Press "Enter" to skip to content

Il genero geniale di Romanino


di Giovanna Galli

Una pelle di statua – ma quasi diafana, quasi alabastrina -, i corpi ciclopici che risultavano evoluzione onirica della potenza muscolare dei grandi eroi michelangioleschi. Cavalli spropositati e divinità incombenti. Un mondo che ormai passa alla dimensione del sogno, che in alcuni casi ha lo spessore dell’incubo:

Lattanzio Gambara, genero del Romanino, fu un cospicuo esponente del Manierismo lombardo, quel nuovo modo di sentire che portò alle estreme conseguenze il dettato rinascimentale, in un gigantismo e in atmosfere inquiete specchio di un’epoca la quale – a causa della Riforma luterana, dello sconvolgente Sacco di Roma, del definitivo spostamento dell’asse economico dal Mediterraneo al Nuovo mondo – aveva perduto la speranza riposta in un equilibrio che, un secolo prima, pareva una realizzabile utopia. Accanto ai centri principali di diffusione della nuova modalità espressiva – Firenze, Roma, Venezia e Bologna -, ebbe un ruolo decisamente non secondario la città di Cremona che, come avrebbe annotato Roberto Longhi, nel XVI secolo fu una sorta di “piccola Anversa”, in quanto vi confluirono pittori di varie tendenze. Il loro incontro con le personalità locali diede origine a quell’intensa cultura padana – da cui peraltro prese vita l’arte caravaggesca -, frutto di una rivoluzione “rapida e teatrale” alla quale spetta il merito di avere offerto una risposta concreta alla polemica tra scuola toscana e romana con Michelangelo e scuola veneta con Tiziano: una disputa che certamente scosse e in qualche caso inaridì la vicenda pittorica del Cinquecento italiano.

 

Gambara, Scena bacchica
Gambara, Scena bacchica

A Cremona, la bottega dei fratelli Giulio e Antonio Campi, laboratorio di altissimo magistero artistico, fu un fondamentale centro di catalizzazione di tutto quanto di meglio circolava in quell’area geografica: il romanismo di Giulio Pippi – che aveva trasfigurato a Mantova la pittura di Raffaello, di cui era allievo, e di Michelangelo -, il naturalismo lirico di Dosso Dossi, l’intellettualismo di Correggio e di Parmigianino, con le sue eleganze lineari e coloristiche, vagamente languide e sensuali. Per motivi del tutto casuali, alla bottega dei Campi si formò anche il bresciano Lattanzio Gambara (1530-1574), il quale era giunto a Cremona al seguito del padre, un modesto sarto d’indole rissosa che era stato messo al bando dalla sua città. Tornato a Brescia nel 1550, il ventenne pittore si rivelò subito più colto e versatile rispetto ai giovani colleghi locali, e toccherà proprio a lui portare nell’ambiente artistico cittadino i fermenti nuovi, aprendo in qualche modo uno spiraglio in una realtà chiusa, nella quale fino a quel momento l’unica influenza era stata quella di Romanino e Moretto.

Gambara era stato benevolmente accolto da Girolamo Romanino, che lo volle con sé in importanti commissioni e che gli concesse in moglie la figlia Margherita. Il rapporto fra il vecchio e il giovane va inteso in modo diverso da quello tradizionale maestro-allievo, essendosi subito rivelato nella dinamica di una collaborazione su un piano sostanzialmente paritario. Romanino, infatti, doveva avere intuito con immediatezza le doti di Lattanzio, del resto molto evidenti sin dalle prime commissioni, e il grande valore delle novità cremonesi che il pittore portava con sé; tuttavia Gambara, forse non ancora ben consapevole di ciò, continuò per un certo periodo ad aderire a schemi di segno romaniniano.

Punto di svolta, in ordine alla conquista di una piena autonomia, fu il ciclo di affreschi delle Case del Gambero (oggi conservati alla Pinacoteca Tosio-Martinengo), complesse ma eleganti composizioni di gusto manierista, che furono condotte dall’autore in maniera indipendente. Le decorazioni, con soggetti tratti dalla mitologia, dalla storia romana e dall’Antico Testamento, palesano la sua aggiornata erudizione in fatto di favole mitologiche e di celebri assunti storici riproposti in chiave moralistica. Inoltre, vi si osserva la chiara consapevolezza di un’arte decorativa che dev’essere perfetta simbiosi fra pittura e architettura, in cui i colori e le forme plastiche conferiscono ampio respiro musicale alle masse statiche.

Riuscendo a far convivere armoniosamente numerosi spunti bresciani, non solo romaniniani ma anche moretteschi, in impianti manieristici, con esiti molto apprezzati dai contemporanei, Gambara conquistò una lunga serie di commissioni, nell’ambito delle opere decorative e in misura minore nel settore della pittura sacra. Si assiste rapidamente al fiorire di una stagione felice nelle sue modalità espressive, nella quale si osservano il perdurare della lezione correggesca nella morbidezza dei contorni, nel fluido ondeggiare dei drappi e nell’inserimento di sostanza cromatica, e alcune suggestioni derivanti dalle aeree e solari creature di Paolo Veronese. Di questo importante momento furono frutto cicli come quelli di Palazzo Martinengo alle Caselle o quello in Casa Pedrocca Bargnani Valotti a Brescia (oggi conservati ad Edimburgo, dopo essere stati trasferiti su tela). Tuttavia tale periodo non durerà a lungo, e in lavori successivi quell’oscillazione tra Correggio e Veronese prenderà una piega pedissequa, in alcuni casi quasi stucchevole. In seguito, si osserverà l’emergere di numerosi ricordi raffaelleschi, aspetto assai comune in tutto l’ambito manierista, vista l’ampia diffusione di incisioni condotte sulle opere romane del Sanzio. Nel ciclo di affreschi di Palazzo Avogadro (purtroppo rovinati da un poco oculato intervento di restauro nell’Ottocento), per esempio, Gambara seppe costruire un impianto grandioso dominato da un ritmo compositivo che si avvale di un largo respiro di concezione e di una tavolozza generalmente sobria e levigata, ma che, con alcune accensioni cromatiche, stupì non poco i contemporanei.

Lattanzio Gambara, Apollo, Brescia
Lattanzio Gambara, Apollo, Brescia

Nel 1567 l’artista si recò a Parma, dove aveva ricevuto l’incarico di decorare le tredici crociere della navata maggiore della Cattedrale. Nella città emiliana resterà fino al 1573, portando a termine altre commissioni. Il 18 marzo 1574, mentre – di nuovo a Brescia – lavorava alla decorazione della cupola di San Lorenzo, popolandola di figure forse in competizione con quelle stupende del Correggio a Parma, cadde dall’impalcatura e morì. Aveva solo quarantaquattro anni.