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Impegno e contemplazione


di Roberto Gramiccia

Non capita tutti i giorni di sfogliare un catalogo, vedere uno o due quadri che ti piacciono da morire ed essere presi dalla voglia invincibile di conoscerne l’autore. Capitò a me – ormai sono vent’anni – alla Feltrinelli di via del Babuino. E la telefonata la feci veramente, qualche tempo dopo, a quell’artista.
Si trattava di Aurelio Bulzatti (Argenta, 1954), e fu come parlare con uno che conosci da anni, perché, fra me e lui, si interpose una cosa che rendeva tutto più facile e naturale: l’amore per la pittura.
La pittura è una specie di esperanto dello spirito. Nasce dall’esperienza del soffrire. Persino quella di Matisse che sembra un inno alla vita, figuriamoci le altre. Il patimento a volte è consapevole, a volte meno. Ma c’è sempre. Perché non esiste un uomo che non soffra. Le ragioni esterne di questa paitheia in fondo sono poche: l’arroganza dei singoli, dei gruppi e delle classi che sfruttano gli uomini e distruggono la natura, collezionano vittime e disciplinano selvaggiamente l’arbitrio. Ma quand’anche uno, per fortuna per nascita o per censo, non fosse toccato da questa cosmica ingiustizia, soffrirebbe lo stesso per ragioni interiori. Tanto più quanto più fosse sensibile e la sua coscienza ammaestrata alla dura intelligenza dell’esistere.
Questa sofferenza è figlia della paura del dolore e della morte, non c’è dubbio. Ma, più di ogni altra cosa, è figlia del contrasto insanabile che esiste fra la naturale aspirazione a pensare in grande, a fare grandi progetti e la inevitabile consapevolezza della pesantezza granitica del limite.
La pittura è lo strumento che, in elezione, serve ad esorcizzare (mettere fra parentesi) la paura della morte (della fine). Perciò la si pratica fin dalle grotte di Altamira, fin dall’inizio dei tempi. Da allora essa ha svolto principalmente questo ruolo: regalare l’idea dell’immortalità. Vera come nel caso di Giotto e di Tiziano, o almeno presunta come nel caso degli innumerevoli artisti dimenticati e dello stuolo immenso degli artigiani di talento.
Nel corso dei secoli, questa natura originaria ha vestito i panni della sovrastruttura, si è piegata cioè in parte alle esigenze del senso comune e della necessità che il potere ha sempre avuto di veicolare i suoi messaggi (basti pensare al rapporto fra Barocco e Controriforma). Gli stili e gli ismi si sono venuti moltiplicando, diversificando i linguaggi e spegnendo (negli ultimi decenni) i mestieri. In alcuni casi, però, il carattere archetipico della pittura si è conservato. Come accade per i fossili o i piccoli esseri viventi che rimangono intrappolati in pietre millenarie.
E’ successo anche per la pittura di Aurelio Bulzatti. Ed è per ciò che a chi la ri-conosce
– come accadde a me vent’anni fa – sembra di essere colpito da una folgorazione.
Ri-conoscere la pittura significa catturarne l’essenza. Quest’essenza, per chi è pratico di essa, è immutabile. Non può cambiare e non cambia. Divenendo, rimane se stessa. Sempre. Ecco, l’arte di Bulzatti proprio in ciò è rara e originale, perché rende quest’evidenza chiara e indiscutibile: gli uomini cambiano, la pittura no. Sarà per la semplificazione classicheggiante dei profili delle sue figure, dei suoi oggetti e dei paesaggi interni ed esterni, più spesso hopperiane periferie metropolitane; sarà per l’uso calmo e misurato di alcune chiavi fondamentali di accesso alla pittura (il rapporto spazio-luce, colore-materia-forma) che ne fanno un allievo insieme originale e fedele dei maestri (Antonello, Piero della Francesca, Tiziano, Vermeer, De Chirico, i Tonalisti romani degli anni ’30, Scipione e Mafai); sarà per quel tepore diffuso che sembra affiorare dalla superficie pellicolare dei suoi quadri, simile ad epidermide viva; sarà per l’aria mesta e ieratica, come quella di un martire cristiano o di un eroe della Resistenza, delle sue figure; sarà per l’impianto semplificato degli ambienti che sembrano “scatole per uomini” entro le quali il gioco immutabile della vita si svolge; sarà, ancora, per quella voglia di contemplazione orientale che imbriglia l’ansia di fare e la velocità nevrotica dell’Occidente; sarà per questo o per altri motivi che mi sfuggono, ma Aurelio Bulzatti era e rimane un artista a cui telefonare per complimentarsi.
La collaborazione intrattenuta, sin dagli anni Ottanta, insieme a Di Stasio, Gandolfi, Ligas, Piruca e Frongia con la Tartaruga, l’ultima Tartaruga diretta da Plinio De Martiis, fu un’occasione importante sfruttata senza mettere a repentaglio il profilo di un’identità tutta personale, di un’indipendenza linguistica e formale. Ci saranno la Biennale dell’84, la Quadriennale dell’86, le mostre da Netta Vespignani, di nuovo la Quadriennale del ’96 e tante altre occasioni espositive. Ricordo ancora Gli idoli alla galleria A.A.M. di Roma nel 2003 e la personale ricapitolativa alla Galleria comunale d’Arte contemporanea di Ciampino.
Ma ciò che continua a sorprendere nel lavoro di Bulzatti è la persistenza di una ricerca della qualità vissuta all’interno di una pratica che nel tempo non muta strumenti e obiettivi. Questo cocciuto impegno non impedisce ad Aurelio di aprirsi, tuttavia, alle istanze e alle sollecitazioni di un tempo nuovo e confuso, disordinato e inquieto.
Bulzatti, che ha gli occhi spalancati sul mondo, non è solo figlio dei maestri ma anche del suo tempo; dall’amore per la statuaria classica, passa oggi a tematiche che riflettono l’attualità della cultura interetnica, della contaminazione, della fuga dalla fame che coinvolge milioni di esseri viventi. E allora i protagonisti dei suoi quadri non sono più amanti che si osservano per rifornire il proprio desiderio, ma poveri cristi vestiti nelle fogge della propria cultura e della propria religione che attraversano le strade del villaggio globale.
E invece dei vasi di Morandi, un nuovo contenitore cattura l’attenzione del pittore ferrarese. E’ il cassonetto urbano, verde e stracolmo di rifiuti e a volte di oggetti che mantengono una loro funzione e un loro superstite valore. La zingarella che, tenendo per mano la figlia, esplora questi nuovi, miseri vasi di Pandora diventa l’ultima protagonista dell’arte di Aurelio Bulzatti.
La disinvoltura con cui questo autore passa da temi aulici e della tradizione pittorica più consolidata ad argomenti attualissimi è un segno di maturità. Essere “classici” non significa infatti essere stanchi ripetitori di vecchie solfe. Ma accordare i principi alle novità, e le novità ai principi.