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Tonino Guerra – La poesia dipinta dello sceneggiatore-pittore. L'intervista


Nel 2008 il critico Enrico Giustacchini incontrò Tonino Guerra nella sua casa di Pennabilli. Ne nacque questa deliziosa conversazione, che riproponiamo. “La mia pittura – ci disse – nasce dalle parole, nasce dalla favola”. La lezione di Moroni e di Vespignani e la profonda influenza di arte e cultura della Russia, “seconda patria” del maestro romagnolo

di Enrico Giustacchini

xultimissimatonino[“A]h, il mio amico Antonioni… Penso spesso ai suoi ultimi anni di grande difficoltà, quando ci vedeva poco. Michelangelo aveva un amore profondo per i colori, e di conseguenza soffriva davvero molto per questa situazione”.
Nel suo studio, nella sua casa – la “Casa dei mandorli” – di Pennabilli, che domina il borgo dall’alto di un poggio nel rosa dolcissimo dei muri, Tonino Guerra sta parlando con me di colori, sta parlando con me di pittura. Lo studio è immerso nei libri e nei disegni: libri ovunque, e ovunque disegni, che il maestro è intento a scegliere e valutare con attenzione. Alla parete, accanto a una fotografia che lo mostra insieme a Federico Fellini, ve n’è una in cui Guerra si accompagna proprio ad Antonioni.
“Lei mi chiede qual è il mio rapporto con il colore. Quando dipingo, io non amo l’eccesso dei contrasti cromatici. Non amo, per così dire, il minestrone. Ciò non significa che non provi un godimento guardando i colori. Guardando, ad esempio, ciò che sa ottenere da essi un altro geniale amico mio, Ottavio Missoni. E capisco la sofferenza di Michelangelo, a cui tale godimento era negato”.
Quand’è che Tonino Guerra si scopre pittore? “Avrò avuto dodici-tredici anni. Facevo piccoli acquerelli, vedute del mio paese, Santarcangelo, la carrozzella che portava la gente alla stazione. Vicino a me abitava Federico Moroni, che poi sarebbe diventato un celebre artista, il protagonista di quella meravigliosa esperienza che fu la ‘Scuola del Bornaccino’. Moroni mi ha insegnato molte cose. Mi ha insegnato a guardare la natura in modo ‘orientale’. Ad ascoltare la pioggia che batteva sulle foglie del fico nell’orto che confinava con casa mia. Federico mi mostrava le impronte delle zampe delle galline sulla neve e mi diceva: ‘Vedi, è tutto scritto in giapponese’. Ma io continuavo a dipingere brutte opere”.
Finché – Tonino sta frequentando l’università – succede qualcosa…
“Succede una cosa abbastanza magica. Fabio Cusin, professore di storia e studioso di valore, mi chiama e mi fa una strana proposta. ‘Sto scrivendo un libro su Trieste, la mia città, e voglio che sia tu ad illustrarlo’. Accetto, e mi invento delle immagini usando solo la penna, ispirato in ciò da Renzo Vespignani, un grande maestro e una grande persona. Il libro uscì: pessima carta, pessima stampa. Un disastro. Me ne dimenticai presto”.
Anche perché cominciava la lunga stagione romana: il cinema, le sceneggiature di tanti capolavori dei maggiori registi, che hanno reso Tonino Guerra famoso in tutto il mondo.
“Sì, in effetti pensavo solo alle sceneggiature. Benché i primi dieci anni abbia fatto la fame (cosa che aumenta poi la bontà del mangiare, non appena ti siedi a tavola). Quando, trent’anni dopo, sono ritornato in Romagna, chissà come mai mi sono riaffiorati alla mente i disegni del professore. Ho incontrato la moglie, e le ho chiesto: ‘Quei disegni ci sono ancora?’. ‘Sì’, mi ha riposto; e me li ha regalati. Gli originali, intendo.
Pochi giorni dopo, mi ha telefonato il poeta-editore siciliano Angelo Scandurra: ‘Vorrei pubblicare qualcosa di suo’. ‘Ho solo dei vecchi disegni. Non ci spenda soldi…’. Ma Scandurra insisteva: ‘No, lo voglio fare’. E mantenne la parola: quando il volume (L’impiccagione dei pesci grossi, Il Girasole, ndr) uscì, io credevo si trattasse di un libricino, invece era uno dei libri più belli che abbia mai visto. Così mi è tornato il desiderio di disegnare.
E qui subentra il mio mondo russo”.
Già, il mondo russo di Tonino Guerra. Lo studio, le altre stanze della casa, traboccano di gaudiose reliquie della Grande madre d’Oriente. Tappeti, cuscini, arazzi, suppellettili, balocchi. Un firmamento di emozioni, di echi remoti e tuttavia prodigiosamente vicini, lievi e distinti insieme. Nel 1975 Tonino incontra Lora, la donna russa che diventerà sua moglie nel 1977. Da allora si è recato spesso in quella terra straordinaria.
“Fin dalle prime volte, mi piaceva partecipare agli incontri con i conoscenti di Lora. Non parlavo il russo, ma era bello ascoltare quelle voci, il suono di quella lingua: ascoltavo in silenzio, accontentandomi della traduzione che ogni tanto mi veniva fatta. Talora mi mettevo a un tavolino fuori dalla porta-finestra della casa e aspettavo che gli uccelli giungessero a mangiare le briciole sulla neve. Intanto disegnavo, usando dei pastelli giapponesi. Poi regalavo quei disegni ai miei nuovi amici, che li apprezzavano moltissimo: e ricambiavo così la loro cortesia, la loro ospitalità squisita.
Piano piano, dai pastelli sono passato alla tempera e agli acrilici; quindi mi sono cimentato con l’affresco. Ho trovato il modo di rendere piacevole la vecchiaia creando questi momenti di favola”.
Tonino Guerra evoca le favole, e le favole all’improvviso prendono ad aleggiare intorno. Tra gli alfabeti policromi dei tappeti, nelle pupille del gatto che si è intrufolato – un po’ sospettoso, senza far rumore – dentro la stanza, nell’incanto dei mandorli in fiore che bussano ai vetri della casa a loro dedicata.
“Parliamoci chiaro: io non sono un pittore. Il pittore deve avere delle ‘invenzioni’ forti. Io ho l’impressione di realizzare qualcosa che nasce dalle parole, dalla poesia. Dalla favola, ancora. La speranza è di offrire un poco di godimento a chi, perfino con entusiasmo, sceglie di appendere questi lavori ad una parete”.
Non me ne voglia, il mio ospite, se io
– come, del resto, tanti altri – credo che egli sia invece un pittore, un grande pittore. Proprio per la poesia che sta alle spalle del suo agire artistico, che lo accompagna amorevolmente, che lo illumina di guizzi di memoria, di epifanie inattese, di frammenti di cose e genti e paesaggi, di sogni e suoni riemersi dalle lontananze del tempo o dello spazio, vissuti o soltanto fantasticati. Un critico autorevole quale Philippe Daverio ha scritto, di recente, che “i quadri di Tonino Guerra ci dicono che egli è uno sperimentatore dell’esistenza, sollecitato a trafugare la sua anima da un linguaggio all’altro. A nascondersi e a rivelarsi. Mai del tutto. Pazzo delle valenze semantiche che i suoi luoghi e le sue lingue hanno addensato. Un giocoliere dei significati”. E allora?
“Allora, mi sa che forse avete ragione voi. Può darsi che ci sia davvero nelle mie opere qualcosa che ha a che fare con la pittura. La critica mi incoraggia ad andare avanti: io ringrazio e ne seguirò il consiglio”.
Gli chiedo a che sta lavorando attualmente. “Proprio in questi giorni – risponde – cerco di creare oggetti per abbellire i luoghi dove arrivano i turisti, a cominciare dai ristoranti e dagli alberghi. Gli italiani sono tra i primi al mondo per bruttezza delle camere d’albergo. Nei ristoranti si mangia anche con gli occhi, e negli alberghi si riposa meglio se gli occhi hanno qualcosa che tiene loro compagnia. Vorrei preparare un catalogo che offra indicazioni ai sindaci, o ai presidenti delle province, perché capiscano.
Ho l’impressione che il nostro Paese stia correndo verso la miseria. Solo la bellezza può salvarci. Noi di bellezza ne abbiamo molta, pure nei centri più appartati. Gli uffici tecnici devono impedire che si costruiscano dentro un bosco case bianche che sembrano tante dentiere, devono impedire che si mettano tapparelle dove ci sono le persiane, che si abusi dell’alluminio nelle finestre. Vorrei che i sindaci entrassero a dare uno sguardo alle trattorie; vorrei che, nelle loro scelte, chiedessero aiuto a chi ha simpatia per l’arte. Vorrei che ogni ristorante potesse offrire la bellezza: non servono grandi capolavori, bastano piccole cose che facciano tenerezza agli occhi in attesa del pranzo”.


