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Gli affreschi medievali del disonore. L'Italia delle guerre civili espone gli sconfitti




Nelle immagini, per gentile concessione dei Musei d’arte e storia di Brescia, gli affreschi del disonore, presenti in Broletto
Nelle immagini, per gentile concessione dei Musei d’arte e storia di Brescia, gli affreschi del disonore, presenti in Broletto

di Sandra Baragli
Intorno agli anni Venti del secolo scorso nelle soffitte del Broletto bresciano, allora occupate dagli scaffali dell’Archivio Storico Civico, furono scoperte tracce di antichi affreschi, che emergevano da uno strato di calce. Tra il 1944 e il 1945, sgomberato l’Archivio a causa della guerra, fu possibile liberare le pitture dalla calce e ripulire gli affreschi, che emersero dal passato con i segni dei danni subiti nei secoli, ma anche con il loro interessante bagaglio di storia.

Cavalieri dai colori vicaci, suddivisi in due fasce, una sovrastante all’altra, cavalcando verso una méta incerta, ricordano ancora oggi all’osservatore il loro disonore per la sconfitta della fazione ghibellina. Si tratta di pitture di raro fascino, non solo per la qualità pittorica e il loro valore artistico, ma per il messaggio politico per le quali furono commissionate all’interno del centro civico della città, il Broletto che, iniziato tra il 1223 e il 1226 e terminato verso la metà del secolo, era il luogo dove erano concentrate tutte le attività connesse allo svolgersi dell’azione politico-amministrativa del Comune: qui aveva sede il Consiglio, vi svolgevano la loro attività il podestà e i consoli, qui si amministrava la giustizia. Queste pitture, insieme ad altre successive, si trovano oggi nelle soffitte dell’edificio, a testimoniarne l’antico aspetto, pesantemente modificato nel 1600, quando la sala fu trasformata con la costruzione di nuove volte.
Nella prima metà del Duecento il salone era una stanza unica, di notevoli dimensioni (era lungo ca. 51,70 m, largo 14,55 m e alto circa 9 m) e occupava tutto il primo piano del Palatium Novum Maius (corrispondente al lato sud del Broletto). In alto le finestre illuminavano l’ambiente e un soffitto a cassettoni contribuiva a dare alla sala un aspetto solenne. In quegli anni, del resto, il Comune aveva svolto una politica di affermazione del suo prestigio e della sua potenza, manifestata anche dalla decisione di raccogliere in una codificazione scritta le consuetudini bresciane nel Liber Potheris. La sala dove si riuniva il Consiglio doveva quindi rappresentare anche simbolicamente la potenza del Comune e l’ideologia dominante. Per questo motivo le pitture che decoravano la sala furono create per veicolare chiari messaggi politici. E’ noto come la complessa situazione politica che caratterizzò le città dell’Italia centro-settentrionale tra Due e Trecento, con pluralità di forme di governo e una forte concorrenza di poteri, fece sì che le diverse autorità pubbliche cercassero di persuadere, di imporre o difendere la loro immagine e il loro ruolo anche attraverso la pittura, usata a scopo propagandistico. In questo periodo l’uso politico delle immagini era intenso e si aveva piena fiducia nella loro capacità di trasmettere messaggi e di rappresentare il potere. All’interno di questa usanza appartiene anche la cosiddetta “pittura infamante”, cioè l’uso di dipingere (nell’Italia tardo-medievale) sulle pareti di palazzi pubblici o in altri luoghi importanti della città, come la piazza principale, l’immagine dei colpevoli di reati di vario tipo, dal traditore al fallito con dolo, dall’omicida al falsario. Tutto questo all’interno di quelle pene “infamanti” che si esprimevano con un rito collettivo e spettacolare, talvolta limitandosi a deridere il colpevole talvolta spingendosi fino a gradi estremi di violenza e brutalità, che miravano alla degradazione sociale, in quanto la punizione avveniva sotto lo sguardo della comunità, che difficilmente avrebbe dimenticato l’onta subita.

