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Gabriele D’Annunzio pittore. Ecco le sue tele tormentate


di Costanzo Gatta

Gabriele_D'Annunzio_02Il marzo di Gabriele d’Annunzio – i giorni 12 e 1 del mese, nel 1863 e nel 1938, distinguono nascita e morte – ha suggerito a “Stile” di rivedere i rapporti fra l’Immaginifico e la pittura. Ed è partendo da questa idea che si è casualmente scoperto un Ariel pittore. E’ capitato incontrando la moglie di Emilio Mariano, indimenticato sovrintendente della Fondazione del Vittoriale.

Donna Elvira Luise Mariano ci ha mostrato un quadretto, dimensione cartolina, dipinto da d’Annunzio nel 1892. Se è largamente risaputo che Gabriele inviava a Giancarlo Maroni, ai fabbri o ai vetrai che lavoravano per il Vittoriale, ordini con schizzi puntigliosi, è sicuramente meno noto che da giovane abbia maneggiato tele. Nel salotto della signora scopriamo una marina. Al primo impatto ricorda certe atmosfere di Segantini. I colpi di pennello si sviluppa in piccole linee orizzontali. I colori non sono mai i fondamentali, e la mescola indica gusto e buona capacità di impasto.

Il soggetto mostra un pescatore seduto sugli scogli, all’orizzonte del mare spunta una vela. Fasci di luce descrivono il cielo, una striscia rossastra segna il tramonto. Pare di rileggere una sua giovanile poesia: “…sopra lo scoglio / un pescatore: contempla il sughero / fluttuante su l’acqua verdastra; / gialla è la canna ne ’l ciel turchino.” Si ispirò alla sua Pescara? All’Adriatico selvaggio? Non è dato saperlo. Gabriele d’Annunzio, pignolo cronista della sua vita, sul retro della tela, con grafia giovanile, appose solo la firma e l’anno: 1892. Era il tempo del viaggio a Napoli (rompicapo per i biografi). Aveva da correggere le bozze de “L’Innocente”, un impegno con Treves per le “Elegie romane”, i creditori da evitare, tre novelle da consegnare (“per il pane”) all’editore Pierro, collaborazioni col “Mattino” (feroce la stroncatura di “Amico Fritz” di un Mascagni “capobanda”) e con la “Domenica del Don Marzio” e la tresca con la contessa Gravina, da nascondere tanto al tradito consorte quanto ad altre amanti che si credevano uniche in carica: Barbarella e la Moricicca. Dove dipinse? A donna Elvira la marina fu lasciata dal padre Ettore Luise, che l’aveva ereditata dalla madre, un’altra Elvira (sposata al farmacista Michele Luise), sorella del poeta. Il Vittoriale ha invece una fotografia in bianco e nero di un altro quadro di d’Annunzio (ma sono gli unici?) che raffigura un paesaggio collinare. Sullo sfondo una montagna, un acquedotto, rovine di un castello.

In primo piano, a destra, una teoria di alberi. Piccole figure lo animavano: in riva a un piccolo specchio d’acqua un pescatore. Poco lontano un pastore e un asino: in sella una donna. Impossibile sapere, fino a non improbabili rivelazioni o ritrovamenti, a chi sia stato donato. C’è infine una terza opera, appartenuta agli eredi di Elda Zucconi, Se la inghiottì l’Arno con l’alluvione di Firenze. E’ rimasta solo una fotografia, nella raccolta dannunziana del defunto barone Giuseppe Rapisardi, ora in altre mani. Di questa c’è memoria, lasciata da un Gabriele, diciottenne, liceale al Cicognini di Prato. La sua prima cotta giovanile fu Giselda Zucconi, ribattezzata Elda, come rinominò tutte le donne della sua frenetica vita. Aveva 17 anni, era figlia di un professore di lingue e lettere straniere del collegio. D’Annunzio la conobbe a Firenze, se ne invaghì. E dichiarò l’amore prima al padre che alla ragazza. Il mite professore lasciò che l’astro nascente iniziasse un fitto carteggio con la figlia, facendo spesso da postino fra Prato e Firenze: più di 500 lettere appassionate fra il 29 aprile 1881 (la prima con civettuolo inchiostro violetto) e il 22 marzo 1883. Per amore di Elda ecco quindi un d’Annunzio poeta e pittore. Da Prato il 4 maggio le confidò:“ Sai? Sto preparando un bel quadretto ad olio per te: spero di finirlo presto per mandartelo. E’ un tramonto d’estate pieno di luce opalina. Ci lavorai anche jeri, dopo aver ricevuto la tua letterina, pensando a te.

