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Il miglior amico delle donne. Sottintesi nei quadri, tra i cani e le padrone


Tiziano, Venere con suonatore e cagnolino (particolare)
Tiziano, Venere con suonatore e cagnolino (particolare)

Un libro sorprendente ed intrigante, da consigliare senz’altro ai nostri lettori. Si tratta di Colori d’amore. Parole, gesti e carezze nella pittura veneziana del Cinquecento, di Enrico Maria Dal Pozzolo, edito da Canova nella collana Sguardi sull’arte, diretta dallo stesso Dal Pozzolo. Dal volume è tratto lo scritto che pubblichiamo qui, per gentile concessione dell’autore.

di Enrico Maria Dal Pozzolo

Il cane è comunemente connesso all’idea di fedeltà, che deriva dalla principale caratteristica nei confronti del suo padrone. Si tratta di un’opinione attestata già in Plinio e nel Cinque e Seicento, reiterata in emblemata e testi vari ad abundantiam. Esso serve ad indicare fedeltà per varie categorie sociali, con screziature di significato che vanno dalla virtù matrimoniale alla fede ecclesiastica, ma che possono specificarsi ulteriormente in altri richiami, come quelli a prudentia, iudicium e divinatio. Con tali accezioni, cani sono di volta in volta raffigurati ai piedi di sovrani nell’esercizio del potere (Lodovico Gonzaga nella Camera degli Sposi), umanisti (da Francesco Petrarca nella Sala dei Giganti a Padova a Giusto Lipsio), santi come Girolamo e Agostino (da Dürer a Carpaccio), prelati (nel foglio di Lotto al British Museum) eccetera.
Non si tratta, tuttavia, degli unici significati, e ve ne sono anche di negativi. Basti pensare che in un paio di incisioni dell’Italia settentrionale del 1470-80, e poi in Ripa, il cane sta a indicare invidia e che Pierio Valeriano lo porta quale figura anche della fames e dell’impurus amator.

Enorme, poi, la variabilità di segno riconoscibile nel folclore, dove un cane poteva personificare il diavolo o addirittura diventare santo. E’ necessario quindi non applicare meccanicamente l’interpretazione comune di fides, anche perché è chiaro che in numerosi ritratti la presenza canina può benissimo servire a testificare visivamente il legame affettivo tra uno specifico padrone e uno specifico animale: il misterioso vincolo di amicizia che si nutre, peraltro, della reciproca fedeltà e che dunque – sia pure in termini indiretti – si pone in connessione col valore preminente.

Non manca però chi, come il “colto” Veronese, sembra inserire i cani nelle sue affollate orchestrazioni solo per motivi di carattere decorativo. A una così ampia gamma corrisponde il fatto – esegeticamente piuttosto spiazzante – che uno stesso autore, attraverso un cane presentato in modi analoghi, possa manifestare un’intenzionalità significante anche estremamente differenziata. Jacopo Bassano, ad esempio, passa dalla descrizione di una “impresa” gentilizia (i Due bracchi del Louvre) al bruciante trompe-l’oeil inteso per ingannare i passanti (quale dovrebbe essere il Levriero di collezione privata torinese), senza precludersi il consueto richiamo alla fedeltà, e non di rado piegandosi a mere ragioni commerciali, legate alla sua fama di pittore di animali.

Lorenzo Costa, Ritratto di dama con un cane (Isabella d’Este?)
Lorenzo Costa, Ritratto di dama con un cane (Isabella d’Este?)

In un Ritratto muliebre di Lorenzo Costa che si conserva ad Hampton Court si potrebbero addirittura riconoscere – teoricamente – tre distinti riferimenti a un tempo, con più livelli di lettura. Si è detto trattarsi di un ritratto idealizzato di Isabella d’Este. Se così fosse, non potremmo non ricordare, anzitutto, che la duchessa era appassionata di animali da compagnia, in primo luogo di cani e di gatti, e che alcuni di questi ultimi furono fatti giungere appositamente da Venezia e dalla Siria. In particolare, fu legata a un cagnolina di nome Aura la cui morte, nel 1511, la prostrò: piovvero versi dalla corte e da ogni parte d’Italia (e non tutti da poco, visto che vi concorsero Tebaldeo ed Equicola) insistenti soprattutto sulla pudicizia della cagnetta, morta cadendo da un balcone per sfuggire alle insidie amorose di uno spasimante a quattro zampe. Venne fatto un funerale e si predispose una lapide, come avveniva anche per altri animali di corte (a motivare l’esistenza di semplici ritratti, letterari e figurativi, di cani).
Tuttavia è evidente come un’immagine come quella di Hampton Court si fondasse su prototipi che richiamavano d’acchito il valore preminente di fedeltà, che a sua volta veniva trasmesso di conseguenza. Ma – a un terzo grado – la fedeltà di chi? Di Isabella o del marito Francesco Gonzaga, cui questa bestiola umanizzata somiglia tanto (lo si può ben constatare nel confronto con la scultura di Gian Cristoforo Romano al Palazzo Ducale di Mantova)?

