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Il secolo di Manzù


di Luigi Marsiglia

mazustudioconcarroBergamo 1908, data e luogo di nascita anagrafica di Manzù, al secolo Giacomo Manzoni: una troncatura accentata del nome per creare un alone sia vernacolare che esotico, un espediente degno dell’inventiva linguistica di Gadda o di Carlo Dossi. Perché in questo pseudonimo parziale che riecheggia il reale, persiste tenace e programmatica la volontà distintiva di essere unico, il solo Manzù, di professione scultore. Unicità riversata anche nelle opere, riconoscibili attraverso la resa istantanea, il tocco repentino capace di generare figure luminose, dalle linee spigolose arrotondate e dai volti intensi. Poiché, come sostiene Adorno: “L’arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità”. Ed è in questo universo magico che si muovono, senza ambiguità né titubanze di sorta, i ritratti e le creature evocate in più di ottant’anni da Manzù – l’artista si è infatti spento ad Ardea, Roma, nel 1991.
Ma procediamo con ordine. Bergamo, primi decenni del Novecento. Giacomo Manzù, poco più che adolescente, abbandona definitivamente la scuola (l’ha frequentata, con una certa regolarità, fino alla seconda elementare) ed è attivo nelle botteghe degli artigiani locali, soprattutto carpentieri e intagliatori, dove impara a lavorare la pietra, la creta, il legno. Solo più tardi conseguirà il diploma in plastica decorativa all’istituto Fantoni. Le mani sono gli strumenti del mestiere che il giovane autodidatta adopera con la precisione e la rapidità spettacolare di un maestro, saggiando e “manipolando” la materia grezza che, ammansita, si trasforma sotto quello sguardo attento. Il servizio militare, a diciannove anni, lo conduce a Verona: qui segue di tanto in tanto le lezioni all’Accademia Cignaroli e si sofferma per ore a osservare le porte di San Zeno. Nel 1929 il breve soggiorno a Parigi, poi l’arrivo a Milano, dove l’architetto Muzio gli affida – nei primi anni ’30 – la decorazione della cappella dell’Università Cattolica.
E’ in questo periodo meneghino che avviene la seconda folgorazione, che possiede una ragione, un termine attributivo ben preciso: le cere di Medardo Rosso, l’artista di origine torinese scomparso a Milano nel 1928. Un “legame” umano e uno studio sensibile della luce degli impressionisti che condurrà Manzù di nuovo a Parigi e a una svolta concreta nella propria concezione artistica, superando di fatto quel primitivismo scevro di fronzoli e sovrastrutture delle opere giovanili. Una ricerca focalizzata sulla “verità”, con una risoluta morbidezza delle linee e una consistente presa raffigurativa sul reale, come nel David accovacciato eseguito alla fine degli anni ’30 e ripreso – un trentennio più tardi – nel Fauno.
E’ con vorace accanimento che Manzù studia la scultura lombarda romanica e gotica, Donatello e l’arcaismo etrusco, per concentrarsi in Francia intorno all’opera di Maillol e di Degas o al periodo blu di Picasso. A Milano stringe amicizia con Persico, Birolli, Sassu e il gruppo di Corrente; ed è qui che, durante il secondo conflitto mondiale, matura il proprio impegno civile contro la barbarie nazista, impegno confluito nel Monumento al Partigiano inaugurato a Bergamo nel 1977. Scrive Cesare Brandi: “La Crocifissione di Bergamo [il cui autore è Renato Guttuso] destò scandalo e fu, con le Crocifissioni di Manzù, la prima miccia degli artisti italiani contro il fascismo”.
Sui bassorilievi del ciclo Cristo nella nostra umanità, ideati durante il flagello delle incursioni aeree, compaiono scheletri crocifissi e cardinali denudati: un Golgota poco cristologico e molto pacifista.
Alla XXIV Biennale di Venezia del ’48
– nell’immediato dopoguerra, dunque – viene conferito a Giacomo Manzù il primo premio per la scultura, ex aequo con Henry Moore. Per dodici anni, dal ’52 al ’64, sarà occupato nella travagliata realizzazione della porta di San Pietro che, per volontà di Giovanni XXIII – papa Roncalli, anch’egli bergamasco -, sarà impostata sulla tematica della morte. Pontefice e scultore si intrattengono in colloqui privati, cordiali e interlocutori.
Insieme a forme opime che inneggiano alla persistenza della vita, all’élan vital racchiuso in composizioni come la Carrozza con Giulia e Mileto esposta al Centro Materima, convive nella produzione di Manzù il tema più sottile ed esistenzialmente più invasivo della spiritualità e della fine della vita stessa. Dalla drammatica preghiera di Giovanni XXIII ripresa nella formella per la porta di San Pietro, all’immobilità ieratica e immanente, piramidale e misteriosamente astratta del ciclo dei Cardinali. Da una parte un’ambientazione con scene familiari e floride fanciulle, simbolo di un’innocente pace donatrice di vita, dall’altra la sacralità livellatrice della morte che incapsula tra le proprie spire sacro e profano, l’uomo e il papa, Angelo Roncalli e Giovanni XXIII.
Dal ’55 al ’58 esegue il portale per la cattedrale di Salisburgo, incentrato sul tema dell’amore; dieci anni dopo – nel 1968 – la porta del duomo di Rotterdam dedicata alla pace e alla guerra. Così Paolo Ricci, dalle colonne di Rinascita, chiosa la sala personale dedicata allo scultore nella Biennale del 1956, che vede l’arte russa, o meglio sovietica, tornare in laguna: Manzù è “un artista nel pieno vigore della sua forza. […] Senza dubbio uno dei più grandi scultori viventi e la forza del suo stile, la sua visione del reale, si sono in questi ultimi anni maturati al punto di divenire esemplari e inconfondibili”.
Il 15 ottobre 1964 il maestro si ritira nella casa-studio di Ardea, dove nel 1969 inaugura il suo museo situato alle pendici della rocca. Nell’89 viene collocato dinanzi al Palazzo dell’Onu di New York il bronzo alto sei metri Madre con bambino. Il secolo di Manzù sarà celebrato – a cura della moglie Inge e della famiglia, del Centro Materima e dello Studio Copernico di Nicola Loi – con una mostra antologica che ne tratteggerà le tappe essenziali, biografiche e artistiche. Un secolo che ha visto la sua opera assumere i connotati di un’intera epoca, eroica e interrogativa rispetto al vissuto quotidiano e al bisogno umano di “sperare”.