Se tu avessi visto che belle pennellate mettevo sulla tela, e com’eran vivi i colori, e com’erano audaci gli scorci!”. Pittore tribolato, stando alle parole scritte la mattina dell’11 maggio: “Nella sala di pittura il mio quadro mi parve così goffo e scolorito che mi venne la tentazione di sfondarlo con un colpo di pennello alla Goya”. E ancora il 13 maggio, a sera: “Il quadro l’avrai quanto prima; aspetto la cornice che ho già ordinata all’officina ma t’avverto ch’è un lavoraccio ripreso con moltissima fatica, e a forza di lenti d’ingrandimento, da un piccolo schizzo del Marcot”. Il tormentone del quadro di Marcot continua il 15 maggio: “La giornata io l’ho tutta consacrata a te; stamani ho voluto finirti il quadretto”; e il 19: “ L’ho finito, ma non mi hanno portata ancora la cornice. Credo che per Sabato l’avrai, o verrò a portartelo io Domenica; perché, sai? Domenica verrò, ho ottenuto finalmente il permesso”. Il 23 maggio marcia indietro: “Mi dispiacque di non poterti mandare il quadretto Sabato sera; quel testone dell’intagliatore non mi ha ancora portata la cornice. L’ho fatto rimproverare acerbamente, e gli tirerò le orecchie quando verrà a me”. 27 maggio: “Oggi non siamo stati fuori perché il tempio era dubbioso: sono andato nel mio studio di pittura ed ho scritto dietro il quadro il mio nome ed una data. Con questa umidità è stato impossibile dargli il mastice e chissà se domani sera potrò mandartelo. E’ venuta una elegantissima cosa nell’insieme: il colorito è sobrio ma vero, e c’è molto lavoro nascosto che pure contribuisce all’effetto. Del resto è opera di un principiante, non di un artista provetto. Tu lo guarderai con il tuo occhio innamorato e molti difetti spariranno.
DAnnunzio-pesca
Se nel luglio potessi portar meco la cassetta dei colori per ritrarre Montughi o qualche altro caro luogo di costì? Che gioia sarebbe la mia, se potessi avere in ricordo delle ore felici che passeremo, un quadretto dipinto sotto i tuoi occhi, tra una carezza e un bacio!” A fine mese, il 31 maggio scrive: “Il babbo ti avrà messo la curiosità addosso per quel povero mio quadretto; non gli dar retta, sai? Non è nulla di eccezionale: lui, quando si tratta di me ci ha sempre agli occhi le lenti di ingrandimento. Quel che mi dispiace è che forse né anche giovedì l’avrai, perché il mastice non glielo ho ancora dato. Del resto se non giovedì, te lo porterò io stesso domenica… Ma verrò proprio?” Non andò da Elda.

Il 4 giugno: “Ti manderei stasera il quadro: è già incassato ed inverniciato e pronto alla partenza; ma dubito che il babbo non possa portarlo con sé perché è un volume troppo grande. Avrei tanto piacere però che tu potessi vederlo stasera; così ti consoleresti più facilmente della mia lontananza e domani passeresti il tempo a guardarlo e a suonare Chopin”. Come Dio vuole arriva il 5 giugno e la tela arriva a Elda: “Hai il mio quadro? Te lo portò il babbo jeri sera? T’è piaciuto? Me ne dirai qualcosa martedì; io benedirò le mie terribili febbri e le mie disperazioni d’artista e di poeta per un tuo sorriso solo, Elda!” Piacque alla ragazza? Non c’è risposta. Il 14 giugno, alle 10 di sera, Gabriele le farà sapere che non tralascia la cassetta dei colori: “Oggi sono stato a dipingere un’ala del prato piena d’alberi magnifici. Mi divertivo a scrivere il tuo nome in verde sulla tela e poi a trasformarlo in una ciocca di foglie” Infine il 22 luglio, alle 8 di mattina, lasciato il Cicognini e tornato a Pescara promette: “Stamani non vado al bagno: ci andrò stasera sul tramonto. Ora termino una azzurrissima marina a olio. Più in là ti manderò degli schizzi di questi luoghi incantati: vedrai qual selvaggio paradiso ti aspetta, o mio angelo”. Ma Elda sparì dal cuore del poeta, proprio come la voglia di dipingere.