I cavalieri rappresentati sulle pareti della sala del Consiglio di Brescia dovevano essere circa un centinaio (oggi ne sono rimasti solo la metà), legati al collo con una catena mentre si dirigono, per uscirne, verso la porta di una città murata e sovrastati da una scritta, oggi leggibile solo a tratti, da dove emergono i concetti di “exemplum”, “patria”, “Brinxiensis populus”, connessi a quello di “pingitur ut duret”, cioè al fatto che fossero dipinti affinché ne rimanesse il ricordo. Secondo lo storico Giancarlo Andenna tutto questo rimanda all’ambiente del Comune di popolo di tendenza guelfa, che a Brescia si affermò dal 1270 al 1272. Non si tratta in questo caso di una vera e propria pittura infamante, nonostante i milites raffigurati fossero riconoscibili dal nome o dalla qualifica pubblica e dallo stemma araldico sullo scudo triangolare, cosa che contribuiva, indubbiamente, alla loro pubblica diffamazione. Il messaggio politico che ne emergeva era la volontà di esaltare la vittoria dei Guelfi, celebrandola attraverso il disonore e l’esecrazione degli avversari. Dall’osservazione dei cavalieri, forse condannati a morte (ma è soltanto un’ipotesi dovuta ad una probabile interpretazione di una sorta di banderuola, che pende da un anello della catena che lega tra loro i cavalieri, come la benda per gli occhi del condannato), emerge una notevole differenza tra i personaggi della fascia superiore da quelli della fascia inferiore.
I primi, infatti, cavalcano il loro destriero con composta, triste dignità, con la testa lievemente reclinata e la mano che si appoggia alla guancia o al copricapo, distinguendosi come membri della nobiltà cittadina. I personaggi dipinti nella fascia inferiore, invece, hanno un aspetto più scomposto: c’è chi beve in modo smodato, chi, con i capelli arruffati, maneggia una grande scure pronunciando frasi sconvenienti, chi tiene seduto sull’avambraccio un gatto e nell’altra tiene un topo, mentre un altro topo sta cadendo a terra… Insomma, il nostro pittore ha probabilmente voluto rappresentare il mondo dei “milites” e dei “comites”, quest’ultimi probabilmente da identificarsi con quegli scudieri di Lombardia che, come i milites andavano a cavallo, ma erano di provenienza e di modi rustici, avevano la spada corta e l’ascia e portavano lo scudo del loro signori. Essi si caratterizzavano per la spavalderia, la violenza e la volgarità. Questi affreschi, dipinti come exemplum per il popolo bresciano, sono stati variamente datati; tuttavia essi sembrano essere già stati presenti nel 1292, quando furono rogati numerosi atti politici “sub palacio picto comunis Brixie” e, successivamente “In sala picta pallatii populi”. Numerose sono, del resto, le testimonianze storiche riportate dai documenti bresciani della fine del Duecento che presentano analogie con le immagini rappresentate. I documenti scritti, insieme a questi affreschi, testimoniano, tuttavia, la debolezza del nuovo governo popolare, debolezza che sfociò, nel 1298, nella signoria episcopale di Berardo Maggi, vescovo di Brescia dal 1275. Il presule bresciano ricevette dai rappresentanti della “pars Ecclesie”, dagli Anziani della Società dei Mille, dagli Anziani del popolo e dai rappresentanti dei Paratici l’incarico di riportare la pace in città, ponendo fine alle continue tensioni con i fuoriusciti che, se avessero accettato le condizioni di pace, sarebbero stati riaccettati tra le mura cittadine. La politica di pace del vescovo, che si basava sul principio di dimenticare il passato senza chiedere il rimborso delle offese e dei danni subiti, dimostrò ben presto tutta la sua debolezza e finì nel 1308 con la morte del vescovo e l’inizio di un nuovo periodo di lotte, che terminò in un bagno di sangue e nella sconfitta del governo popolare.

Tuttavia, ancora una volta, il potere si affidò alla forza comunicativa delle immagini, facendo dipingere su quelle stesse pareti del Broletto affrescate con i cavalieri fuoriusciti, l’episodio della cerimonia solenne del 25 marzo 1298, quando Berardo, circondato dai canonici, impose di giurare la pace ad un personaggio inginocchiato davanti a lui, secondo una lunga formula scritta al di sotto della scena. Alla cerimonia solenne, con il vescovo in abiti pontificali, partecipa tutto il popolo, compreso un bambino che osserva la scena seduto sulle spalle della madre. Il nuovo governo voleva limitare la forza delle armi e chiudere con il passato, così come il nuovo affresco copriva quello vecchio, nel tentativo di costruire un governo basato sulla giustizia, sulla concordia civica e sul bene comune: concetti filosofico-politici molto diffusi nella cultura dell’Italia comunale, ma, come abbiamo visto, molto difficili da attuare. Si pensi solo per fare un esempio, agli affreschi della Maestà di Simone Martini – dove il testo ai piedi del trono della Vergine è un chiaro richiamo alle grandi famiglie che in quegli anni fomentavano sedizioni, compromettendo la pace e il bene comune – e, successivamente, all’ Allegoria del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti a Siena, dove le due immagini del Comune-Bene Comune e della Giustizia sono strettamente legate l’una all’altra – unite da una corda – indicando il loro ruolo, i cui effetti sono personificati dalle figure monumentali di Pax e Concordia.
L’ampio e affascinante ciclo pittorico della sala del Broletto mostra due interessanti momenti della storia bresciana in una breve successione temporale: l’esecrazione degli avversari poi sostituita dalla scena che esalta la presa del potere signorile.