Gian Cristoforo Romano, Ritratto di Francesco Gonzaga
Gian Cristoforo Romano, Ritratto di Francesco Gonzaga

L’ipotesi è forse meno peregrina di quanto non sembri, se si considera che spesso nella lirica cortigiana s’insistette su un concetto di questo tipo: l’amante voleva godere dell’amata, stando sul suo seno, proprio come il cagnolino – si perdonino i bisticci – amato dall’amata. E poiché l’amata non sempre ricambiava l’amante col suo stesso ardore, anzi, quest’ultimo maturò una frustrazione crescente e spesso rabbiosa, che lo portò a ingaggiare una metaforica tenzone con l’animale: che se ne stava lì, beato, su quel candido petto, mentre lui pregava, gemeva, insisteva inutilmente. D’un tratto, ecco tramutarsi il cane da simbolo di fedeltà in quello di desiderio inappagato, di provocazione ed esclusione: insomma, si trasforma nell’impurus amator additato da Valeriano.
Gli esempi letterari richiamabili non mancano, a partire dalla seconda metà del Quattrocento: si tratta di un motivo segnalato in Leonardo Giustinian, Niccolò da Correggio, Vincenzo Calmata, Gaspare Visconti e Serafino Aquilano. Nella XX delle fortunatissime Rime di quest’ultimo, ad esempio, si legge: “O felice animal, felice dico / che godi di tal dea le labra e ’l fiato; / ah, chi te spinse a sì sublime stato / crudo, inumano, e de pietà inimico? / Tu de soe braccia cinto, et io mendico / (quanto mi noce in meglio setta nato) / tu del suo dolce umor te pasci, io pato, / e sol per lei di pianto me nutrico. / Rigido can, tu più di me non l’ami, / ma veggio or ben che ’l ciel tutto governa / ch’io el cerco ognor, tu pur tal ben non brami. / Tua forma avessi, e tua mia pena eterna, / ché se l’ciel dette a me gli uman ligami / fu a ciò ch’ogne dolor meglio discerne”.
Non apprezzata dal Bembo, la metafora è raccolta, nella seconda metà del Cinquecento, dal Tasso, Rinaldi e Stigliani, fino a giungere a Marino, che la ripropone più volte. Si lamenta il trattamento impari riservato a cane e amante, che provoca insopprimibile invidia. Così Tasso (Rime, III 140): “Perché ha madonna a te tanto la mente / ch’ognor ti chiama, ognor ti tiene a lato, / e dolce copia del bel viso amato / non senza invidia altrui ti fa sovente?”.
E così Marino (Lira, I 34): “Mentre nel grembo a trastullar ti stai / de la mia donna umilemente altero / vezzoso animaletto e lusinghiero / ond’invidio e geloso altrui ne fai”. Con la gelosia, a un certo punto avanza pure il sospetto che non un cane, ma Amore mascherato (Tasso), o Giove o Circe o Cerbero (Marino) siano lì a godere di quel “bel sen”. Riporta tutti con i piedi per terra Tommaso Stigliani, che vibratamente protesta: “Tu sai che chi Zerbin donotti, io sono: / or perché a lui tu baci i membri irsuti? / Si premia il donatore e non il dono”.

Ora, è chiaro che la visualizzazione pittorica di simili discorsi non poteva essere piana, pena un’impietosa ridicolizzazione dell’amante. Ci si deve dunque chiedere se e come tale motivo letterario sia correlabile alle testimonianze figurative giunte fino a noi. Sicuramente il dubbio non dovrebbe sussistere a riguardo delle tante dame che, in impianti tradizionali, appaiono compostamente con in grembo, o a lato, il cagnolino: in tali casi quest’ultimo starà prevalentemente a esprimere – magari sub specie dell’animale in vita posseduto dalla donna – l’antico concetto di fedeltà che, va precisato, gli autori sopra citati non si sognavano di negare. Tuttavia, esistono alcuni casi in cui la correlazione tra il cane e il seno della donna appare di segno ben diverso, con una forte accentuazione erotica, senza che si debba necessariamente pensare a immagini di prostitute.

