Press "Enter" to skip to content

Come decifrare i significati degli antichi reliquiari. Ce lo spiega Pietro Zampetti




di Pietro Zampetti
Segno dei tempi, quando il Louvre riservò alcuni suoi spazi a una mostra di successo. Essa non era dedicata agli amatissimi impressionisti, né ad altri famosi momenti della grande tradizione figurativa francese, che si prolunga nei secoli; neppure, dunque, ai fasti e nefasti di Caterina de Medici, regina di Francia, trionfante nelle tele celebrative di Rubens. Bisogna addirittura risalire agli inizi dell’anno mille, al periodo che, all’incirca, va dal 969 al 1150, a quando cioè risale l’arte romanica in Francia, la “France Romaine”, come suonava il titolo della mostra. Splendido momento della storia, che, tra l’altro, darà vita alla grande abbazia di Saint Denis, alla periferia nord della città, severa, sola e maestosa.

A questa epoca risale l’inizio del culto della reliquie dei Santi e, quindi, dei reliquiari-statue, spesso preziose. Da noi, con la tradizione ormai plurisecolare benedettina, le vicende si svolsero in modo continuo, ma discreto, direi silente. Basterà percorrere la parte sub-appenninica della valle del Fiastra, per averne testimonianze preziose ed illuminanti. Le chiese sono di origine conventuale, per comunità religiose: così San Paolo, così San Lorenzo e la Madonna di Rio Sacro. Ma anche tante alte. Hanno tutte una struttura simile, con la cripta sotto l’abside e il convento col piccolo chiostro a lato. La chiesa non è al centro del paese, ma questo nasce dopo, a parte, con gran rispetto per la comunità religiosa che probabilmente insegna alle povere popolazioni randagie in cerca di tranquillità, il modo di coltivare la terra, oltre che offrire la pace in Cristo, sull’esempio dei Santi. Nascono i reliquiari, le statue lignee che contengono frammenti di Santi martiri, da venerare specie nelle grandi ricorrenze. Ricordo, mi pare durante le sacre funzioni della settimana santa. Dopo solenni parole il sacerdote celebrante, questi prendeva un prezioso, dorato contenitore: appunto il reliquiario, e con quello benediva la folla dei fedeli, inginocchiati, taluni stesi a terra, per abbandono devozionale. Nel 1910 nella villa del Gattopardo, fuori Palermo, per iniziativa del cardinale, venuto dal nord, avvenne un fatto incredibile. La cappella della villa venne sconsacrata, tolto via il quadro dell’altare, che solo in apparenza era di carattere sacro, e sostituito con una madonna di Pompei, modesta formalmente, ma di schietta religiosità; mentre un sacerdote raccoglieva in un cesto “cartigli e scatoline contenenti ossami e cartilagini”. Solo alcune reliquie furono salvate, perché riconosciute autentiche: esattamente cinque in tutto, il resto gettato tra i rifiuti. Dopo il “repulisti” la cappella venne riconsacrata e, quindi, riaperta alle sacre funzioni. Non s’è meritata quella fine una teca ancor chiusa, con reliquie di Santi, che io ho riconosciuto, portandola via, dal negozio di un piccolo antiquario anconetano, per poche lire, molti anni or sono. E’ ancora chiusa e sigillata, e reca i bolli in ceralacca con uno stemma vescovile, a garantirne l’autenticità (autenticata, penso, per garantirne la chiusura, non altro). Contiene un vero universo religioso, proprio da sbalordire.

Reliquia della “Culla di Cristo”

