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Ecco il ritratto del terribile spadaccino che tagliò in due l'avversario




Il ritratto dello spadaccino conservato al Sinebrychoffin Taidemuseo di Helsinki,  opera forse di Domenico Campagnola
Il ritratto dello spadaccino conservato al Sinebrychoffin Taidemuseo di Helsinki, opera forse di Domenico Campagnola

 
di Lionello Puppi
Spicca, entro il parsimonioso ma raffinato patrimonio d’opere di Scuola italiana del Sinebrychoffin Taidemuseo di Helsinki, un enigmatico dipinto: né si tratta di questione d’ordine attributivo – che pur si pone, ed è intrigante -, ma delle circostanze che ne determinarono l’esecuzione e che son esplicitamente dichiarate in un cartiglio affisso sulla parete a destra del personaggio effigiato. Ché del ritratto di un uomo barbuto si tratta, in foggia elegante, lo sguardo affisso su lontananze misteriose e perdute oltre i limiti del quadro, la mano sinistra agganciata alla cintura e la destra, stringente un guanto, poggiata sull’elsa di una spada. Ma leggiamo subito l’iscrizione, redatta in latino. “IO[hannis] BAB[tis]TA […]ICHETTE [?] CIV[is] Pat[avinu]s Bernardi filius militari disciplina / et ingenti corporis et animi virtute / praeditus, qui natus annos XX cu[m] / Rivali ex provocatione in Prato/Vallis singulari certamine astante / Bartholomaeo Liviano exer[citus] Veneti Imper[atore] et utriusque / sexus confligens, eidem unico ictu/ambo crura decurtavit / ANNO MDXV/In cuius rei testimonium, ille / quo aduixit, ligneis pedibus / incessit”. Ovvero: “Giovan Battista […]ichette[?] cittadino di Padova, figlio di Bernardo, spiccante per disciplina militare, possanza di corpo e virtù d’animo, che, di vent’anni, coinvolto dalla provocazione di un rivale in singolar tenzone, al cospetto di Bartolomeo Liviano comandante in capo dell’esercito veneto e di una moltitudine di gente dell’uno e dell’altro sesso, combattendo, con un colpo solo gli troncò entrambe le gambe nell’anno 1515, a testimonianza della qual cosa da allora fu costretto a camminare con piedi di legno”. Le condizioni dell’opera sono precarie, com’è risultato dall’analisi scientifica, condotta da Sirkka Nurminen e Maija Santala e pubblicata nel bollettino del Sinebrychoffin Taidemuseo (“Ateneum”, 1992, pp. 33-34 e 37), che ha, tra l’altro, evidenziato ritocchi e ridipinture: e ciò ha senza dubbio ostacolato la soluzione del problema attributivo sul quale, per la verità, si è concentrata – sino ad un contributo di cui diremo subito – l’attenzione degli studiosi che si son occupati del dipinto.

Così, Osvald Sirén (in “Stenmans Konstrevy”, 8-9, 1921, pp. 78-81) ha ipotizzato, sulla base di un’asserita (ma, veramente, remota) somiglianza del personaggio ritratto con la figura del donatore nella “Santa Giustina” del Kunsthistorisches Museum di Vienna, la paternità del Moretto: mentre György Gombosi (“Moretto da Brescia”, Basilea 1943, p. 181) e Piervirgilio Begni Redona (“Alessandro Bonvicini, il Moretto di Brescia”, Brescia 1988, p. 572) la respingevano, l’uno propendendo per l’ambito tizianesco, l’altro per la cerchia di Paris Bordon, e la prima di codeste ipotesi restava privilegiata sin al catalogo delle “Italialaisa Maalauksia” del Museo (p. 68) apparso nel 1992. Ma, proprio in quell’anno, Johanna Vakkari riprendeva la questione (nel già citato “Ateneum”, pp. 29-31 e 32-33) movendo dall’accertamento cronologico offerto dall’iscrizione: posto che in essa il personaggio ritratto si vanta ventenne nel 1515, ma che, al momento in cui viene ripreso, sembra esser sui trentacinque-quaranta, ne consegue per il dipinto una datazione ben addentro il quarto decennio del secolo. E non solo, giacché la patavinità, del pari dichiarata dall’effigiato, suggerisce di cercare l’autore dell’opera entro il mondo artistico padovano, dove, con tutte le opportune cautele, un Domenico Campagnola potrebbe essere additato come il candidato più interessante, e tanto più volentieri in quanto a lui possa esser imputato il “Ritratto di Sperone Speroni” dell’Accademia dei Concordi di Rovigo, che qualche affinità con il quadro di Helsinki sembra palesare. Ma la Vakkari si poneva anche altri quesiti: qual è l’identità precisa di quel “…ICHETTE”? Quale la realtà dell’episodio commemorato, e quali i motivi della commemorazione? Sapeva bene, ovviamente, del teatro dell’episodio sconcertante, il grande slargo padovano del Pra’ della Valle, e della realtà storica di Bartolomeo Liviano – d’Alviano -: ma perché quel teatro e quella presenza? Mi invitò – la bella, e soprattutto bravissima, collega finlandese -, anzi mi sfidò, a trovar le risposte, a sciogliere l’enigma. Sollecitato da generosi e impetuosi brindisi di vodka, nella tiepida penombra, resa fluttuante dal lume delle candele ai tavolini e dal riverbero della neve al di là delle finestre appannate, di un caffè di Helsinki, dove pochi nottambuli sopportavano senza dar segno palese di fastidio il fumo pestilenziale delle mie gauloises, accettai la provocazione. Ma, ora, sconfitto, non posso che dedicare a Johanna queste poche pagine perché, risolta gran parte dei quesiti, l’enigma resta di un duello insensato e di una vanagloria fanfarona entro le derive estenuanti di una guerra strisciante e interminabile, alle cui ragioni occorreva tener desti gli animi attraverso la finzione, in stremata memoria cavalleresca, di spettacoli eroici di valor militare.
