altri volatili e covarle. Ciò nonostante i piccoli, una volta venuti alla luce, si ricongingiungessero ai genitori naturali; e ciò significava che, nonostante il peccato dei genitori, i piccoli tornavano alla Chiesa. Tale comportamento era stato sottolineato dai bestiari medievali, i quali avevano collegato il gallinaceo all’immagine di Satana, che tenta di sottrarre i figli del Signore attraendoli a sé con lusinghe, ma inutilmente, poiché questi vengono richiamati alla fede dalle parole di Cristo. Successivamente, la pernice, simbolo di Afrodite, della fecondità e dell’amore presso la cultura greca, divenne attributo dell’allegoria della Lussuria, a sottolineare l’incontenibile follia amorosa di cui cade preda: nella Naturalis Historia, Plinio il Vecchio racconta che i maschi, spinti da irrefrenabile desiderio, rompono le uova affinché le femmine non siano occupate a covarle e siano disposte a nuovi accoppiamenti.



Leonardo da Vinci ne coglie il peccato e il pentimento: “Benché le pernici rubino l’ova l’una all’altra, non di meno i figlioli, nati d’esse ova – scrive – sempre ritornano alla lor vera madre”.
L’uccello compare in maniera ricorrente nell’iconografia di san Gerolamo, insieme al leone, compagno inseparabile del Santo. Bellini si cimentò svariate volte con il soggetto: risale forse al 1482 il San Gerolamo nel deserto, in cui l’artista ritrae il Padre della Chiesa a piedi nudi, con indosso una semplice tunica, immerso nella lettura della Bibbia, che aveva tradotto dal greco al latino. Il volto ha un’espressione attenta e concentrata, la fronte è corrugata, nell’atteggiamento proprio di un carattere forte e risoluto. Davanti al santo, accucciato nell’ombra della caverna, c’è il leone, descritto con fedeltà zoologica; in secondo piano, sulla sommità di un ramoscello, sta la pernice, dalle piume variopinte. Come per dire che l’agguato mortale, per l’anima umana, non viene tanto dal re della foresta, quando da un volatile, all’apparenza inoffensivo. Ciò invita il cristiano a vigilare, a cercare al di là della cortina dell’apparenza. L’interpretazione iconografica del San Gerolamo nello studio, tavola realizzata da Antonello da Messina nel 1474, preziosa come una miniatura, si configura in un fotogramma di natura umanistica: il santo non è un eremita in penitenza – come vorrebbe la tradizione iconografica, basata sulle fonti tradizionali -, bensì uno studioso sommerso dai libri con l’immancabile leone collocato in secondo piano, nei corridoi di casa. La scena è respinta all’indietro dall’arco ribassato, in stile gotico-catalano, che la incornicia, così da oggettivare lo spazio nel momento stesso in cui lo allontana e lo distingue dallo spettatore.


L’ambiente, maestoso e solenne, sembra quello di una chiesa, con tanto di abside e navate laterali. Straordinaria l’articolazione spaziale che si svolge intorno e al di fuori dell’abitacolo ligneo dello studio, attorniato da spazi più ampi che rivestono il ruolo di quinte scenografiche e, al tempo stesso, sembrano slegate dalla scena centrale, non intrattenendo un rapporto logico con essa, ma isolandola in una dimensione irreale, quasi onirica. Tuttavia quella profondità che si dischiude alla semioscurità di una rigorosa visione prospettica conduce l’occhio lontano, portando lo spettatore ad osservare la strada di cielo che conduce all’assoluto. Il gioco luminoso, di qualità fiamminga, contribuisce all’effetto unitario, poiché i raggi di luce coincidono con quelli prospettici; convergendo nel busto e nelle mani del santo, ne fanno il nucleo della composizione e gli conferiscono un’imponenza ben più pregnante di quella dimensionale. I numerosi dettagli realistici, minuziosamente rappresentati, sminuiscono apparentemente il senso alto dell’opera, ma in realtà sono sublimati nel loro assumere un valore simbolico. Sulla cornice posta in primo piano, al di fuori dell’azione, sono collocati due elementi allegorici: la pernice, uccello impuro, e il pavone, la cui interpretazione simbolica risulta ambigua, ma con frequenza legata alla resurrezione (e ricordiamo a questo proposito i pavoni che appaiono sulle lastre tombali longobarde, come fede nella resurrezione e nel Paradiso).
Anticamente, il pavone era l’animale sacro a Giunone, la sposa di Giove: le macchie colorate caratteristiche della sua coda erano gli occhi di Argo, posti dalla dea in memoria del fedele guardiano incaricato di custodire Io e ucciso da Mercurio. Il cristianesimo delle origini assegna all’uccello significati per lo più positivi, in base alla credenza secondo la quale esso perde le piume con l’arrivo della stagione autunnale per riacquistarle in primavera. Ed è per questo che è diventato simbolo della rinascita spirituale e quindi della resurrezione. Il sontuoso volatile che esibisce un iridescente, splendido ventaglio, che sembra dipinto da un divino pittore, è altresì emblema dell’incorruttibilità del corpo, perché si riteneva che le sue carni fossero imputrescibili. Non solo: due pavoni che si nutrono ad un calice ansato, o a una fonte o a delle ramificazioni di vite, con o senza il monogramma di Cristo (Xsto), rappresentano il motivo dell’eternità del frutto eucaristico. In seguito i bestiari di epoca medievale ne hanno evidenziato anche una connotazione negativa, legata al fatto che l’uccello ama gironzolare esibendo, presuntuoso, il suo meraviglioso piumaggio.



Alla luce di questa lettura il pavone potrebbe allude alla vanità mondana, alla superbia e all’arroganza, anche se, in verità, sotto il profilo iconografico, questa connotazione e più tarda e meno diffusa. Negli stessi anni in cui Antonello lavorava al San Gerolamo, Botticelli realizzò un capolavoro, l’Adorazione dei Magi (1474-1475), dipinto dall’impaginazione grandiosa ambientato entro le rovine di un edificio antico dissestato. E’ una scena concitata: in primo piano, con cavalli, si assiepano i Magi ed altre umane figure rubate dalla cronaca fiorentina di quegli anni, mentre, sulla destra, un magnifico pavone si staglia contro lo sfondo di una città turrita. Chiaro, in questo caso, il significato attribuito all’uccello, allusione alla Resurrezione di Cristo. Nel 1610 Jan Bruegel collocherà il volatile nel rigoglioso e lussureggiante giardino del Noli me tangere, insieme ad altri animali e fiori carichi di valore simbolico, come la rosa, simbolo della Vergine Maria, “rosa senza spine”, l’iris, altro attributo mariano, e i topi, immagini del diavolo divoratore. Evidente la volontà dell’artista di contrapporre il pavone, simbolo ancora una volta di virtù spirituale e resurrezione, ai roditori, esseri infausti dalle facoltà demoniache, legati alle potenze delle tenebre.
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[PDF] Attenti alla pernice sull’uscio



STILE ARTE 2007