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Caro restauratore, sei apocalittico o integrato?


di Maurizio Bernardelli Curuz

Facciamo il punto sulla situazione attuale del restauro, anche alla luce della polemica aperta da Beck, con Andrea Galeazzi, direttore di “Kermes”.

rest31Le polemiche sui restauri sono ricorrenti. A livello molto schematico potremmo individuare filoni di pensiero che poi si sottodistinguono in altre categorie. Ma la divisione è tutta, per recuperare una categoria di Umberto Eco, tra “apocalittici” e “integrati”. Gli apocalittici non credono ad interventi di restauro che non siano esclusivamente conservativi. Gli integrati puntano invece ad una ricostruzione pittorica delle lacune o a riportare l’opera, secondo una frase fatta, allo “splendore originale”. Ora James Beck, noto storico dell’arte americano, conduce dalle pagine di “Kermes”, la rivista del restauro da lei diretta, un attacco durissimo ai “ricostruttori”.
Trovo la sua proposta terminologica particolarmente appropriata per cogliere il fenomeno “restauro” oggi, nella nostra cultura. Certamente ogni sintesi deve tralasciare una precisa corrispondenza ai singoli casi, ma i termini “apocalittici” e “integrati” sono molto adatti, proprio per la loro umana generalità e, per altri versi, inevitabile equivocità. Dal mio punto di osservazione, come direttore dell’unica rivista in Italia non espressione interna di istituzioni statali che da quattordici anni si dedica al restauro, l’orizzonte è ampio, e mi appare con assoluta evidenza che non si può considerare la realtà restauro riferendosi solo ai professionisti che sviluppano progetti e interventi di tutela, conservazione, restauro vero e proprio; il restauro coinvolge l’intera comunità culturale, nei suoi diversi livelli e settori. In effetti, se il solito indiscreto marziano si affacciasse incuriosito su di noi, l’idea – e adeguata – più evidente che trarrebbe dall’osservazione del nostro modo di vivere il restauro è questa: alcuni sono “apocalittici”, alcuni “integrati”. Eppure in oltre vent’anni di frequentazione, non ho mai udito un restauratore dichiararsi l’uno o l’altro! Chi ha ragione? Il marziano o il restauratore? Ovviamente tutti e due: parlano di cose diverse, pur riferendosi sia l’uno che l’altro al restauro. L’intervento sul patrimonio culturale, che è per definizione comune, investe direttamente gli interessi esistenziali, emotivi di tutti e di ciascuno. Ogni intervento o progetto di restauro è frutto di una risposta data ad uno dei più profondi e irrisolti problemi della nostra società: come rapportarsi al patrimonio culturale, che ovviamente non è solo artistico; come rapportarsi ai nostri valori. E’ in questa dimensione che trova un senso profondo una schematizzazione pur così impegnativa e generale come “apocalittici/integrati”. Effettivamente in noi si agita la contraddizione, che si rinnova continuamente, tra un presente da vivere e un senso che diamo a questo presente proprio per la memoria del suo passato. Con tutte le complicazioni implicite nel passaggio: tra un Leonardo conservato nel suo stato presente e un Leonardo riportato all’antico splendore che motiva il valore stesso della testimonianza presente. Il marziano antropologo vedrebbe dunque senza stupore il nascere di polemiche anche accese e eccessive, pubbliche e seguite sui giornali e i mezzi d’informazione. Non sono i media che creano il “caso”, è il “caso” esistenziale e culturale che chiede, tramite l’opinione pubblica, l’attenzione dei media. Credo che in rapporto a questo si debba intendere l’alta risonanza che gli interventi di Beck ottengono sempre. Beck parla sempre anche alla nostra sensibilità esistenziale e culturale, chiama in causa un nostro profondo problema irrisolto. Diverso è il discorso del restauratore, inteso come professionista del restauro. Proprio in quanto tale egli non vive la problematica generale: questa l’affronta, come persona, e la risolve in qualche modo quando decide di essere e si conferma restauratore; altrimenti, è ovvio, sceglierebbe un’attività diversa. I suoi problemi sono altri; nel mondo del restauratore non esistono né apocalittici né integrati, né tanto meno mitici splendori originali da ricreare. I suoi problemi sono quelli di un professionista che opera nel proprio settore. E Beck non è – né in vero pretende di esserlo – un professionista del restauro. Non dobbiamo dunque intendere i suoi attacchi, che a volte appaiono effettivamente “durissimi” – ma, credo, anche per una qualche difficoltà nella perfetta comprensione della lingua e degli usi culturali italiani -, come interventi “tecnici”. Sono piuttosto allarmi lanciati verso atteggiamenti culturali che sono discutibili, non perché astrattamente errati o giusti ma perché sottoponibili a discussione, e che si trovano ad acquisire evidenza empirica solo quando si traducono concretamente in opera di restauro. Ovviamente l’opera di restauro, comunque sia, viene eseguita impiegando specifiche e reali tecniche d’intervento e facilmente la problematica esistenziale scivola, confondendosi e perdendo di definizione, in inconsistenti e inadeguate polemiche sulle tecniche. L’intervento di Beck “Leggibilità e restauro” pubblicato su “Kermes”, per quanto abbia provocato reazioni, anche inevitabilmente le più concettualmente scomposte, non è affatto un “attacco ai ricostruttori”. “Ricostruttori” – come termine contrapposto ad “apocalittici” – non pertiene alle modalità proprie dei restauratori e indica più una categoria dello “spirito” che della “tecnica”; e non è “attacco” perché è un invito, espresso certo con grande forza e senza delicatezze, a considerare infine e profondamente problemi di base della cultura del restauro. E’ in questo senso che “Kermes” ha ritenuto opportuno proporre lo scritto di Beck, pubblicandolo nella rubrica “Il Dibattito” che così si apre: “Gli interventi… non esprimono necessariamente il pensiero di “Kermes”; è l’esserci stesso della rubrica che esprime la volontà di “Kermes” di offrire uno spazio che possa essere stimolo, anche provocatorio, ad una sempre maggiore chiarificazione e costruzione di nuovi orizzonti di dialogo”. Più che attacco, dunque, volontà di dialogo.
I restauratori si difendono dicendo che il lavoro di pulitura della superficie del quadro si limita alla rimozione di antichi restauri e di vecchie vernici finali. Ma in questo modo, non c’è il rischio di eliminare ad esempio velature stese successivamente, per ammorbidire l’opera, dall’artista stesso? 
Lo spiacevole è che effettivamente a volte i restauratori sono posti pubblicamente nella condizione di doversi “difendere”, come se, è implicito, potessero essere “colpevoli”. Naturalmente anche i restauratori possono sbagliare, ma i loro eventuali errori si sviluppano in una dimensione talmente tecnico-professionale che nulla ha da condividere con le polemiche e i problemi di cui stiamo parlando. Un intervento di restauro oggi è operazione così complessa e ricca dei contributi scientifici di varie discipline e di diversi professionisti che se una velatura viene rimossa non è certo per “colpa” (chiaramente il discorso è diverso se consideriamo restauro quello che posso farmi io in casa la domenica…). Il problema è che cosa la società si attende dall’opera di restauro, cioè come la nostra cultura vive il restauro. Se Beck chiama provocatoriamente “lavaggi” le puliture, sicuramente non è perché non sappia distinguere tra l’opera di un un’impresa di pulizie e l’opera di un restauratore: anzi, sembra segnalare che la nostra cultura non ha chiara questa distinzione. E in effetti, terminologicamente dobbiamo ricorrere all’evanescente distinzione tra “pulizia” e “pulitura” – la pulizia dei pavimenti, la pulitura di un dipinto -, quando in realtà la nostra concettualità linguistica non distingue tra i due termini, definendoli ambedue “atto del pulire”. Certamente l’intervento di pulitura è critico e pericoloso, e deve essere affidato a professionisti; ma non è condotto correndo dei rischi (esclusi gli incidenti, imprevedibili in qualsiasi campo), come fosse fatto a caso, affidandosi alla fortuna. E’ sempre condotto all’interno di quel sapere, di quella scienza, e di quella coscienza, che la cultura della società dedica al restauro. D’altro canto c’è pure il rischio – si dice, anche ottimisticamente – che se non si interviene, nel volgere di decenni il nostro patrimonio artistico complessivo sarà decurtato del 50%…
L’ipotesi di Beck – non intervenire sull’originale – è comunque elitaria, e probabilmente non tiene conto della nuova richiesta di leggibilità dell’opera che viene avanzata dal pubblico. Lei ritiene che sia davvero possibile pensare solo a un restauro virtuale?