Il cartiglio che compare nel dipinto e che è stato decifrato da Lionello Puppi

Una F, poi una O… Ecco svelato il mistero del nome. Orbene, e per cominciare, un’attenta e ostinata osservazione dell’abrasione che cela l’iniziale di “[…] ICHETTE”, rivela le tracce di una F, così da poter sciogliere, senza neppur la cautela del dubbio, le perplessità dei summentovati Nurminen e Santala: ma non solo, ché l’ultima, labilissima lettera non è una E sibbene una O. Ergo, nome e cognome dell’effigiato son Giovanni Battista Fichetto. E chi mai era costui? Per la storia sin qua scritta, nessuno, mentre e per di più, i vecchi repertori delle famiglie nobili o d’antica cittadinanza di Padova (dalla “Cronica” del Camerino all’”Origine” dello Sforza nella Marciana di Venezia; dalla “Cronaca” del Malfatti agli svariati “Elenchi” nella Biblioteca civica della città euganea) non registrano mai una casata Fichetto o Fichetti. Ch’era, in effetti, appartenente all’universo meccanico dell’artigianato, e diramata nel borgo di Santa Croce: e, nel corso del secolo XV, risulta rappresentata, tra i contribuenti allibrati dall’”Estimo” del 1418, da un Antonio (l’1 giugno 1470 e l’11 gennaio 1482: reg. 103, nn. 35 e 36); da un Bortolomeo (il 14 giugno 1443, nel 1456 e il 24 marzo 1463: ibidem, n. 38) e da due Bernardo, l’uno “marangon”, cioè falegname (il 9 giugno 1470: ibidem, n. 37), l’altro sarto. Soffermiamoci su quest’ultimo che, secondo ogni evidenza, fu il padre del nostro Giovan Battista. Qualificato “magister” il 23 marzo 1482 e “de burgo sancte crucis” (ibidem, n. 47), il 28 marzo 1508 risulta essersi trasferito nel centro urbano, in “piazza della Signoria” (ibidem, n. 39), ma, in realtà, doveva trattarsi – ad incrociare codesta informazione con quelle offerte dalle carte che siam per citare – di un edificio, o porzione di edificio, situato tra la piazza delle Legne (oggi piazza Cavour) e la via conducente ai magazzini del Sale (oggi via Oberdan), presso la “torre bianca” del Comune. Prima del 1518, Bernardo dovette perdere la vita, giacchè all’”Estimo” di quell’anno vien registrato, insediato nell’edificio (“sta in la contra’ de sancti marci [] sic!”: cioè, appunto, presso la piazza delle Legne) il figlio “Baptista Ficheto”, l’uomo del nostro ritratto: di cui, purtroppo, non è indicata la professione, ma solo la proprietà di tre campi di terra nel contado, che dovevan essergli venuti dalla dote della moglie, e una ruota di mulino di ubicazione non specificata. Se teniam conto che, giusta suo vanto nell’iscrizione del dipinto ora a Helsinki, nel 1518 era di ventitré anni, è ragionevole pensare che il matrimonio debba risalir a data poco precedente: sta di fatto che coinvolgeva una Giacoma, proveniente precisamente da “la villa de la Mandria” dove, rimasta vedova (“Jacoma relicta del quondam Baptista Fichetto”), pur mantenendo la proprietà dell’edificio urbano – definito “bottega” – presso la piazza delle Legne (“per andar al sal”), la sorprendiamo il 7 maggio 1543 (Estimo 1518, reg. 120, n. 33). Dall’unione del nostro Battista con la donna era nato almeno un figlio, Francesco, che, come “comandador del Comune di Padova”, incontreremo vent’anni appresso, il 9 giugno 1563, ma, pur sempre – mantenendo la proprietà della “bottega […] nel contrà per andare al