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Cimabue e Pisa


di Maurizio Bernardelli Curuz

Per quanto si tenda ad assegnare a Giotto la supremazia nel campo della svolta realistica in pittura – e la portata dell’evento-avvento giottesco sia ampiamente sottolineata dai contemporanei (“Credette Cimabue nella pittura tener lo campo / ed ora ha Giotto il grido, / sì che la fama di colui è scura” scriveva Dante, e Cennino Cennini, allievo di un allievo di Giotto, sottolineava il mutamento epocale tracciato dal grande maestro nel compiere una virata linguistica, passando dal “greco” al latino) -; per quanto più di due secoli dopo il Vasari avesse scolpito in modo imperituro nella biografia di Giotto le capacità di rivoluzionario novatore, come fondatore di una linea italiana finalmente affrancata da regole fisse e lontane, provenienti da Bisanzio; e per quanto, ancora – e in tempi piuttosto recenti -, il Longhi, in seguito alla mostra giottesca del 1937, abbia sottolineato la realtà pulviscolare del fenomeno artistico che precedette il pittore, la storiografia contemporanea, recuperando le conclusioni degli studiosi del tardo Settecento, ha cercato di individuare qualcosa di ben più incisivo e ampio di un indifferenziato humus dorato nel quale il maestro avrebbe posto le proprie radici, negando l’avvento ex abrupto del genio, per dimostrare, in linea con una visione fortemente storicista del percorso, che i precedenti – Cimabue a Pisa. La scuola pisana del Duecento da Giunta a Giotto – furono numerosi e di grande valore per la preparazione della svolta.


