Gualtiero Marchesi ce l’ha con chi arzigogola con il riso. Chi lo utilizza - ve ne sono casi anche recenti, pensiamo a certe campagne pubblicitarie - per improbabili, ridondanti architetture barocche.
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“Non c’è due senza tre” sentenzia, sorridendo, Gualtiero Marchesi. Parla di mozzarelle: e parla insieme di Forma e di Essenza, e della complementarità dei due elementi.
Si conclude in questo numero la “trilogia” che Gualtiero Marchesi ha voluto dedicare al genio di Kazimir Malevich. Dopo il “Quadrato nero su fondo bianco” ed il “Quadrato bianco su fondo bianco” - opere chiave dell’itinerario dell’artista russo - Marchesi eleva il suo inno alle più elevate e tipiche strutture compositive suprematiste. Uno dei piatti classici marchesiani, la costoletta alla milanese, è riproposto nella versione più “disarticolata” e frammentata: il vitello - tagliato alto, impanato e fritto nel burro - viene ridotto a dadini, così da permetterne la cottura su una superficie complessiva più ampia, con conseguente minore dispersione dei succhi e maggiore croccantezza.
Torno a parlare di Salvatore Sava. Il motivo è semplice. Questo artista mi è congeniale. Mi capita spesso - guardando alla sua produzione - di trovarvi affinità, tanto rilevanti quanto, talvolta, impreviste e imprevedibili. I lettori della nostra rivista ricorderanno, forse, le mie riletture di due opere di Sava (“Stile” 55), “Magica Luna” e “Le tre lune”. Me ne ero servito - per così dire - per ribadire una convinzione di fondo, alla base del mio credo creativo: per sostenere, cioè, che il Colore non vada lasciato a se stesso, ma vada piuttosto rafforzato dalla Materia. Quel concetto di Colore come entità inscindibile della Materia, insomma, che non mi stanco di ripetere, e che determina il perimetro delle mie contiguità con l’uno o l’altro artista. Ora chiedo invece aiuto a Salvatore Sava per parlare di Forma. Chiedo aiuto ai suoi “Fiori di pietra”.
L’ispirazione questa volta mi è venuta dal cielo. Sì, proprio dal cielo, e per la precisione da un cielo infuocato dal tramonto che incombeva sulla periferia milanese. Ero in viaggio quando, guardando in alto, ho visto il sole affogare all’orizzonte lasciando dietro di sé, per qualche attimo, l’impronta oscura d’un raggio, obliquo ed inquietante. L’immagine mi ha colpito, con la violenza d’una emozione vera.
Mi è successa una cosa strana. Ora ve la racconto. La premessa. Il mio amico Sandro Chia rilascia una bellissima intervista a “Stile”, nell’ambito dell’inchiesta che la nostra rivista sta conducendo sulla Transavanguardia.
L’artista è la mano. Il colore è il tasto. Il pianoforte è l’anima. Parole sacrosante, queste di Kandinskij. Pensavo all’importanza di tale concetto, alla sua valenza rivoluzionaria, quando, nella vetrina di un negozio di Parigi, ho visto un set di ciotoline cinesi di ceramica rossa, dalla forma insolita. La coincidenza mi ha impressionato; non ho resistito, sono entrato e le ho acquistate. Le immaginavo composte sulla superficie d’un tavolo, distese in un ordine-disordine fantastico, colmate ognuna da una diversa vivanda, con le conseguenti peculiarità di volumi, di forme, di consistenza, di sapori; di colori, soprattutto.