Nel 1880, con sessantatré lire, si compravano un sacco di cose. Un giornale costava cinque centesimi, il fornaio ne chiedeva cinquanta per il pane bianco e trentacinque per quello nero. Scatole di cipria, flaconi diversi – dall’elisir alla lozione -, confezioni di pomate e unguenti oscillavano fra una lira e una lira e cinquanta.
Quelle sessantatré lire – pari alla paga di due mesi di lavoro, da quattordici ore al giorno, di un operaio – furono spese da Gabriele d’Annunzio, alunno del Cicognini di Prato, fra ottobre a giugno dell’anno scolastico ’80-’81, per pastelli, tavolozza, tele, cartoni e fogli da disegno.

Poiché a diciassette anni non era certamente lo sprecone che si rivelò nel tempo (sul frontespizio del Liber dispendii del Vittoriale, dove viveva come un principe rinascimentale, scrisse Crepi l’avarizia), questo conto salato lascia intendere che la pittura doveva piacergli. Si potrebbe anzi ipotizzare che il giovane pescarese, mentre si stava affacciando come artiere della parola, abbia cercato di manifestarsi proprio come pittore. Agli intensi versi di Primo vere corrisposero, in pittura, colori forti, scene che evocavano l’amarissimo Adriatico: marinai sulla banchina, spiagge, paranze, reti, scogli, pescatori. Purtroppo il D’Annunzio pittore, impacciato nel segno, incerto nella prospettiva e nelle profondità, non superò il livello di un onesto dilettante. Fu uno zero, a paragone del poeta, del romanziere e del trageda. Così come mostrò scarso talento davanti al cavalletto, scricchiolò come critico d’arte, bastando ai direttori dei giornali di allora l’effervescenza della scrittura e l’agilità nel saltare dal pezzo di colore alla cronaca mondana, dall’evento musicale alla mostra. Lapidario il giudizio di Berenson su di lui: “Gli mancava qualunque senso di qualità per le arti visive”. Al D’Annunzio con il pennello Stile dedicò, anni fa, articoli. Mostrò un quadretto ad olio, formato cartolina, conservato in una collezione privata. Quindi la foto, in bianco e nero, d’un paesaggio collinare dipinto per la fiorentina Giselda Zucconi, giovanile fiamma (l’originale finì in Arno durante l’alluvione del 1966). Poi disegni e schizzi: come quello dell’eremo di San Vito Chetino, dove si conclude il Trionfo della morte, realizzato per illustrare il progetto a un editore. Ed ancora, gli scarabocchi-promemoria per l’architetto Maroni, magister de vivis lapidibus del Vittoriale, oppure per Napoleone Martinuzzi, artista di Murano. Al primo suggerì dove murare pietre sulla facciata della casa e appendere tele nei salotti; al secondo diede idee per ornare le tavole con vitrei cestini di frutta.

Gabriele D'Annunzio, Ritorno dalla pesca, mare e barche
Gabriele d’Annunzio, Ritorno dalla pesca, mare e barche


