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Fuoco greco


di Roberto Gramiccia

Nessuno può scegliere dove nascere e quando. E’il caso che decide e questo conta molto. Pensate cosa vuol dire per un artista nascere ad Atene, come è capitato a Nakis Panayotidis nel 1947. Il padre proveniva da Costantinopoli, la madre da Smirne. Come dire che, solo venendo al mondo, Nakis si è caricato sulle spalle una storia che, artisticamente, se non fosse stato forte lo avrebbe stritolato, polverizzato.
Le lezioni di “libertà estrema” somministrate dal padre come ricostituenti endovena, e le condizioni di vita condivise coi genitori i quali, con insolita autoironia, si definivano “nuovi poveri” (non c’erano solo i “nuovi ricchi” negli anni ’50 e ’60), sono state, nell’insieme, un imprinting salutare e fortificante. E poi il mare… falsificare le carte dichiarando, a tredici anni, di averne sedici (era l’età minima prevista) per imbarcarsi da mozzo per tre estati di seguito. Stare per mesi su una nave a contatto coi marinai – acqua sotto i piedi e cielo sopra la testa -, coi rituali, le scaramanzie, le superstizioni e le paure fottute della gente di mare.
Ma anche sperimentare la presa ai polsi dell’amicizia e del senso della collettività, della microdemocrazia e di tutte le vicende buone e cattive del vivere in comune. Spendere in un porto la paga di un mese in una sera e sentirsi grandi, quando ancora della vita non hai capito niente o quasi. Sono cose che non capitano spesso ai ragazzini.
E poi partire, dopo gli studi classici, perché lui e la famiglia comprendono che il viaggio deve cominciare sul serio. E girare tanti Paesi europei. L’Italia soprattutto, dal ’66, prima Torino poi Roma, dove studia architettura, arte, cinema e teatro. Nel ’70 conoscerà, innamorandosene, una donna, Agnes Hausler, cittadina svizzera. Per un greco – diavolo – quella donna è come l’acqua santa, la precisione geometrica, la dimensione apollinea. Nel ’73 la sposa e da allora vive a Berna con lei. Finché nell’80 acquista una casa nell’isola di Serifos, dove, da quel periodo in poi, passerà molti mesi l’anno riempiendosi i polmoni – finalmente – di aria salsobromoiodica.
Trovarsi alla fine degli anni ’60 a Torino, capitale operaia, e a Roma, capitale politico-culturale del nostro Paese, è un’altra delle circostanze formative forti per Panayotidis. Sono i tempi della contestazione studentesca e della ribellione operaia, di Kerouac, degli hippy, dei Beatles e di Zabriskie Point. Sono i tempi in cui nasce l’Arte Povera. E Nakis nuoterà dentro tutto questo come un pesce nell’acqua.
La prima mostra dell’artista greco è una collettiva, come capita a tanti giovani. Quello che non capita spesso è che la data coincida (eravamo a Torino nel ’70) con la partita più importante del secolo (la storica Italia Germania 4-3). Alla mostra naturalmente non viene nessuno, tranne qualche parente che detesta il calcio, e Nakis ci rimane male. Ma siccome è un duro uomo di mare (si fa per dire), non molla e prosegue per la sua strada. Vive il clima culturale degli anni ’70, frequentando a Torino il Politecnico di Architettura, le gallerie di Gian Enzo Sperone e Christian Stein, gli artisti dell’Arte Povera, ma anche subendo l’influenza della Land Art e della Minimal Art statunitensi. Sono anni in cui la lezione di Duchamp viene introiettata e distillata con la conseguenza che l’idea e la materia prendono definitivamente il sopravvento su qualsiasi ipotesi di rappresentazione o di suggestione psicanalitica.
In quel tempo – sono parole di Bruno Corà – “egli si dedicava a configurare in modo, da lui stesso definito ‘ossessivo e monotematico’, una forma archetipica geometrica romboidale che può essere identificata con la morfologia del ‘recinto’ arcaico. Sia nei disegni su carta che nei rilievi su tela egli era proteso a ottenere un perimetro definito mediante tratti di grafite e chiaroscuro o piccole aste munite di ombre che prolungavano, in un effetto trompe l’oeil, la propria linearità di segmenti”.
Per anni Panayotidis si applicherà con meticolosa attenzione alla realizzazione di opere ideate sul filo di un rigore analitico e concettuale. Vengono presto e con relativa facilità i primi successi. Ma poi viene anche la crisi. E’ come per mancanza di ossigeno, di aria, di divertimento che la sua forza creativa sembra esaurirsi. Il rigore formale aveva momentaneamente sequestrato la sua vena romantica, la sua vera natura. Ma non sarà una fine, sarà invece un inizio.
L’inizio di un nuovo viaggio che lo condurrà verso la maturità. La crisi inizia nel ’79. A metà degli anni ’80 compaiono nel suo lavoro le prime fotografie. E’ un collezionista a regalargli una Nikon. E’ come il fuoco di Prometeo, quella Nikon. Da allora comincia la storia. Le sue foto rappresentano la natura e le architetture. I suoi paesaggi sono disabitati. Non c’è traccia di uomini e di donne. Edifici ripresi in primo piano, senza sfondo. Più spesso ambienti industriali impregnati di fuliggine, impregnati di lavoro. E realtà prese a prestito dalla memoria, dai ricordi dell’infanzia (l’arte come
ri-testimonianza dell’infanzia, secondo Lyotard). La cosa però non finisce lì. Panayotidis non si limita a rap-presentare, ma presenta i suoi materiali, le sue idee: il piombo, il marmo, l’asfalto, la cera, la luce dei suoi neon o delle lampadine. La luce a volte percorre lettere che compongono le frasi di un’antica saggezza.
Altre volte, invece, la fotografia lascia il posto a superfici nero-bituminose che ospitano una mobilia essenziale, un tavolo e quattro sedie
– ritagliate da un foglio di piombo – che hanno conosciuto chissà quale consesso. Con una lampadina sospesa a illuminare la scena, segno evidente che la riunione si è sciolta da poco. Altre volte ancora l’artista interviene col colore, pittoricamente, sulle immagini fotografiche e la luce retroposta alla superficie pittorica diventa colore a sua volta.
Panayotidis oggi è un uomo pieno di entusiasmo. Come un ragazzino. La sua crisi creativa è un lontano ricordo. Che venga definito l’ultimo (cronologicamente parlando) dei poveristi importa poco. Quello che conta è che il suo senso di libertà si sia impadronito del suo lavoro. E che il suo lavoro contribuisca a liberare noi. E’ questo senso di libertà che ti invade, osservando la felice selezione di opere esposte di recente nella giovane galleria romana di Giacomo Guidi.
Quando Panayotidis è soddisfatto e in buona compagnia sale sui tavoli e balla. I numerosi successi gli hanno fatto calcare molti tavoli. E’ un invito per tutti noi, una speranza.