Bonifacio Veronese, Ritratto di dama con un cane
Bonifacio Veronese, Ritratto di dama con un cane

Si consideri il Ritratto di dama con cane di Bonifacio Veronese un tempo nella collezione Treccani di Milano: un’avvenente fanciulla si porta la sinistra sul petto a indicare la camiciola semiaperta, mentre con la destra accarezza un vispo quadrupede, che ci fissa intensamente, come a rimarcare l’interazione tra chi osserva (in primis, quindi, il committente del dipinto) e la scena rappresentata. Il proprietario del quadro intese così trasmettere il suo desiderio di stare tra le braccia della donna e di godere del suo corpo, in modo allusivo, per nulla smaccato e per certi versi intenzionalmente “glorificante”: si noti l’impostazione aulica ottenuta stagliando la dama su una nicchia in penombra, come se fosse una statua, secondo una soluzione adottata ad esempio da Palma il Vecchio per la Paola Priuli alla Pinacoteca Querini Stampalia di Venezia.
Ben diversa attitudine venne invece a esprimere, più o meno negli stessi tempi, un artista della cerchia del medesimo Pitati (probabilmente il misconosciuto Stefano Cernotto), convocato da un committente meno raffinato perché esternasse tale desiderio, per così dire, andando al sodo. Eliminato il cane di troppo, si fece ritrarre – vestito da festa, sguardo perso – sul soffice petto di una bella dalle fattezze troppo individualizzate per non credere di essere innanzi a persona allora riconoscibile.

In altri casi pare invece inopportuno pensare a un ritratto, e se lo è, è “di un certo tipo”. La Dama di Polidoro da Lanciano è sicura di sé al limite della sfacciataggine, lancia quasi una sfida nei confronti dell’osservatore, stringendo provocatoria un cane che sentiamo ineluttabilmente al di là dello spazio a noi riservato. Per intendere con che spirito, con che tensione voyeuristica, si sostasse innanzi a simili immagini serve uno dei madrigali di Cesare Rinaldi, stampati a Bologna nel 1588.
“Stringiti pure al petto / e scherza e ridi, e bacia quanto vuoi / l’animal pargoletto; / che i baci, i risi e i dolci scherzi tuoi / non t’accorgendo i’i furo, / quando al presente oggetto / e scherzi e risi e baci in me figuro. / Segui dunque scherzando, / e ridendo e baciando, / che mentre scherzi e baci e ridi seco, / scherzerai, bacerai, riderai meco”. Più esplicito di così non avrebbe potuto essere.

Giacomo Franco, Cortigiana famosa, in ‘Habiti delle donne venetiane’
Giacomo Franco, Cortigiana famosa, in ‘Habiti delle donne venetiane’

Non stupisce, dunque, che nella Venezia di fine secolo coloro che avevano fatto della seduzione una professione, le cortigiane, avessero deciso di appropriarsi del cane quale ulteriore e colto richiamo amoroso: lo testimonia Giacomo Franco nei suoi Habiti delle donne venetiane, allorché specifica che esse erano solite “tener cagnolini di razza Francese, e nella lascivia superar qualsivoglia altra donna”. Altro che fedeltà, dunque: è più o meno subdolo invito all’impurus amator additato da Valeriano nei suoi Hieroglyphica in figura di cane.
Ciò va sottolineato anche ripensando alla presenza del quadrupede – sempre spiegata con il significato tradizionale di fides – entro certe Veneri di Tiziano contemplate da un suonatore dall’interno del dipinto stesso, la cui pregnanza erotica è stata più volte rilevata. Si consideri la Venere con suonatore e cagnolino del Prado con la donna – verosimilmente un ritratto, come suggerito da Panofsky – che con dolcezza accarezza un cagnolino festoso, in piedi su due zampe giusto all’altezza del seno, mentre l’organista (lui un ritratto di certo) imperturbabilmente fissa le parti intime della donna.
Più rimarcato il ruolo canino nella redazione di Berlino, laddove un maltese ci abbaia mentre l’organista (Filippo II?) si volge dalla tastiera per contemplare pure lui la bellezza femminile della dea. S’è detto che simili immagini illustrano un’esperienza sessuale attraverso la vista, ma è riduttivo; e comunque, a riguardo del cane, non sarebbe meglio sostituire al significato sostanzialmente sfocato di fedeltà quello di desiderio di contatto fisico tanto diffuso grazie agli esempi letterari appena scorsi?

Comunque sia, va rilevato l’approdo estremo di simile processo: ossia che si arriva al punto in cui un determinato tipo di cane sembra quasi non poter esistere senza la dama, destinato a stare sul suo grembo anche se lei non c’è. Giambattista Marino, nella Galleria, non riuscì a non commentare un “Cagnolino di mano del Bassano” (immaginabile dunque come un ritratto isolato, sul tipo di quelli sopra menzionati) senza richiamare in campo la donna invero assente, scivolando su una palese allusione di carattere erotico. “Se già di vita privo, / tu, che vivo mi vedi, / ancor dubbio non credi / che m’habbia del Bassano / suscitato la mano / fa’ che’n grembo Madonna / m’accoglia entro la gonna, / vedrai ben tosto all’hora / s’io latro, e mordo ancora”.