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Crippa e il raggio obliquo


di Gualtiero Marchesi

gualtiero-marchesi [L’]ispirazione questa volta mi è venuta dal cielo. Sì, proprio dal cielo, e per la precisione da un cielo infuocato dal tramonto che incombeva sulla periferia milanese. Ero in viaggio quando, guardando in alto, ho visto il sole affogare all’orizzonte lasciando dietro di sé, per qualche attimo, l’impronta oscura d’un raggio, obliquo ed inquietante. L’immagine mi ha colpito, con la violenza d’una emozione vera. E ho pensato a Roberto Crippa. Crippa era di quelle parti. Chissà se anche a lui sarà capitato di vedere lo stesso raggio, da quella stessa strada di periferia. Forse sì; e chissà se, in tal caso, ciò avrà influenzato la sua opera: le sue famose “Spirali”, in primis. In ogni caso, entrambi – Crippa ed il raggio oscuro – hanno influenzato me, quando ho messo mano al piatto che presento qui.

Ho steso su un piatto nero un riso a velo. Ho intinto un pennello cinese fatto di piume di gallo – scovato in una straordinaria bottega parigina, delicato come un soffio – nel nero di seppia, e ho dipinto – sì, ho detto proprio “dipinto” – il riso con una striscia trasversale: su cui ho posato, infine, alcuni calamaretti. Crippa era arrivato alle “Spirali” al termine di un cammino che lo aveva portato, per gradi, a comprimere ogni profondità fino al raggiungimento della bidimensionalità; mentre le figure, dapprima collegate da intrecci lineari e vicendevolmente disponibili, approdavano al rovello labirintico proprio, appunto, della spirale. Un percorso, questo, che – almeno in parte – mi sento di condividere. Di certo per quanto concerne l’interpretazione dello spazio. “La nuova via, nelle spirali” annota il mio amico Luciano Caramel nella monografia dell’artista, da lui curata con Paola Sega Serra Zanetti e pubblicata nel 1999 da Mazzotta “Crippa l’aveva trovata preminentemente, anzi quasi esclusivamente sulla superficie della pittura, su cui tracciava matasse plurime di segni in una prima fase sottili, grafici. Che non volevano tuttavia avere a che fare, scriverà Crippa nel 1955, con l’‘astrattismo grafico’: si proponevano invece di ‘essere discorsi nello spazio’, uno spazio ancora illusivo, ossia non fisicamente espanso nelle tre dimensioni dell’ambiente, come invece in Fontana, non citato in quel testo (che pure ricorda altri artisti che il pittore dichiara di stimare profondamente, da Ernst e Marcel Duchamp a Brauner, De Kooning, Matta), ma ovviamente basilare anche per Crippa, se non altro come stimolo, su di un piano teorico almeno”. Di certo, nella cura del dato compositivo. “Se da un canto realizzava il desiderio di un vitalismo sintonizzato sul dinamismo della contemporaneità” rileva ancora Caramel “dall’altro Crippa, nelle sue spirali, nei suoi grovigli segnici, difendeva il radicamento nella pittura. Nella quale, sviluppando con tensione espressionistica l’automatismo surrealista, dipana e accumula i suoi filamenti, sì assecondando pulsioni profonde, ma nel rispetto di un’armonica impostazione dell’immagine sulla superficie, con tesi e antitesi, punti di aggregazione ed espansioni controllate, e sempre secondo una spazialità giocata nel rapporto figura-sfondo. E in rima con una tale dimensione di equilibrio sono i medesimi interventi cromatici, condensati in precisi cerchi dai colori timbrici primari che si collocano quali punti focali di una diramata, ma tutt’altro che dispersiva, scansione ritmica”. Già, i cerchi “precisi” di Crippa. Precisi come un piatto: anche se violati, gli uni e l’altro, dagli iperbolici ghirigori del pennello. Così com’è “preciso” il contorno del sole, pur negli alterati riverberi d’un raggio sghembo.