Instancabile, Tonino Guerra continua ad esplorare le mille possibilità dell’espressione. Non esistono gerarchie, in arte. Non vi sono arti “minori”, se il fine è sempre lo stesso: la ricerca della bellezza, appunto. Nel suggestivo museo – e dinamico centro di iniziative culturali – aperto a pochi passi dalla “Casa dei mandorli”, negli spazi del trecentesco oratorio di Santa Maria della Misericordia (info: 0541-928846, www.toninoguerra.org), si ammirano così, oltre ai dipinti, le sculture del maestro, gli arazzi, le ceramiche, i mobili, anzi i “mobilacci” (inimitabili per la singolarità della struttura, dell’assemblaggio e delle scelte cromatiche), i “barattoli”, contenitori in cui sono chiusi, per dirla con l’autore, “i peccati dei contadini, la loro gioia, le loro fatiche e la grazia di quella grande civiltà”, e che ora “possono regalarci soltanto la loro presenza, i suoni della campagna, le parole di un poeta”.
Il bello, ci insegna Tonino Guerra, si annida spesso dentro le cose più umili. Come un banalissimo fanale, ad esempio. “Durante uno dei miei periodi trascorsi in Russia – racconta -, visitai la stazioncina da cui era partito Tolstoj per il suo ultimo viaggio. Cercando tracce del passaggio dello scrittore, mi imbattei in un fanalino, di quelli che usavano al tempo i ferrovieri. Ne fui subito affascinato. Con l’aiuto di un fabbro ne ho fatti costruire diversi, di grandi dimensioni: li ho chiamati ‘i fanali di Tolstoj’.
Irina Antonova, direttore del Museo Pushkin, li ha visti e li ha voluti a Mosca per una mostra che ha riscosso un enorme successo. Poi me li ha chiesti Yuri Liubimov, il decano del teatro russo; e il presidente dell’Armenia, che per esporli nel suo Paese ha mandato apposta un aereo…”.
Ecco perché Tonino Guerra è un artista, un vero artista. Perché conosce la felicità della poesia, e lo splendore della forma e dell’essenza. Nel miracolo di un oggetto arcaico trasfigurato o nella malia di un cielo di cobalto campito sulla tela. (stile arte, 1 aprile 2008)