Lo spunto per tornare a parlare del D’Annunzio con colori e pastelli in mano, l’offre Enrico Di Carlo, giornalista, ricercatore e bibliotecario all’università di Teramo, esegeta del volume D’Annunzio e Filippo De Titta – Carteggio (1880-1922) ed altri documenti dannunziani, edito da Rocco Carabba e ricco di interessanti rivelazioni sull’adolescenza del poeta.
“Ogni anno che tornava alle vacanze – informa De Titta -, Gabriele soleva riportare dal collegio una cassa piena di libri, manoscritti e stampe”. Che fine fecero? Lui, orgoglioso, spiega: “Sopra un tavolino erano ammucchiati i disegni a pastello eseguiti da lui in collegio e i suoi dipinti a olio. Forse quei disegni e quelle pitture sono andati tutti perduti, eccetto pochi che mi donava e che io ho conservato”.
Eccoli, i cimeli: “1° Burrasca – pastello; 2° Marinaio sulla spiaggia – pastello; 3° Testa di prete – pastello; 4° Chiaro di luna – dipinto a olio; 5° Ritorno dalla pesca, mare e barche – dipinto a olio”. E dopo l’elenco, il commento: “In un disegno, Burrasca, c’è una torre tetra, un mare orrendo, nuvole di carbonella ed una povera fanciulla imbacuccata su le macerie; un altro rappresenta una spiaggia invernale; un marinaio chiuso nel pastrano fuma la pipetta presso le vele sparse al sole e il barile della catrame sotto la enorme lanterna; un terzo disegno è una testa di prete”.
De Titta era orfano e trovò ospitalità in casa D’Annunzio nell’ottobre 1863, a dieci anni, quando il futuro poeta aveva sette mesi. Per questo gli volle bene e conservò come reliquia “due piccoli cartoni dipinti ad olio che mi donò perché adornassi la mia stanza”. L’affetto e la riconoscenza lo portarono, tuttavia, ad esaltare il modesto pittore in erba: “Il primo è il chiaro di luna nel castello diruto, la famosa prova del fuoco di tutti i pittori: una falce di luna gialla, tra nuvole pastose, e un vecchio castello nelle tenebre; l’altro è una splendida distesa di mare azzurro con cinque barche pescherecce dalle variopinte vele latine”.
E che fosse proprio in erba lo apprendiamo dalle date segnate sulle opere. Testa di prete è del 18 aprile 1878. Del giorno successivo è il Marinaio sulla spiaggia. Ambedue i pezzi sono conservati nel Museo d’arte di Chieti intitolato a Costantino Barbella. “Disegni a matita, non pastelli” chiarisce gentilmente il direttore, Bianca De Luca, aggiungendo che sono catalogati come Vecchio con berretto e Uomo con pipa. Disegni semplici, quasi fotografici.
Di maniera è il Marinaio elogiato da Ermindo Campana: “Per la mancanza di correzioni, per la ricerca delle ombre e per la sicurezza dell’impianto rivela una mano già resa agile e scaltra dall’esperienza”. Campana, professore e giornalista, autore di saggi e poesie dialettali, aveva un occhio di riguardo per il giovane Gabriele. E lo conosceva bene, tanto che ci offre notizia di un altro disegno del 10 aprile 1878, intitolato Abitanti di Betlem (due contadini turchi), sconosciuto a tutti.
I quadretti non mostrano sorprese. Burrasca è un pastello su carta giallastra eseguito il 17 aprile 1878. La ragazzina al centro della tempesta è rigida come un baccalà e fissa come un manichino in vetrina. Chiaro di luna e Ritorno dalla pesca sono invece del 1880 e non rivelano che l’autodidatta abbia fatto passi avanti. Una sorpresa è invece la firma di fantasia, grossolana, rozza, tipica di chi non sa scrivere con il pennello: Floro. Sul verso del cartone usato per Ritorno dalla pesca troviamo poi, vicino a Floro – lo pseudonimo utilizzato per firmare la sua prima raccolta, Primo Vere, un Bruzio. Forse per intendere abruzzese? Il libro curato da Di Carlo ci fa sapere infine che fu Raffaele Tiboni a smorzare ogni entusiasmo per l’apprendista artista: “Il poeta non andò mai oltre un elementare dilettantismo”.
In ultimo chiedo scusa a D’Annunzio. Non voleva venissero recuperate sue opere giovanili. Non voleva vedere “ristampati aridi esercizi scolastici, prosette ingenue della puerizia e dell’adolescenza, esperimenti di studioso, rifacimenti rapidi, facili zibaldoni, capricci improvvisi, cronache frivole destinate a vivere un giorno o un’ora”.
Forse la pensava così anche per i quadri che lo avevano tentato prima della maggiore età.

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