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Il padre povero di Mantegna cedette il piccolo artista al ricco Squarcione





Come nelle fiabe della povertà estrema, quelle condotte al limite di boschi oscuri nei quali i genitori in difficoltà sono costretti ad abbandonare la figliolanza, Biagio, ottimo carpentiere di Isola di Carturo, un borgo al confine tra le province di Vicenza e di Padova, fu indotto a disconoscere la paternità di Andrea passandola legalmente al pittore Francesco Squarcione. Rinunciò ad essere padre, per la legge, di quel bambino di dieci anni rapido e scarsamente remissivo, ma fortemente incline all’apprendimento, in quanto riconobbe che al ragazzo la fortuna avrebbe arriso con certezza se avesse potuto suggere i segreti di una buona bottega. E la scuola multiforme dello Squarcione risultava essere un ottimo viatico, poiché produceva tavole dipinte, oreficeria, apparati decorativi e cornici lignee.
mantegna

La bottega del maestro era affollatissima di allievi che apprendevano le arti e che, per mantenersi e garantire al padrone un congruo margine di guadagno, già operavano in termini produttivi. Ben 137, a Padova, sarebbero stati gli artisti e artigiani formati in quell’edificio nel quale si affastellavano calchi, stoffe preziose, statue, contenitori di monete romane, cioè materiale didattico di prima qualità, considerato il fatto che proprio il confronto con il mondo classico costituiva l’indice di aggiornamento di un atelier. Qui il piccolo Andrea iniziò a confrontarsi con gli antichi e, contemporaneamente, a maturare il risentimento e l’ardore del collegiale triste, solo tra le mille impervie difficoltà della vita di gruppo, sentimento che l’avrebbe portato, nel volgere di poco tempo, a chiudersi in un atteggiamento difensivo e a coltivare il proprio ego, estroflettendo aculei e aggressività. L’antico. Ecco, lo Squarcione era, in questo campo, assai dotato di illustri modelli. E Padova, del resto, città universitaria di primo livello, era stata tra le prime a recepire la necessità dello scavo, sotto le zolle dell’italico suolo, per individuare quei precedenti illustri, magniloquenti, che avrebbero, a livello politico, costituito il filone culturale dei Comuni prima e poi delle Signorie, con uno spostamento dello splendido asse della civiltà verso la nostra penisola. Petrarca, del resto, aveva qui diffuso le proprie preoccupazioni di serio filologo per una rifondazione del mondo sulle grandezze degli antichi.
Sicché Padova, che già ai tempi di Giotto aveva manifestato una netta propensione ad accogliere e promuovere linguaggi nuovi, si era trovata ad essere al centro di un percorso di ricerca dei beni antiquari e di testi, alla quale non si sottrasse l’abilissimo Francesco Squarcione, pittore e imprenditore, un po’ Mangiafuoco e uno po’ curato del grande tempio dell’antico. Squarcione, secondo quanto si disse, non badò a spese né a viaggi perigliosi – tra i quali si favoleggiò un lungo trasferimento in Grecia alla ricerca di marmi divinamente lavorati – per acquisire reperti, lacerti di statue o calchi che poi sarebbero stati utilizzati nella bottega patavina.
L’aggiornamento di Padova sulla linea del recupero del pensiero e della forma classici era notevole, ma certo inferiore rispetto a quanto avveniva in Toscana. Nell’Italia centrale il plasticismo scultoreo era divenuto elemento centrale della ricerca pittorica, attraverso punti di vista ravvicinati nei quali – più che al paesaggio – il ruolo centrale spettava alla figura inserita in un reticolo prospettico. Padova era consapevole della necessità di un mutamento dei linguaggi in pittura; sapeva, peraltro, che il gotico internazionale – con le sue fiabe, i fondali mitici, i personaggi eleganti – doveva aprirsi definitivamente al nuovo, attraverso l’uso di quinte architettoniche cavate dall’architettura classica e con un trattamento della figura, che doveva conformarsi ai modelli scultorei.
Fu comunque Donatello, chiamato a Padova con l’incarico di realizzare le formelle bronzee con i Miracoli di Sant’Antonio ad arrivare ad accendere le polveri piriche sul Veneto, che era in attesa di un evento folgorante, sicché queste storie prodotte dallo scultore, vicine alla fonte altissima del classico, avrebbero costituito, per il settentrione d’Italia, l’incunabolo autentico del rinnovamento estetico.
Chi voleva imparare a ‘pingere in recenti’, stando agli stessi contemporanei doveva rivolgersi alla bottega del grande scultore fiorentino, la cui presenza in città, per gli artisti del tempo, fu fondamentale. Appare allora evidente l’importanza della concomitanza tra i tempi della formazione del giovane Mantegna e quelli del soggiorno padovano del maestro. L’eco delle novità donatelliane – immediata e travolgente -raggiunse in breve anche Mantegna, sia direttamente, sia attraverso Nicolò Pizolo che, dopo aver lavorato nel cantiere del Santo, aveva firmato con Andrea il contratto per la decorazione della Cappetta Ovetari, nella chiesa degli Eremitani. E proprio gli straordinari affreschi che Mantegna realizzò agli Eremitani mostrano il desiderio dell’artista di emulare in pittura i risultati delle sculture di Donatello.
Prestiamo estrema attenzione a questo concetto nel quale si gioca, autenticamente, la grande novità di quegli anni. La pittura, infatti, entra in competizione con la scultura che, già ai tempi del primo gotico, era stata antesignana di un diverso atteggiamento nella rappresentazione della realtà.
