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Il giovedì delle streghe


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L’indizio del giovedì
«I sabba erano molto frequenti — scrive Trevor Roper nell’opera Protestantesimo e trasformazione sociale —. Inizialmente gli inquisitori della Lorena ritennero che avve¬nissero soltanto una volta alla settimana, di giovedì». Anche il poeta macaronico Teofilo Folengo, grande ispiratore di Rabelais, utilizzò nel Baldus (VI 16) la voce zubiana, per indicare la «donna del giovedì», strega che galoppa fra le nubi, dopo essersi cosparsa di unguento. Il sostantivo zubiana diventerà poi sinonimo di donna di malaffare e soprav¬vivrà nei dialetti bresciano e bergamasco fino all’Ottocento, quando sarà registrato dal Rosa. Secondo il «Flagellum haereticorum fascinariorum» di Nicolas Jacquier (XV secolo) i piaceri disordinati del giovedì sera potevano esser traditi la giornata successiva. «Questo talvolta è stato scoperto dai servi dei suddetti stregoni i quali, dopo i processi e le con¬fessioni che avevano reso pubblica la vicenda, riferirono che i padroni avevano detto loro che in certi venerdì erano sta¬ti a letto malati». Basta comunque sfogliare qualunque volume che raccolga i processi per stregoneria del XV e XVI secolo per comprendere quanto il giovedì sia elemento misteriosamente comune a tutte le deposizioni, troppo ricorrente per essere ignorato ai fini dello studio del sostrato folkloristico e religioso che alimentò le persecuzioni. «Un giovedì notte delle quattro tempora di San Martino, essendo Margherita a casa sua, vennero le gatte nere e sollevandola la portarono via… In quel luogo fecero un gran mangiare ed una grande cucina con un foco pallido». (Processo a Tessadrella ne La signora del gioco, Luisa Muraro, Fel¬trinelli 1976) «Si ricorda che una volta, un giovedì notte delle quattro tempora di San Michele venne un diavolo in forma di cane nero, e la chiamò e lei uscì» (processo a Orsola, ibi¬dem) «Un’altra volta Margherita, trovandosi a filare in casa della Scorma di Tesero insieme ad altre donne, erano le quattro tempora di Natale, un giovedì sera mentre filava le fu dato un gran pizzicotto e una botta sulla schiena, così fu costretta ad andar via subito». (ibidem) «Circa 35 o 36 anni fa un giovedì sera durante le feste di Pasqua in marzo le arrivò da Aldino uno, inviato a dirle che suo figlio stava male. Orsola era per ciò molto turbata… Arrivata alla Pau¬sa sopra il sentiero vide arrivare una gran moltitudine di gente, uomini e donne, tra i quali non conosceva nessuno» (ibidem) «Trovandosi a lavorare durante le quattro tempo¬ra del giugno passato, dopo mezzogiorno, quasi all’ora di vespro, arrivarono due cagnetti neri» (ibidem) «E così una notte di giovedì durante le quattro tempora di marzo, la Vanzina fu condotta da quelle sue compagne sotto la noce dei boschetti dove trovò molta gente (ibidem)». Le testimonianze, a questo riguardo sono quasi ossessive, almeno fino a quando la demonizzazione, per sovrapposizione del mito ebraico a quello propriamente stregonesco, non individuerà un nuovo giorno, il sabato, che si presterà meglio (in quanto giorno dedicato alla Madonna) ad alimentare l’accusa di lesa divinità.


