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Arte ed esistenzialismo: nei suoi taccuini il celebre scultore riferisce della battaglia personale condotta contro la superficialità della visione. E animato dalla ricerca degli elementi strutturali della vita, scrisse  per capire, affermando che “non si vede niente al primo colpo d’occhio”. Il conseguente sviluppo di una poetica diretta all’“orizzonte inaccessibile”

di Stefania Mattioli

Alberto Giacometti disegna per “vedere chiaro”, spinto dall’urgenza di indagare poiché “è come se ci fosse qualcosa che non si vede al primo colpo d’occhio”. Lo fa sin da bambino, quando ancora dominava la visione delle cose: “E’ fra i 18 e i 19 anni che ho avuto l’impressione di non poter più fare niente, tutto è diventato estraneo, sfuocato”.


Disegna, dipinge e scolpisce incessantemente da quando è adolescente. Non solo. Giacometti scrive e la ragione è sempre la stessa: capire. Lo fa con disordinata assiduità. I taccuini pieni di annotazioni rivelano la sua natura riflessiva, dedita all’introspezione, ma ci regalano un uomo incline alla parola come mezzo per aprirsi all’altro (Giacometti, Scritti, Abscondita). Ciò per “il piacere di far vibrare le idee”. Con naturalezza emozionata racconta di sé e della propria percezione delle cose, dell’innato pessimismo che lo induce a tentare di raggiungere comunque “l’orizzonte inaccessibile”, quello dell’esistenza: sebbene la meta sia impossibile, rinunciare a priori “sarebbe una follia”.

Alberto Giacometti
Alberto Giacometti

Impossibile per lui è anche “fare le cose come si vedono”; per questo ad un certo punto del suo cammino (1920-30) abbandona la copia dal vero: “Mi sembrava assurdo correre dietro a una cosa votata in partenza allo scacco totale”. Ecco che lavora a memoria, ricostruisce per frammenti quello che già sa, dubbioso sul fatto che il limite fra la memoria, appunto, e l’immaginazione sia assai labile, più di quanto non si pensi.

Dunque il problema della visione non trova adeguata soluzione. Nemmeno con il suo avvicinarsi al Cubismo prima e al Surrealismo poi: “Erano gli artisti ad interessarmi, ma sentivo quelle esperienze come passeggere”. Nel “periodo astratto” Giacometti scopre che le possibilità illimitate offerte dall’arte non figurativa erano ben più angoscianti della stessa impossibilità a rappresentare la realtà.

La foresta (Piazza, sette figure, una testa), bronzo, 1950
La foresta (Piazza, sette figure, una testa), bronzo, 1950

Torna in studio, davanti ai suoi modelli: il fratello Diego – nume tutelare del suo rifugio e custode indulgente delle opere impietosamente destinate all’oblio -, la moglie Annette, sposata nel ’49, e gli amici. Per cinquant’anni tenta invano di “fare una testa come la vede”, ma non riesce a cogliere l’insieme. Si arrovella sui particolari, incide, scava con la grafite alla ricerca del naso, degli occhi “dove risiede il pensiero”. Ed è proprio lo sguardo il suo cruccio: senza di esso la testa somiglia ad uno scheletro, al cranio di un morto, e il “noto diviene l’ignoto”.

Copiare significa afferrare il residuo della visione, non è sufficiente per la verità che cerca, per la sua arte che non è mai mero estetismo. Le sue figure, muta presenza, esili ma forti, sono il frutto della sua percezione personale: “Si pensa che io riduca le figure di proposito (…), lo faccio per rimanere fedele al mio modello, per cogliere la somiglianza (…). La testa è una piccola palla e il corpo non è che un bastone”; così gli appare la natura umana nello spazio. Uno spazio, quello intorno all’opera, che è già la scultura stessa.