“E’ ormai del tutto sorpassata – scrissero  Mariagiulia Burresi e Antonino Caleca nel catalogo “Cimabue a Pisa. La scuola pisana del Duecento da Giunta a Giotto”, curatori nel 2005 della mostra  omonima  – una visione della cultura artistica bizantina come un mondo chiuso in se stesso, ripetitore stanco di modelli stereotipati, caratterizzato dalla povertà stilistica e da mancanza di attenzione per il dato naturale e per altre culture; invece l’immagine che ne abbiamo oggi ci consente di apprezzare la più che millenaria produzione artistica di quell’area nella sua continua differenziazione, anche tra fenomeni cronologicamente e geograficamente vicini e nel suo continuo scambio con altre civiltà figurative. Anche nell’arte, il mondo bizantino appare inoltre un fondamentale tramite tra mondo greco-romano classico e tardoantico e le epoche successive. Pensiamo, ad esempio, alle molteplicità di suggestioni che avrebbe potuto cogliere un artista occidentale, entrando, alla fine del Duecento, in un ambiente come Santa Sofia di Costantinopoli, chiesa tra le più insigni della Cristianità e ricchissima di testimonianze artistiche che si scalano a partire dall’età giustinianea, varie per tendenza stilistica”. Ma anche chi non avesse potuto giungere a una visita diretta ai grandi templi inondati d’oro e di pittura, avrebbe contato sull’osservazione di una messe di materiale vasta e di grandissimo interesse come “manufatti artistici portatili (icone, manoscritti, avori ed oreficerie, tessuti e così via)”.
“In questo quadro, Pisa – aggiungono Mariagiulia Burresi e Antonino Caleca – con la sua rete di traffici marittimi e il ruolo fondamentale che svolse nelle imprese economiche e militari del Mediterraneo, nel secolo XIII continuava a costituire un luogo d’incontro privilegiato tra le due culture”. Manufatti e maestranze bizantine giungevano nella capitale della Repubblica marinara. Tra i momenti cruciali indicati in ambito pisano alla metà del XII secolo rifulgono gli episodi legati alla produzione di Bibbie finemente miniate che denotano una profonda conoscenza della pittura mesobizantina “per la vivacità del segno e delle pennellate sintetiche che definiscono figure in atteggiamenti dinamici, con ricchezza di particolari negli incarnati e nei panneggi”.
“Recentemente abbiamo poi constatato – affermarono gli studiosi – che alla stessa maestranza si devono alcuni cicli di affreschi pisani, purtroppo pervenuti in stato di estrema frammentarietà, la maggior parte staccati in questo dopoguerra ed oggi conservati nel Museo Nazionale di San Matteo in Pisa”. Opere che contraddicono pienamente il luogo comune sulla fissità assoluta dell’arte bizantina anche per la capacità di “rappresentare con varietà tipi umani e scene diversificate” che “fanno di queste produzioni un elemento dinamico nella cultura artistica contemporanea: un innesto fecondo di elementi tratti appunto dalla gloriosa tradizione bizantina in una situazione dominata fino allora dalla tradizione artistica romana e da quella, in parte coincidente, imperiale romanica”.
Chiave di volta della maturazione di questa sintesi, risulterà Giunta, il pittore pisano che nel 1236 “firma la grande Croce dipinta (ora perduta) per la Chiesa superiore di San Francesco d’Assisi, su commissione di frate Elia, il successore di San Francesco come superiore dell’Ordine da lui fondato”. “Si tratta – sostengono Mariagiulia Burresi e Antonino Caleca – di una commissione tra le più prestigiose che si possano immaginare per il tempo. Giunta venne così ad essere il primo interprete delle idee dei francescani per quanto riguarda le immagini sacre”.
E a questo punto dobbiamo creare una piazzola panoramica di fondamentale valenza per comprendere l’accentuazione progressiva del realismo in pittura, proprio a partire da Giunta, grazie al collegamento stretto con i nuovi ordini e all’interpretazione iconografica della teologia francescana, che presenta forti elementi di novità. Il pensiero di Francesco scioglie la contraddizione dualistica, densa di sofferenza e di peccato, tra mondo sensibile e realtà spirituale. Il mondo, creato da Dio, è diretta emanazione della divinità. Questa apertura alla valorizzazione degli elementi divini insiti nella materia e il passaggio fondamentale nella considerazione di Cristo come divinità incarnata nell’umano – e ciò contro l’avanzata delle dottrine catare che non riconoscevano la corporeità di Gesù – accresce la necessità di un’iconografia che si distacchi da una visione esclusivamente spiritualista della realtà.
“Non sembra infatti causale – argomentano i ricercatori nel catalogo – che Francescani e Domenicani si siano rivolti a lui per la rappresentazione del Cristo crocifisso; è con lui che ritroviamo il Cristo morto, questa volta definibile con proprietà patiens, sofferente, o meglio, con i segni di una passata umana sofferenza.
Il Cristo viene rappresentato non più contornato dalle scene della Passione e dagli episodi post mortem, ma isolato su uno sfondo di stoffe preziose, e accompagnato dai soli Piangenti (Maria e san Giovanni Evangelista) ridotti a protomi nelle tabelle laterali e sovrastato dalla propria immagine in maestà. Alle intenzioni di illustrare la storia sacra delle croci precedenti si sostituisce il proposito di additare alla meditazione il Cristo uomo sofferente per la redenzione di tutta l’umanità e di ciascuno. Con ogni probabilità, questo cambiamento, che certo era corrispondente alle intenzioni dei committenti, nasce anche da una personale adesione del pittore al nuovo tipo di religiosità diffuso dagli Ordini mendicanti”.
La strada era stata tracciata. “Egli – scrivono gli organizzatori della mostra – mutò il corso della pittura in tutta Italia. Introdusse nella pittura i sentimenti, come richiedeva anche la nuova spiritualità di San Francesco. Cimabue con la sua pittura raffinatissima, trovò ispirazione in Giunta e nei suoi prosecutori, lavorò molto a Pisa e vi morì nel 1302, mentre eseguiva il mosaico dell’abside del Duomo, unica sua opera documentata. Già allora si imponeva anche a Pisa la nuova arte di Giotto, che si ispirava direttamente alla classicità, anche secondo le interpretazioni che ne offrivano le sculture di Nicola Pisano e di Arnolfo di Cambio”.