Ma perché le presunte streghe avrebbero scelto il gio-vedì per gli incontri rituali? E in particolare perchè il giovedì delle quattro tempora? Questo giorno doveva costituire nelle società rurali una sospensione carnevalesca e rabelaisiana di un periodo rituale, caratterizzato dal rifiuto della corporeità. Le quattro tempora erano infatti costituite da «quattro serie di di tre giorni di digiuno e di astinenza istituite dalla Chiesa al principio delle stagioni dell’anno con finalità di propiziazione». Secondo Leone Magno il digiuno era di origine ebraica; mentre altri autori vi hanno scorto la continuazione delle feriae romane di carattere agricolo (feriae messis, vindemiae, sementiciae). Quel che è certo è che nel VI secolo Gregorio Magno le fissò definitivamente al mercoledì, al venerdì, e al sabato che precedono la se¬conda domenica di Quaresima, la prima dopo Pentecoste, la terza di settembre e dell’Avvento (primavera, estate, au¬tunno, inverno). Il giovedì restava pertanto giornata libe¬ra dai tabù cristiani, compensazione e interruzione della ri¬nunzia mistica, spazio aperto nella griglia liturgica, attra
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verso il quale rifluivano liberamente tradizioni pagane, legate alla terra e alla sua propiziazione. Le analogie con altri «giorni liberi» (quelli della Quaresima) sono molto strette, anche se, presumibilmente, la specificità rituale della zobia (connessa alla fertilità d’erbe, d’uomini e animali) doveva rendere più eversiva la carica erotica del festino. Prima e dopo i digiuni e le astinenze, imposti dalla Chiesa, ci si incontrava in campagna e nei boschetti isolati. Si accendevano i falò; si faceva l’amore dove un tempo gli antenati rendevano omaggio a pietre, alberi, fonti in cui albergava il principio della fertilità. Le quattro tempora, per forte caratterizzazione rituale, dovevano assumere inoltre una con¬notazione magica, sempre legata alla propiziazione e all’abbondanza. «Chi infatti ha la facoltà di accedere durante le tempora, dopo un misterioso letargo all’aldilà popolato di morti e presieduto da Holle Venere — scrive Ginzburg ne «I benandanti» — si garantisce la fertilità».
Agli occhi degli inquisitori glì incontri del giovedì do-vevano apparire con il crisma infernale perchè in essi pre-valeva il culto per la materialità, per gli appetiti, per il corporeo, che, nell’equazione cristiana, sta al diabolico come lo spirituale al divino. Identificare i riti della cultura materiale (in particolare quelli più trasgressivi) con messe nere di devozione al demonio e di contestazione della divinità non era quindi un’operazione logica particolarmente complessa. In realtà, dalle testimonianze di Pincinella e delle streghe sue contemporanee, si comprende che gli incontri notturni rappresentano l’altra faccia (quella popolare e sommersa) della religione cristiana, una zona d’ombra che si staglia sullo stesso corpo cultuale, in uno stretto gioco d’incastri. Il cristianesimo si era infatti imposto con sincretismo, come un disegno arcimboldesco ottenuto dall’accostamento (spesso stridente) di diverse realtà di culto. Così le maliarde, nell’esposizione dei tabù stregoneschi, confermano la veridicità della griglia che inscrive vecchio e nuovo. Osservano infatti le prescrizioni e le proibizioni ecclesiastiche e quindi praticano il gioco soltanto nei giorni consentiti. Le malefiche riferiscono infatti di andare in tregenda soltanto il martedì e il giovedì, non il venerdì (giorno di Passione del Signore) non il sabato (giorno della Madonna) e non la domenica (giorno consacrato e di Resurrezione). Perchè ri­spettare questi tabù se «la perfida genia» delle streghe aves­se lavorato realmente alla dipendenze dell’eterno Avver­sario? La demonizzazione di queste usanze potrebbe esse­re avvenuta nel seguente modo: 1) Chiesa e religiosità ete­rotossa (un pastiche di cristiano e pagano, di materiale e spirituale) vivono per secoli in una compenetrazione ben più profonda di quanto oggi si ritenga; 2) all’epoca delle insidie preluterane, specie negli ultimi decenni del XV secolo, la Chiesa si sente in pericolo e provvede a un progressivo sgan­ciamento delle consuetudini eterodosse e di tutti i riti più ambigui; 3) la zobia delle quattro tempora, come momento legato alla fertilità, alla sessualità e alla propiziazione pre­senta caratteristiche notevolmente ambigue; 4) la cultura umanistica e urbana fornisce inconsapevolmente gli spunti per la demonizzazione dei partecipanti al gioco, attraverso la riproposta di modelli pagani (Veneri cornute, Diane in­vitanti e opulente).


Il folklore, fino ai nostri giorni ha continuato a mettere in relazione vecchie, fuochi, fertilità, cultura materiale, basso rabelaisiano. Già alla fine del ‘500 il processo di stereotipia (il passaggio dalla realtà all’idealizzazione mitica degli in­contri del giovedì) si stava concludendo. Lo testimoniano due sinodi del 1590 e del 1591 (Crema e Lodi) che invitano i preti a contenere il diffuso gioco magico dei bambini che, nei giovedì di marzo, strepitavano per i campi e le strade, con l’intenzione di scacciare le streghe. Nello stesso perio­do nasce anche la credenza secondo la quale «sono streghe e stregoni gli individui venuti alla luce nel periodo delle quat­tro tempora». Annota Nanni Svampa in una raccolta di canti e folklore: «Questa usanza (il rogo rituale ndr) si ricollega alla tradizione, diffusa soprattutto nella Brianza, di brucia­re la strega d’inverno, la Giobbiana, per cacciare i rigori invernali… La vecchia rappresenta una strega, un male per l’agricoltura. Bruciare una vecchia significa che van via tutti i mali e tutto il raccolto è buono. Il nome Giobbian pare trag­ga origine dal piemontese giobbia, giovedì, giorno in cui si riunivano le streghe. C’è poi la leggenda secondo la quale la Giobbian sarebbe scesa dai camini ogni ultimo giovedì di febbraio e si sarebbe nascosta in attesa di una porzione di tradizionale risotto». Anche in Valcamonica, zona d’epi­centro stregonesco e d’elevata cultualità preistorica, è vi­vo il ricordo di un gioedé de le bele (giovedì delle belle) «A Breno, durante la fiera che si teneva dal 17 gennaio al 14 febbraio — scrive lo storico bresciano Antonio Fappani — … era chiamato gioedé de le bele l’ultimo giovedì di gen­naio, che vedeva la partecipazione di tutta la valle, sfilate in costume ecc. Venne introdotto in tempi antichi ed è già ricordato ìn documenti del ‘600. Diverse le opinioni sul no­me. C’è chi ritiene fantasiosamente che si riferisca al sacri­ficio di vergini alla divinità, chi al fatto che in tal giorno le donne di casa, le più schive si mettevano in mostra, chi pensa che si trattasse di una specie di festa dedicata alla donna».
 
Da M. Bernardelli Curuz, “Streghe bresciane”, 1988, Ermione