Ai pittori è manifesta la superiorità indiscussa della scultura – con particolare riferimento a quella antica -. La scansione a tutto tondo fornisce una perfetta aderenza al vero. E’ per questo che essi recuperano statue o calchi antichi studiandoli approfonditamente, collocandoli sulla predella – anche sopra o sotto il piano degli occhi – per osservare il corpo umano e usufruire di una sintesi della rappresentazione che offra, rispetto alla figura, soluzioni chiaroscurali e prospettiche già ampiamente definite dallo scultore. Da qui discende, nei dipinti di quegli anni, una visione statuaria del corpo umano e dei volti. Il modello principale deriva infatti dal repertorio della statuaria romana e greca.
Nel cantiere della cappella Ovetari – il cui contratto di commessa viene stipulato nel 1448 dalla vedova di Antonio degli Ovetari -Mantegna porta il proprio Dna squarcionesco, caratterizzato da una netta predisposizione nei confronti dell’antico, e osserva con grande attenzione il proprio collega-antagonista, Nicolò Pizolo, che aveva frequentato la bottega di Donatello. Pizolo costituisce un termine di paragone che completa, in Mantegna, l’osservazione delle opere di Donatello, o di quelle di Paolo Uccello e Filippo Lippi, i cui dipinti sono presenti in città. L’occasione fornita ad Andrea, agli Ovetari, è costituita dall’osservazione del costituirsi progressivo dell’opera, sotto le mani di un artista che ha frequentato la bottega del grande fiorentino. Ciò significa poter trovare già risolti alcuni passaggi tecnico-compositivi.
Si ritiene che dall’osservazione di Pizolo, tra l’altro, Mantegna avesse appreso a lavorare meglio sulla figura, anche grazie a una più accurata predisposizione del panneggio bagnato sui manichini – che consentivano di fissare scultoreamente, attraverso il gesso, le pieghe delle stoffe, offrendo al pittore la nettezza delle ombre e dei lumi da riportare sul dipinto – e a usare con sempre maggior frequenza e scioltezza gli impianti prospettici, sui quali, comunque, il giovane pittore si era esercitato ai tempi dell’apprendistato, con particolare riferimento alla figura.
Allontanatosi dalla bottega di Squarcione – che continua, comunque, a chiedere i proventi dei lavori di Mantegna e al quale il giovane pittore si opporrà legalmente con un processo che vedrà riconoscere pienamente i suoi diritti di autonomia -, Andrea punterà dritto la barra in direzione dell’area donatelliana. L’autentico esordio del Mantegna, lasciato alle spalle il periodo di formazione, avviene sotto la stella di Donatello, come dimostra l’affresco dedicato a San Marco – presente in mostra -, nel quale la figura appare a tutto tondo, plasticamente e scultoreamente lavorata, grazie a elementi prospettici avanzati e posti su diversi piani – la mano benedicente, il libro, il cartiglio – in grado di creare, attraverso l’articolazione delle vie di fuga all’interno del dipinto, un senso di profondità e di plasticità scultorea alla figura; rapporto con la scultura che egli renderà evidente anche nella lunetta del portale maggiore della Basilica del Santo, che costituisce un vero e proprio rilievo
“scolpito in pittura”.
Ciò dimostra che il primo problema di Mantegna – risolto con progressiva scioltezza – riguarda proprio il nodo della tridimensionalità e del punto di vista. Egli affronta questo nodo in una sorta di trasposizione della scultura in pittura e, successivamente, soprattutto grazie al contatto con le opere veneziane dei Bellini, ammorbidirà il tessuto pittorico grazie a una luce nuova, all’attenzione al paesaggio, ma anche attraverso – e ciò, soprattutto a partire dai primi anni mantovani – un’attenzione sempre maggiore a sommuovere i visi dei personaggi con l’alfabeto della fisionomica e dell’espressività, in grado di conferire un soffio di umanità all’interno di una struttura che, in Mantegna, resterà sempre comunque scultorea, come se egli avesse dato vita, carne e sangue a magnifiche statue.
Importante fu il rapporto tra Mantegna e lo Schiavone, anch’egli allievo dello Squarcione – a partire dal 1456 -, autentica punta del gruppo giacché risultava uno dei principali interpreti dell’adeguamento stilistico della bottega di Francesco rispetto alle novità presenti in città. Altro snodo decisivo nell’ambito della pittura di Andrea, l’incontro tra il giovane artista e Jacopo e Giovanni Bellini – che diverranno suo cognato e suo suocero -: qui appare quell’ammorbidimento tra il dettato statuario e geometrico della scultura e della prospettiva, svolto attraverso l’osservazione del mondo naturale. Jacopo Bellini – concorrente dello Squarcione – aveva preso le mosse da una tradizione tardo-gotica che era ormai giunta al tramonto e si era aggiornato, anche grazie a una seria applicazione al disegno, alla nuova cultura prospettica di stampo rinascimentale, con citazioni di elementi classici ed archeologici; mentre Giovanni, che avrebbe straordinariamente fuso, con soavità, il meccanismo matematico-geometrico del Rinascimento centro-italico con la verità morbida della natura, sarebbe uscito come colui in grado di fondere il meglio della cultura figurativa di derivazione classica con le ricerche “atmosferiche” e naturali svolte dalla pittura fiamminga.
Il matrimonio con Niccolosia Bellini, avvenuto nel 1453, sembra segnare, in Andrea, anche una precisa scelta di campo sotto il profilo dell’orientamento pittorico, fino allo sviluppo straordinario della sua prima maturità, nel corso del periodo iniziale del lungo soggiorno a Mantova.
Mantegna ammorbidisce. Inserisce progressivamente paesaggi. Il vento e il sangue rianimano le sue magnifiche statue.
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[PDF] Mantegna, cuore di marmo



STILE ARTE 2006