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Dario Fo pittore – Opere dipinte e una storica intervista sui suoi quadri


di Enrico Giustacchini

Dario Fo, premio Nobel per la letteratura. Dario Fo attore, regista e scenografo. Dario Fo pittore, anche. Una cinquantina le mostre di sue opere allestite nel tempo 
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Lei si è diplomato a Brera. In gioventù il suo sogno era di fare il pittore.
Dico sempre che mi sento attore dilettante e pittore professionista. Ancora oggi talvolta penso che la pittura sia il mio mezzo di espressione primario.
Un mezzo che evidentemente influisce anche sul suo teatro...
I miei lavori teatrali spesso nascono come immagini. Disegno prima di scrivere. Mi sono abituato piano piano ad immaginare le commedie, i monologhi in un contesto visivo, e solo in seguito in quello del recitato. Inoltre, disegnare ha per me una preziosa, decisiva funzione di stimolo creativo. Se mi capita di essere “smontato”, è proprio disegnando che mi vengono le idee.
Parliamo degli anni di Brera, e di quelli immediatamente successivi. Anni ruggenti (siamo nel primo dopoguerra), di grande intensità culturale ed umana, di frequentazioni illustri: dai professori, maestri della pittura italiana del Novecento (Carpi, Funi, Carrà), ai compagni di accademia, che maestri lo sarebbero presto diventati, come Morlotti, Peverelli, Piccoli, Alik Cavaliere.

dariofo4Sì, è proprio così. Achille Funi era un insegnante straordinario; Carrà era molto simpatico; Aldo Carpi, il direttore, una personalità di eccezionale apertura mentale, un intellettuale autenticamente libero. Mi capitava ogni tanto di assistere alle lezioni di Marino Marini; una volta, riuscii a farmi accettare nell’atelier di Manzù, ad impastare creta… Davvero, stavamo vivendo un momento irripetibile per la storia civile e culturale del nostro Paese. Non solo dentro le stanze dell’Accademia, ma anche fuori, nei bar e nelle trattorie di Brera, dove la sera ci si trovava a mangiare e a bere qualcosa, e soprattutto a discutere, a fare progetti… e pure a divertirci, questo è poco ma sicuro. Io ad esempio mi esibivo spesso – proprio al “Jamaica” – in imitazioni dei professori: così, eccomi nei panni di Carrà che, non riuscendo a dipingere un cane convincente, chiedeva alla moglie di fargli da modella per l’animale; o di De Chirico, che, preso dalla foga creativa, eseguiva a velocità supersonica innumerevoli varianti dello stesso tema, senza più capire, alla fine, quale tavola fosse l’originale e quali le copie; e così via. Talvolta i miei monologhi erano intervallati da Emilio Tadini, che cantava canzoni napoletane accompagnandosi con la chitarra.
Ci racconti della burla più riuscita da voi organizzata, quella del falso Picasso.
dario fo 3A Milano si era diffusa la notizia – infondata – dell’arrivo in città di Picasso, in occasione dell’inaugurazione di una mostra di suoi dipinti alla Galleria Manzoni. Noi – Morlotti, Piccoli, Cavaliere ed io – decidemmo che il maestro sarebbe arrivato davvero, ma… a modo nostro. Un bidello, assistente al calco dell’atelier di Marini, era un sosia quasi perfetto di Picasso; per giunta, parlava benissimo il francese. Si chiamava Otello. Riuscimmo a convincerlo a prestarsi alla burla. Spargemmo la voce che il grande artista era giunto a Milano, e che avrebbe incontrato la cittadinanza quella sera al salone dei Filodrammatici. E, quella sera, il salone era gremito di gente. La struttura era in restauro, e perciò ingombra di tralicci e centine di sostegno. Noi avevamo coinvolto nella messinscena un sacco di gente: giovani musicisti, attori e ballerine. In attesa dell’ospite d’onore, lì dentro succede di tutto: un finto operaio, appeso ad un traliccio, che sta per cadere e chiede aiuto; finti pompieri che si precipitano a soccorrerlo con una scala; finti imbianchini (c’ero anch’io, tra loro) che litigano lanciandosi addosso secchi di finta pittura; un finto vigile che entra a razzo in motocicletta tentando di mettere ordine; cavalli e draghi di cartapesta su ruote che da arredo scenografico si trasformano in proiettili scagliati verso gli spettatori… Finché, mentre l’orchestra suona una marcia trionfale ed esplodono petardi, ecco apparire Otello-Picasso, vestito di un trench bianco. Gli applausi sono fragorosi. Sta per iniziare il suo discorso in ottimo francese, quando all’improvviso una grossa canna dell’acqua si spezza ed un getto formidabile invade la sala, infradiciando tutti: ed è un fuggifuggi generale, tra qualche imprecazione e tante, tantissime risate.