Da quando la parola “virtuale” è uscita dai laboratori di fisica delle particelle, dove è nata per specifici scopi teoretici, e scorazza indisturbata in tutti gli ambiti culturali, c’è in giro una ricchezza di “virtualità” non sempre facile da comprendere. “Restauro virtuale” – sul quale “Kermes” ha pubblicato interessanti articoli nei numeri 41 e 43 – è espressione nata, diciamo “ufficialmente”, nel 1994 nell’ambito dei beni documentali-bibliografici ad indicare una tecnica ed una metodologia che permettono l’accesso, tramite rappresentazioni digitali, a dati altrimenti illeggibili; ad esempio, si possono recuperare i testi nascosti nei palinsesti (manoscritti realizzati usando pergamene già usate per altri testi che risultano coperti e cancellati dal nuovo utilizzo). E’ chiaro che in questo senso il “restauro” può – non dico deve – essere sensatamente solo virtuale. Quando Beck propone alla discussione l’ipotesi “restauro virtuale”, il discorso si muove con significati diversi. Beck propone “per quanto riguarda la leggibilità… di offrire allo spettatore” un’immagine virtuale dell’opera, liberamente elaborata senza intervenire sull’opera originale, alla quale va riservata una “manutenzione regolare e sensibile”. Beck conclude: “Basta con gli interventi per la leggibilità sulle opere originali!”; non esclude l’intervento in sé, ma pone in discussione che un’idea generica di leggibilità possa essere la motivazione dell’intervento. Qui il discorso è più complesso, e ancora una volta non riguarda i soli restauratori ma tutta la cultura nel suo modo di intendere la “leggibilità” – leggibilità per chi? E soprattutto, leggibilità di che cosa? – e la “manutenzione”, cioè conservazione, cioè restauro. E’ un caso estremo, ma per ciò indicativo: le centinaia di migliaia di frammenti dei dipinti di Assisi crollati per il terremoto del 1997, stanno tornando a renderci visibili i dipinti per “manutenzione” o per “restauro”?


Quali sono stati, negli ultimi anni, i casi di restauro più controversi? E quali le motivazioni addotte dall’ala dei più critici?
Domanda semplice, addirittura cronachistica… ma solo apparentemente. Cercando i restauri più controversi non ci interessiamo ovviamente a quelli che hanno suscitato più discussioni metodologiche ed impegno di ricerca tra i professionisti addetti all’opera; cerchiamo invece i restauri che più hanno “fatto scandalo”. E allora la lista si compila elencando tutti i restauri che hanno coinvolto le opere riconosciute dalla nostra cultura come più rappresentative di se stessa; balza innanzi ancora una volta l’insoluto dilemma generale della nostra società: come rapportarsi al patrimonio culturale. In mancanza di una comune cultura del restauro, definita e quindi aperta a sviluppi, le controversie pubbliche, come quella sollevata da Beck su “Ilaria del Carretto” e sviluppatasi attraverso processi penali in tre diverse sedi, si affidano al supremo e pertinente giudizio dei tribunali!