sale appresso la tore” (e dei beni materni) -, insediato “in la contrà de santa Sophia” (ibidem, n. 28). Riassumendo. Giovanni Battista Fichetto nasce a Padova nel 1495 da un Bernardo, titolare di una ben avviata sartoria; prende moglie poco prima del 1518; nel 1543 è già defunto; se pur mantiene la titolarità della “bottega”, nel 1515 risulta inquadrato in un corpo militare (“militari disciplina”), in obbedienza ad una vocazione che trasmetterà al figlio Francesco (“comandador del Comune di Padova”: cioè, verosimilmente, ufficiale della milizia cittadina dei “bombardieri”). Venti procellosi di guerra sconvolgono Padova negli anni dell’adolescenza del Fichetto: avevano cominciato a spirare il 14 maggio 1509 ad Agnadello con la rotta miserevole delle armate della Serenissima (e, ferito al volto, fatto prigioniero uno dei suoi due capitani generali, Bartolomeo d’Alviano) imposta dagli eserciti coalizzati, sui patti stipulati a Cambrai sin dal 1506 dalle maggiori potenze europee (Impero, Francia, Spagna) e dagli staterelli italiani (la Chiesa di Giulio II in testa), e con la caduta, l’uno dopo l’altra, delle maggiori città dello “Stato da terra” veneziano in mano agli alleati, ch’eran giunti ad affacciarsi alla Laguna appiccando ai villaggi del litorale il fuoco i cui riverberi sinistri si potevano vedere, con terrore, dal cuore urbano della Capitale. Poi, eran state la fulminea azione su Padova, a opera di Andrea Gritti, futuro doge, e la resistenza al lungo assedio posto dall’imperatore Massimiliano I ancora, e via via, la riorganizzazione militare della Repubblica, la lenta ripresa assecondata da un abile lavoro diplomatico che aveva disgregato la Lega cambraica, rovesciandone le alleanze, la riconquista delle città perdute. Liberato da Luigi XII, a Bartolomeo d’Alviano erano stati riconsegnati il bastone e lo stendardo di capitano generale dell’esercito di San Marco addì 15 maggio 1513, e il condottiero aveva eletto Padova a quartiere di comando, raccogliendo tra le mura, che veniva riformando, della città, il meglio delle proprie armate, che utilizzava per folgoranti sortite volte a estendere il recupero di terre e fortezze ancora in mano nemica o ad impedir le devastazioni, a opera di bande avversarie, dei villaggi e dei minori centri urbani: e potevano andar bene o male, come nello sconsiderato affondo frustrato, alla Motta presso Vicenza, il 7 ottobre 1513, dalla “beffa imperiale” narrata in un affascinante libro recente da Elena Filippi. Sappiamo – ultimamente, da un altro bel libro, “Il Leone, l’Aquila e la Gatta”, di Angiolo Lenci, uscito tre anni fa – che le forze su cui Bartolomeo d’Alviano poteva contare erano per lo più costituite da “homeni d’arme” mercenari, ma che quelle compagini di professionisti della guerra erano integrate da patrizi e cittadini veneziani e da reclute arruolate nelle città dello Stato da terra, ma non già attingendo tra i ceti nobiliari e di antica cittadinanza, di cui eran noti i sentimenti filoimperiali, bensì tra i “popolari” di risaputa e collaudata fede marchesca e, dunque, rivolgendosi agli affiliati alle fraglie artigianali. Giovan Battista Fichetto, rampollo di una famiglia di sarti, doveva esser entrato per tempo a far parte di siffatte milizie, ai cui membri era consentito di girar armati.



