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Immagini di grandi Madri mitiche dal gigantesco lato B


Una ulteriore, proficua  collaborazione tra le due Soprintendenze dell’Abruzzo, quella Archeologica e quella dei Beni Storici Artistici  ed Etnoantropologici,  ha reso possibile rendere omaggio al ruolo della donna come madre, attraverso un suggestivo percorso  tra antichi reperti archeologici e importanti  opere d’arte del patrimonio abruzzese. Nel ventre dell’Abruzzo dormono, immensi tesori e  periodicamente,  grazie al certosino lavoro di scavo o a ritrovamenti occasionali,  riaffiorano  testimonianze dormienti da secoli o anche da millenni.

Raccontano sempre nuove storie di uomini e soprattutto di donne, documentando l’altissimo livello di civiltà raggiunto dalle gens italiche abilissime  nel  produrre utensili d’ogni genere e raffinati monili. Ma ciò che più conta, questi reperti attestano culture ben organizzate, non a caso in grado di raggiungere  un’aspettativa di vita particolarmente elevata la quale sarà ridimensionata al tempo della dominazione romana.
In età preistorica la rappresentazione è affidata a immagini a volte di difficile interpretazione, ma con tratti che rimandano agli elementi essenziali della donna e del suo ruolo di madre, dispensatrice della vita; i tratti antropomorfi dell’eccezionale ciottolo dipinto in ocra rossa da Ortucchio (Aq), datato al Paleolitico superiore (13.000-11.000 anni fa), suggeriscono un richiamo alle “Veneri” preistoriche.
Un’altra tappa del percorso è rappresentata dall’idoletto neolitico, proveniente dall’insediamento preistorico di San Callisto a Popoli (Pe): la figura, dai glutei fortemente accentuati, come in numerose altre raqppresentazioni dell’epoca, indica una centralità dell’immagine femminile nello scenario religioso dell’epoca, tanto da potervi riconoscere una Grande Madre o Dea Madre “simbolo archetipico della fertilità e del carattere elementare, soccorrevole, protettivo, nutriente”.
Prerogative che riemergono anche in età classica nelle tre statue rinvenute nel 2003 a Luco dei Marsi (Aq), nel santuario dedicato alla dea Angizia. La dea in terracotta, seduta su un trono, nella sua armonica compiutezza è un  modello iconografico che racchiude una ricca esperienza  ripresa e sviluppata poi  a distanza di secoli. La statua presenta una particolare cura nella resa di alcuni dettagli: le pieghe e la trasparenza delle vesti modellate nell’argilla e la sinuosità del morbido cuscino, sul quale siede la dea, hanno un effetto di grande suggestione.
Associata alla dea, nella quale è possibile riconoscere una divinità matronale legata ai cicli vitali, due statue in marmo di Demetra/Cerere e Venere/Afrodite, di bottega rodia del II sec. a.C., rimandano al tema della fertilità e dell’amore, qui tradotto nelle forme di pregevoli manufatti.

Venere di Willendorf, XXII millennio a.C.
Venere di Willendorf, XXII millennio a.C.



Al tema della vita rimanda anche la statuetta in terracotta della kourotrophos, rinvenuta nel santuario di Ocriticum (Cansano, Aq); databile nell’ambito al IV sec. a.C.: una delle più antiche testimonianze in Abruzzo della rappresentazione della madre-nutrice, la donna che assicura con la propria esistenza la speranza della crescita, oltre il nostro tempo.
Ancora nel Medioevo è la Madre Terra,   felicemente irrigata dai percorsi fluviali, a rappresentare la principale sorgente di vita in questa regione impervia, di montagne, di valli e di orridi, dove è la donna il porto sicuro, il  punto fermo di una umanità  in perenne cammino con l’alternanza delle lunghe,  silenziose e operose tappe  di pellegrini, uomini d’arme, mercanti e pastori. Che la donna sia il fulcro di questo peregrinare lo dichiarano  innanzitutto i culti, ma anche  le tradizioni e i saperi che si svilupparono nell’ambito della cultura agro-pastorale,  all’interno di una società matriarcale che contribuì con la forza dei fornelli e dei telai a preservare   un rapporto sano ed equilibrato con la Natura, governato dal fluire armonioso delle stagioni. E’ un’operosità diffusa, senza sprechi, che mira a far tesoro di tutte le risorse,  raccolte e ottimizzate per superare gli inevitabili disagi provocati soprattutto dal rigido clima invernale, dalle  catastrofi naturali, dalle pandemie periodiche.
La consapevolezza dei valori sottintesi dalle testimonianze archeologiche e storico artistiche  ha ispirato il progetto di questa piccola mostra costituita da poche ma assai rilevanti opere d’arte, indicative di un lungo, interminabile percorso che va dalla Preistoria al Rinascimento senza soluzione di continuità.
Nel manifesto della mostra sono state accostate due opere emblematiche: la straordinaria terracotta ritrovata nel santuario della dea Angizia,  nume tutelare del Fucino, e la Sant’Anna Metterza,  connessa in prestito dall’arcidiocesi di Chieti-Vasto, madre di tutte le madri non solo della Majella. La prima non è soltanto una eccelsa testimonianza dell’arte fittile, che in Abruzzo si è sviluppata in epoche remote ed ha avuto un nuovo mirabile picco con la produzione statuaria d’età rinascimentale, è soprattutto  un tributo ad una ‘presenza’ del territorio marsicano densa di risvolti simbolici e magici ancora tutti da sviscerare, per dissipare non pochi luoghi comuni e azzardate interpretazioni.
Di questa  ‘presenza’  c’è un riflesso anche nell’immaginifico Gabriele d’Annunzio, che  non a caso chiama  Angizia  la protagonista de La fiaccola sotto il moggio, ovvero la figlia di un serpaio di Luco la quale “portava il nome della montagna amara”  e per amore e interesse uccide con il veleno la moglie del proprio padrone.
Ma il grande poeta ci consegna anche alcune poetiche descrizioni  della  Magna Mater nelle Laudi, in Elettra, rivelando ancora una volta una grande capacità di comunicare l’essenza più intima della sua  terra amatissima.