C’è spazio per pregare, adorare per tutti, ogni devozione è accolta, ogni sacralità rispettata. In alto, al centro, v’è una croce, senza cartiglio veruno: quel piccolo frammento di legno faceva parte della croce, dove Cristo venne martirizzato. In corrispondenza, al di sotto, piccoli frammenti di legno, stavolta chiaramente dichiarati: “de culla D.N.J.C.”. Quindi tutt’intorno, in alto, in basso, lungo le fiancate laterali, un vero universo del mondo religioso, una conoscenza agiografica profonda, quasi, si direbbe preoccupata di mancar di riguardo ad alcuno. Eppure la disposizione non convince. I santi sono in ordine sparso, intendo non avvicinati, né secondo una logica temporale, dai più remoti a quelli più recenti, e neppure, si direbbe, quella della simbiosi religiosa. Non è facile nominarli tutti, ma sono in grado di citarne un buon numero, per giungere ad una possibile lettura e comprensione di questo raro “reliquiario”. Dico raro, perché ha superato la crisi del controllo ecclesiastico ed è giunto a noi con la chiusura ermetica (da aggiungere, di cattivo gusto) e relativi bolli, a garantirne l’autenticità. Dico di cattivo gusto, perché tutta la chiusura della teca, bolli compresi, non ha alcun riguardo alla eleganza formale che invece guida tutto l’operato sul reliquiario: il quale risponde al criterio generale di contornare la figura della Vergine col Bambino, che è al centro della composizione, in consonanza cromatica scopertamente voluta, come rivela la sottile decorazione che circonda la Madonna, con intonazioni che rimandano al manto azzurro che la adorna. Si tratta di una “Madonna del sacro cuore”, in quanto il piccolo Gesù ha, appunto, in mano un cuore, sormontato da una croce minuta, dalla quale s’irradiano raggi luminosi. L’immagine devozionale è molto diffusa nel Settecento, e forse deriva da qualche lontano prototipo del Sassoferrato. Superato l’effetto negativo del cattivo gusto dell’autentica da parte dell’autorità religiosa, consapevole, certo, del valore solo simbolico di quel reliquiario, c’è da rimanere affascinati dalla eleganza e, si aggiunge, dal buon gusto che presiedono a tutta la composizione, legata ad una tradizione di ben antica origine, agli aurei reliquiari del Medioevo. Ripeto: le singole reliquie sono in ordine sparso.
Il reliquiario, risalente alla fine del ’700

Dal protomartire Santo Stefano a San Francesco; da San Filippo Neri a San Carlo Borromeo, a Santa Apollonia, Santa Margherita, Santa Valentina, e via elencando. E’ davvero arduo ricomporre l’universo agiografico raccolto in simile piccolo spazio: v’è proprio argomento per uno studio a parte. Forse di qualche santo s’è persa ogni notizia. Ma non è questo che qui interessa, quanto la qualità formale di tutta la composizione, che rivela un gusto raffinato, la presenza d’una mano che ha con intelligenza e buon gusto elaborato l’assieme. Tutto si deve ad una mano sola, infatti tutto risponde a unica coerenza formale. Lavoro, ora, di testa mia, e penso che questa piccola “fantasia religiosa” sia opera di una giovane suora, giunta non per sua volontà in un convento di clausura. Essa ha superato la sua condizione umana di prigioniera, ben altrimenti dei torbidi modi della monaca di Monza, di manzoniana memoria. L’obbligo morale che l’ha allontanata dalla vita, le ha aperto un’altra esistenza. Compressa dall’ambiente chiuso, certamente non adatto alla sua giovinezza in fiore, ha trovato nella creatività il suo appagamento interiore. Ma tutta quella competenza agiografica? Questo è il mistero di un piccolo, piccolissimo, ma autentico capolavoro. Di artigianato. Alle spalle della giovane novizia (si direbbe), v’è non tanto il sacerdote curatore d’anime del Convento, piuttosto la madre superiora, che segue il lavoro, ammirata per tanta bravura. E’ lei a suggerire i nomi dei santi, a recuperare antiche reliquie, patrimonio del convento, in cui crede, forse, legate come erano ad antica tradizione, tutta interna e riservata. Con la madre superiora v’è scambio d’intesa. La sicurezza della composizione, che accoglie quelle reliquie, sta a testimoniare una creatività, una cultura compositiva davvero fuori dal comune. Ma anche una formazione mentale; forse ancor più, una volontà autodistruttiva, che riesce ad incasellare, entro precise e ben studiate forme geometriche, le singole reliquie, unendole nel dorato paradiso; un vero labirinto, tuttavia donde non è possibile uscire, ma dove è altrettanto impossibile entrare. Di tutti quei santi la giovane sa poco, o forse poco la interessano. Ma rende felice la madre superiora. Con lei, c’è scambio d’intesa. Vi si coglie la francescana perfetta letizia di lei, presa da quel dorato splendore da venerare. Ma compare anche la malinconica amarezza della giovane: una tristezza nascosta in quel sorriso che appaga la suora nella consapevolezza d’una vita, ormai chiusa, nello stesso momento in cui il pensiero si allontana nello spazio infinito di sogni, dispersi nel nulla per sempre.