Giacometti è pervaso da incertezza, insoddisfazione, il suo agire è costantemente un atto critico verso l’arte che ritiene una mania: “E’ piuttosto anormale passare il proprio tempo, invece di vivere, a cercare di copiare una testa”. Sebbene egli ritenga l’esperienza della creazione una continua scoperta che vale la pena perseguire anche quando “non c’è risultato per gli altri”, ne afferma l’inutilità ritenendola “un’attività egoista e inopportuna (…), ogni opera è creata per niente”.

Ritratto di Diego, olio su tela, 1954
Ritratto di Diego, olio su tela, 1954

Il fallimento e la sua perpetuazione consapevole divengono i capisaldi della poetica di Giacometti, le ossessioni per cui vale la pena vivere. “Il movimento è fatto di immobilità che si succedono”; come fare a rappresentarlo fedelmente? “Ogni scoperta è subito persa, per sempre”. E’ bello sapere però che “una zolla d’argilla a portata di mano, un po’ di gesso, qualche foglio di carta” bastano alla sua felicità.

Che cos’è la realtà? Giacometti non sa dare una risposta: “le cose sottili e allungate” sono più vicine a ciò che sente, ma non per questo sono più vere. Non risponde perché “la scultura è un interrogativo, una domanda” e non può essere mai “finita né perfetta”. Si può continuare all’infinito e “nessuna scultura ne spodesta mai un’altra”. Dalle sue parole si evince, prepotente e privato, il suo conflitto interiore, quello dello scontento, ma anche una sorta di leggerezza che a tratti emerge come un soffio, ad esempio quando si appresta ad affrontare “una nuova giornata grigia, con buchi, piccole luci, momenti deliziosi, lunga, infinita, varia”. Noi siamo quello che facciamo, ci interessiamo a determinate cose perché è nella nostra natura, “come non possiamo scegliere la lunghezza delle nostre gambe non possiamo scegliere il nostro modo di pensare”. Giacometti anela ad avere “un’audacia totale di fronte alle cose”, vorrebbe “una goccia di coraggio in più” ma si rassegna ad essere come è.

Giacometti, Busto d’Annette, olio su tela, 1954
Giacometti, Busto d’Annette, olio su tela, 1954

Cimabue è il pittore che gli pare “più vero”, è il dettaglio che fa la differenza, “stacca, separa una forma dalle altre”. Si incanta dinnanzi alla Marchesa della Solena di Goya, che dice essere “stupenda”, tanto che al confronto “David e Ingres sembrano orrendi”. Poi a Venezia scopre Tintoretto, un pittore che “resta sempre a distanza come la realtà, l’unico che si avvicina a Bisanzio”, e per questo amato “di un amore esclusivo”. Già, perché Giacometti riesce a trovare la famigerata “somiglianza” solo nell’arte antica, nella ieraticità egizia. Lì risiede il segreto della visione.

“Braque è morto – annota serafico -. Uscito dal tempo entra nello spazio”. E tempo e spazio gli appaiono come d’incanto orizzontali e circolari al punto di “provare a disegnarli” come se tutti gli eventi coesistessero simultaneamente intorno a lui in perfetto sincronismo. Nulla però vale a celare il senso di smarrimento che pervade il suo animo ferito, la sua congenita lacerazione leggera. Egli “rispetta la materia al punto che si offenderebbe se Annette togliesse la polvere dai vetri”: una polvere che abita le cose di Giacometti con naturalezza, con ogni probabilità perché allude alla caducità; una polvere che dona alle sue sculture, quasi atte ad accoglierla sulla loro superficie ruvida, colma delle tracce delle sue mani forti e del suo sguardo rugoso.

Nel ’65, malato, l’artista si sente in un vicolo cieco: “Non so veramente come ne uscirò”. Tuttavia lavora senza tregua, al punto di non riuscire a trovare il tempo per dormire, per bere un caffè. Incapace di staccarsi dall’opera, e forse dalla vita stessa, scrive: “Io sto là dove tutto sta fermo e aspetta (…), uscire dal tempo per essere senza fine”. Muore l’11 gennaio del 1966.

NEL FILMATO UN VIAGGIO TRA LE OPERE DI Alberto Giacometti

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