Capitan Bartolomeo e la meravigliosa giostra del Carnevale del 1515.  Ma il duello? L’1 gennaio 1515, Luigi XII, re “cristianissimo” di Francia, inaspettatamente, aveva perduto la vita: la notizia dell’evento luttuoso giunta tra le Lagune circa una settima appresso, fa tremar la Signoria serenissima: il sovrano, infatti, dopo aver aderito e partecipato alle prime iniziative della Lega cambraica, ne era uscito, alleandosi a Venezia; ma avrebbe, il successore, mantenuto l’impegno? Solo verso la fine del mese, l’ambasciatore di Francia potrà leggere “in Collegio “ la lettera, datata però sin dal 2, con cui Francesco I comunicava, insieme, “lui esser successo nel regno” e la volontà di “mantenir l’alianza era tra il Re defuncto e questa Signoria”: ed è sollievo grande. A Bartolomeo d’Alviano – impregnato di cultura cortese e cavalleresca – non par vero di “monstrar alegrezza” organizzando, “a Padoa sul Pra’ di la Valle”, una giostra “a lanze molade” (cioè, incruenta) della quale non esita a fissar la data per la domenica precedente l’ultima avanti il Carnevale, cioè l’11 febbraio, e a stabilir il premio di cento ducati al vincitore, che mette di tasca propria. Sapeva bene, il capitano generale, che simili spettacoli tenevano desti, ed anzi animavano gli spiriti guerreschi degli “homeni d’arme” ai suoi comandi. Sul seguito della vicenda, Martin Sanudo, meticolosissimo cronista, ci informa puntualmente nei suoi “Diarii”, pubblicando financo il bando della giostra, deliberata “sì per dar solazo e piacer a tutti come exercitar et accender la gente d’arme”, e aperta a “tuti et cadauno condutiero, locotenente, capo de squadra, banderaro et ogni privato homo d’arte, sì del Christianissimo Re come de la Illustrissima Signoria”. Apprendiamo, pertanto, che l’iniziativa ebbe gran successo e che durò tre giorni, vedendo in lizza “zerca 18 zostradori”; innumerevoli gli spettatori, uomini e donne – con la presenza sorprendente (“o gran bontà dei cavalieri antichi…”) di “certi spagnoli, homeni da conto dil campo inimico”, ammessi con salvacondotto ad assistere all’evento, e alloggiati “in caxa” dello stesso “capitanio” -; i rettori e “zentilhomeni venitiani” su un palco d’onore, con il D’Alviano che si spostava “parte a cavallo, parte per terra”. Purtroppo, ai fini nostri, chi si fosse aspettato trattarsi della cornice in cui calare l’episodio del dimezzamento del rivale da parte di Gian Battista Fichetto dovrà ricredersi. Non solo – assicura il Sanudo – “dita zostra è passata senza remor alcuno”, e insomma “è stà fata con grandissimo hordine” e addirittura “prima senza alcun cridar, perché cussì ordinoe il signor capitanio general”, ma fu condotta a cavallo e lancia, né registrò vittime, ad eccezione di un armigero della compagnia di Sagramoro Visconti, cui fu “cazà una lanza [nel petto?]” e “par sia morto”, “né altro mal è stà fatto”. Ben più succinte, le cronache locali di J. Bruto, Giovanni da Corte e G. D. Spazzarini si limitano a rammentare una “bella giostra” o ad alludere a ordinati “equestribus ludis”. E dunque? Millanta, il nostro Giovan Battista Fichetto? Ma, in tal caso, “à quoi bon”? O la “provocazione” (Quale? A quei tempi, comunque, bastava poco) da parte del “rivale” che lo costrinse alla “singolar tenzone”, conclusa dal tremendo fendente che dimezzò l’improvvido autore dell’offesa, avvenne ai margini della calca di popolo che gremiva il Pra’ della Valle? In tal caso, tuttavia, perché le cronache che la giostra rammentano, tacciono l’episodio? In quanto appartenente alle milizie cittadine – s’è visto – il nostro era autorizzato a portar la spada (e si sarà trattato della stessa “spada composta” – simile a quella d’inv. 236 dell’Armeria del Castello di Monselice; ma si vedano anche i repertori del Boccia, ai nn. 159 e 160 – che appare nel ritratto, ancor di lama larga ad un filo, oltre che di punta), ma non ad abusarne, pena serie sanzioni. Il silenzio delle cronache ci dice che il Fichetto, pro bono pacis all’interno di un corpo militare prezioso per Venezia, ne fu tacitamente graziato? Ma che non sopportasse che quel colpo magistrale – che dimezzava un rivale, il cui nome non sapremo mai, affidandolo ad un miracolo di chirurgia e di ortopedia – potesse restar dimenticato? Quanto all’esecutore del ritratto, da ritener attivo – essendo Giovan Battista già registrato defunto nel maggio del 1543 – forse sul finir degli anni Trenta, e sebbene il confronto con il “Ritratto di Sperone Speroni” sia stato reso improponibile dalle ricerche di Elisabetta Saccomani che datano quest’ultimo dipinto al di là del 1560, il riferimento di Johanna Vakkari all’ambito di Domenico Campagnola è da confermarsi tutt’affatto plausibile.