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Gabriele D'Annunzio pittore – Un dilettante che non riuscì a crescere


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di Costanzo Gatta

Nel 1880, con sessantatré lire, si compravano un sacco di cose. Un giornale costava cinque centesimi, il fornaio ne chiedeva cinquanta per il pane bianco e trentacinque per quello nero. Scatole di cipria, flaconi diversi – dall’elisir alla lozione -, confezioni di pomate e unguenti oscillavano fra una lira e una lira e cinquanta.
Quelle sessantatré lire – pari alla paga di due mesi di lavoro, da quattordici ore al giorno, di un operaio – furono spese da Gabriele d’Annunzio, alunno del Cicognini di Prato, fra ottobre a giugno dell’anno scolastico ’80-’81, per pastelli, tavolozza, tele, cartoni e fogli da disegno.

Poiché a diciassette anni non era certamente lo sprecone che si rivelò nel tempo (sul frontespizio del Liber dispendii del Vittoriale, dove viveva come un principe rinascimentale, scrisse Crepi l’avarizia), questo conto salato lascia intendere che la pittura doveva piacergli. Si potrebbe anzi ipotizzare che il giovane pescarese, mentre si stava affacciando come artiere della parola, abbia cercato di manifestarsi proprio come pittore. Agli intensi versi di Primo vere corrisposero, in pittura, colori forti, scene che evocavano l’amarissimo Adriatico: marinai sulla banchina, spiagge, paranze, reti, scogli, pescatori. Purtroppo il D’Annunzio pittore, impacciato nel segno, incerto nella prospettiva e nelle profondità, non superò il livello di un onesto dilettante. Fu uno zero, a paragone del poeta, del romanziere e del trageda. Così come mostrò scarso talento davanti al cavalletto, scricchiolò come critico d’arte, bastando ai direttori dei giornali di allora l’effervescenza della scrittura e l’agilità nel saltare dal pezzo di colore alla cronaca mondana, dall’evento musicale alla mostra. Lapidario il giudizio di Berenson su di lui: “Gli mancava qualunque senso di qualità per le arti visive”. Al D’Annunzio con il pennello Stile dedicò, anni fa, articoli. Mostrò un quadretto ad olio, formato cartolina, conservato in una collezione privata. Quindi la foto, in bianco e nero, d’un paesaggio collinare dipinto per la fiorentina Giselda Zucconi, giovanile fiamma (l’originale finì in Arno durante l’alluvione del 1966). Poi disegni e schizzi: come quello dell’eremo di San Vito Chetino, dove si conclude il Trionfo della morte, realizzato per illustrare il progetto a un editore. Ed ancora, gli scarabocchi-promemoria per l’architetto Maroni, magister de vivis lapidibus del Vittoriale, oppure per Napoleone Martinuzzi, artista di Murano. Al primo suggerì dove murare pietre sulla facciata della casa e appendere tele nei salotti; al secondo diede idee per ornare le tavole con vitrei cestini di frutta.


Lo spunto per tornare a parlare del D’Annunzio con colori e pastelli in mano, l’offre Enrico Di Carlo, giornalista, ricercatore e bibliotecario all’università di Teramo, esegeta del volume D’Annunzio e Filippo De Titta – Carteggio (1880-1922) ed altri documenti dannunziani, edito da Rocco Carabba e ricco di interessanti rivelazioni sull’adolescenza del poeta.
“Ogni anno che tornava alle vacanze – informa De Titta -, Gabriele soleva riportare dal collegio una cassa piena di libri, manoscritti e stampe”. Che fine fecero? Lui, orgoglioso, spiega: “Sopra un tavolino erano ammucchiati i disegni a pastello eseguiti da lui in collegio e i suoi dipinti a olio. Forse quei disegni e quelle pitture sono andati tutti perduti, eccetto pochi che mi donava e che io ho conservato”.
Eccoli, i cimeli: “1° Burrasca – pastello; 2° Marinaio sulla spiaggia – pastello; 3° Testa di prete – pastello; 4° Chiaro di luna – dipinto a olio; 5° Ritorno dalla pesca, mare e barche – dipinto a olio”. E dopo l’elenco, il commento: “In un disegno, Burrasca, c’è una torre tetra, un mare orrendo, nuvole di carbonella ed una povera fanciulla imbacuccata su le macerie; un altro rappresenta una spiaggia invernale; un marinaio chiuso nel pastrano fuma la pipetta presso le vele sparse al sole e il barile della catrame sotto la enorme lanterna; un terzo disegno è una testa di prete”.
De Titta era orfano e trovò ospitalità in casa D’Annunzio nell’ottobre 1863, a dieci anni, quando il futuro poeta aveva sette mesi. Per questo gli volle bene e conservò come reliquia “due piccoli cartoni dipinti ad olio che mi donò perché adornassi la mia stanza”. L’affetto e la riconoscenza lo portarono, tuttavia, ad esaltare il modesto pittore in erba: “Il primo è il chiaro di luna nel castello diruto, la famosa prova del fuoco di tutti i pittori: una falce di luna gialla, tra nuvole pastose, e un vecchio castello nelle tenebre; l’altro è una splendida distesa di mare azzurro con cinque barche pescherecce dalle variopinte vele latine”.
E che fosse proprio in erba lo apprendiamo dalle date segnate sulle opere. Testa di prete è del 18 aprile 1878. Del giorno successivo è il Marinaio sulla spiaggia. Ambedue i pezzi sono conservati nel Museo d’arte di Chieti intitolato a Costantino Barbella. “Disegni a matita, non pastelli” chiarisce gentilmente il direttore, Bianca De Luca, aggiungendo che sono catalogati come Vecchio con berretto e Uomo con pipa. Disegni semplici, quasi fotografici.
Di maniera è il Marinaio elogiato da Ermindo Campana: “Per la mancanza di correzioni, per la ricerca delle ombre e per la sicurezza dell’impianto rivela una mano già resa agile e scaltra dall’esperienza”. Campana, professore e giornalista, autore di saggi e poesie dialettali, aveva un occhio di riguardo per il giovane Gabriele. E lo conosceva bene, tanto che ci offre notizia di un altro disegno del 10 aprile 1878, intitolato Abitanti di Betlem (due contadini turchi), sconosciuto a tutti.
I quadretti non mostrano sorprese. Burrasca è un pastello su carta giallastra eseguito il 17 aprile 1878. La ragazzina al centro della tempesta è rigida come un baccalà e fissa come un manichino in vetrina. Chiaro di luna e Ritorno dalla pesca sono invece del 1880 e non rivelano che l’autodidatta abbia fatto passi avanti. Una sorpresa è invece la firma di fantasia, grossolana, rozza, tipica di chi non sa scrivere con il pennello: Floro. Sul verso del cartone usato per Ritorno dalla pesca troviamo poi, vicino a Floro – lo pseudonimo utilizzato per firmare la sua prima raccolta, Primo Vere, un Bruzio. Forse per intendere abruzzese? Il libro curato da Di Carlo ci fa sapere infine che fu Raffaele Tiboni a smorzare ogni entusiasmo per l’apprendista artista: “Il poeta non andò mai oltre un elementare dilettantismo”.

In ultimo chiedo scusa a D’Annunzio. Non voleva venissero recuperate sue opere giovanili. Non voleva vedere “ristampati aridi esercizi scolastici, prosette ingenue della puerizia e dell’adolescenza, esperimenti di studioso, rifacimenti rapidi, facili zibaldoni, capricci improvvisi, cronache frivole destinate a vivere un giorno o un’ora”.
Forse la pensava così anche per i quadri che lo avevano tentato prima della maggiore età.