Ancora sul rapporto teatro-pittura che contraddistingue, in un continuo gioco di rimandi, il suo itinerario creativo. E’ stato proprio Tadini – per lei, l’amico di tutta una vita – a scrivere lucidamente alla fine degli anni Novanta, nel saggio “Il corpo disegnato”: “Verrebbe quasi da chiedersi se Dario Fo sia arrivato al disegno per estendere, per tradurre il nobile linguaggio del proprio corpo, per dargli forma stabile, o se sia arrivato a mettere in scena il proprio corpo per realizzare quello che potremmo anche chiamare il ‘progetto’ esposto nei suoi disegni, nel suo modo di disegnare”.
Già, Tadini si chiedeva questo. Sa che le dico? Me lo chiedo sempre anch’io…
dario fo1Sempre Tadini: “Sulla scena, così come su un foglio disegnato, il corpo di Fo (il suo corpo, voglio dire, e, nello stesso tempo, il corpo che appartiene al suo mondo espressivo, il corpo che abita il suo mondo espressivo) vive rivolgendosi di continuo al mondo”. Potremmo osservare che nell’intero arco dell’attività artistica che lei ha svolto e sta svolgendo – sia nel teatro che nella pittura, dunque – traspare la volontà di esprimersi, non “chiamando a sé”, ma andando incontro agli altri. I suoi “corpi disegnati” (o dipinti), che ci appaiono quasi sciolti da un legame, ci parlano insomma – inesorabilmente – di libertà.
Il corpo è fatto per agire, per muoversi. E’ fatto per raccontare, con ognuna delle proprie parti. Volendo descrivere Francesco d’Assisi, un giullare che lo seguiva e ne era testimone dell’operato usò questa frase: “De tutto suo cuorpo fazea parole”. E’, credo, il più bell’elogio immaginabile per il Santo. E non poteva che giungere da un giullare: un giullare, com’era lui, Francesco (che fu detto “giullare di Dio”); e come sono io.
Le figure che lei disegna o dipinge esprimono certo leggerezza, ma non disgiunta da energia fisica, e spesso da una carica grottesca. E sono inserite in composizioni che rivelano una precisa, ancorché fantasiosa, organizzazione dello spazio. Torniamo nuovamente al discorso dell’influenza – persino ovvia, in questo caso – sul teatro.
dariofo 2Certo: ma parlerei di influenza in ambito scenico, e non soltanto scenografico. Perché il disegno, la pittura mi consentono di predefinire molto di più che le mere strutture ambientali, oppure le entrate e le uscite degli attori. Mi consentono un’idea preventiva e globale dell’opera drammaturgica, dove i dialoghi sono già “agiti”. Si potrebbe dire, semplicemente, che grazie a ciò io – regista oltre che autore – sono in grado di compiere già in questa prima fase buona parte del lavoro registico.
Oli, disegni, acquerelli, litografie, bozzetti di scena… La sua produzione artistica è copiosissima.
Sono oltre ventimila pezzi, raccolti grazie alla pazienza di Franca, che sta provvedendo ora alla loro catalogazione ed all’inserimento digitalizzato nell’archivio di un apposito sito internet (www.archivio.francarame.it). Attualmente le opere disponibili sul sito sono alcune migliaia, ma la volontà è quella di giungere quanto prima ad una catalogazione completa.
Può dirci qualcosa, per concludere, delle fonti di ispirazione di Dario Fo pittore? Quali sono i riferimenti principali?
I riferimenti? Tantissimi. Dall’arte greca classica alla Scuola ferrarese, dalla pittura primitiva a quella del Cinquecento e del Seicento italiano… Ma il mio campo d’indagine è stato ed è davvero assai vasto. In un certo periodo ho approfondito la tecnica del mosaico; in un altro ho affrontato l’iconografia di testi dell’XI e del XII secolo. Si tratta però solo di esempi: le fonti d’ispirazione, lo ripeto, sono molteplici.
dariofo aSovente si è fatto, a proposito delle ascendenze della sua pittura, il nome di Chagall.
Chagall è un artista che sento a me vicino in modo particolare. Ciò è indubbio. Ho anche realizzato, in passato, disegni e dipinti dichiaratamente ispirati a lui. Credo di avere in comune con Chagall – sia detto, beninteso, con tutto il rispetto e l’umiltà necessari di fronte a questo genio – molte cose, molti caratteri d’origine: il gusto del volo fantastico, del paradossale, del surreale, dell’impossibile.