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Le ruvide tele dei vagabondi, perché i pitocchi entrarono come icone nelle nobili case



Lo straordinario interesse suscitato tra Seicento e Settecento dalla pittura di genere – un’attenta esplorazione della realtà quotidiana, che si spingeva a sondare la vita dei più umili – è un fenomeno meritevole di grande attenzione:
E’ lecito chiedersi quale sia il motivo per il quale, a partire dai primi decenni del XVII secolo, come evoluzione della linea caravaggesca, che aveva portato sulle tele, con realismo violento, apostoli laceri, contadini dall’espressione dura, prostitute e sottoproletari a interpretare l’universo cencioso nel quale Cristo aveva agito – specchio che, ribaltato, rifletteva la povertà contemporanea -, i collezionisti abbiano cercato con sempre maggior trasporto scene dedicate al mondo degli ultimi.

La nascita del fenomeno ha più di una radice, ma il fittone è certo rappresentato dalle ricorrenti crisi economiche, dalle guerre, dai devastanti eventi epidemici, dalle carestie e da una crescente attenzione ai miseri, attraverso lo sviluppo, in ambito ecclesiale, di organizzazioni dedite alla solidarietà.

La vita di laceri, pidocchiosi, affamati malfattori, di vagabondi e imbonitori si depositò violentemente sulle tele, aprendo una nuova via nel campo dei soggetti considerati degni di rappresentazione. Tutto ciò entrò prima nella letteratura: e pensiamo al romanzo picaresco Lazarillo de Tormes, il testo anonimo spagnolo edito a Burgos nel 1554, storia del terribile apprendistato di un ragazzo di strada presso un pitocco avido e violento, o all’Ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha di Cervantes pubblicato in due tempi, tra il 1605 e il 1615, con le vicende ben note di un nobile spagnolo, ridotto a un vagabondaggio allucinato, alla ricerca di un mondo perduto, quello della cavalleria. Al fenomeno contribuì certamente la nascita e la diffusione straordinaria che ebbe la Commedia dell’arte, con i suoi personaggi caricati ed eccessivi.

 

Il romanzo picaresco,
Bertoldo e i manuali
dei vagabondi

L’attenzione nei confronti della povertà e del mondo furbesco che si generava come risposta all’indigenza fu ben rappresentata in Italia da Giulio Cesare Croce (San Giovanni in Persiceto 1550-Bologna 1609), scrittore, cantastorie, commediografo ed enigmista.

Figlio di fabbri e fabbro a sua volta, per fare il cantastorie aveva abbandonato la professione di famiglia. Con i suoi poveri contadini bislacchi e dotati di scaltrezza, raggiunse un enorme successo, girando per corti, fiere, mercati e case patrizie, accompagnando la declamazione con un violino. Riprese più volte temi popolari del passato, come la storia di Bertoldo – che aveva avuto varie versioni nel medioevo -, ambientando le vicende alla corte di re Alboino sia a Verona sia a Pavia.

 Antonio Cifrondi, Il ciabattino, 1720-30 circa, P. Tosio Martinengo. L’opera percorre, se pur tardivamente, il filone della pittura di genere legata ad una matrice letteraria. Da sottolineare l’espressione comico-grottesca del povero lavoratore
Antonio Cifrondi, Il ciabattino, 1720-30 circa, P. Tosio Martinengo.
L’opera percorre, se pur tardivamente, il filone della pittura di genere legata ad una matrice letteraria. Da sottolineare l’espressione comico-grottesca del povero lavoratore

Nella sua versione scritta più organica (Le sottilissime astutie di Bertoldo, 1606), lui veronesizzò la storia e portò a Roverè il paese di provenienza del protagonista. Al Bertoldo, lo stesso autore aggiunse un seguito Le piacevoli et ridicolose simplicità di Bertoldino, 1608 (che narrava del figlio di Bertoldo, alle prese con la madre Marcolfa). Successivamente (1620), l’abate Adriano Banchieri elaborò un ulteriore seguito, la Novella di Cacasenno, figliuolo del semplice Bertoldino. Da allora l’opera di Croce è spesso unita alla novella ed è pubblicata col titolo Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno.

Ma scorrendo il corpus letterario di Giulio Cesare Croce è possibile evidenziare un numero elevato di titoli dedicati al mondo della povertà e del vagabondaggio, da I Banchetti malcibati, che trae origine dalla terribile carestia del 1590, a Sbravate, razzate, arcibullate dell’arcibravo Smedolla, fino alla delineazione di un catalogo ricco di commedie e di libri che affrontano, con un registro grottesco, il tema della miseria morale e materiale, nonché dei raggiri ideati dal sottoproletariato dell’epoca per poter campare.

La letteratura, per quanto popolaresca, conferiva a quel tema una nobiltà di rappresentazione. Nel Seicento furono pubblicati persino diversi manuali che catalogavano le diverse forme di povertà e le attività truffaldine dei vagabondi. Una materia che aveva precedenti illustri, come lo Speculum Cerratonorum, scritto alla fine del Quattrocento da Teseo Pini: una sorta di manuale dei “falsi vagabondi” a cui attinse ampiamente la letteratura dei secoli successivi.

Il libro dei vagabondi è popolato da una umanità infinita di diseredati, pezzenti, storpiati, lebbrosi: quei poveri che la Chiesa vedeva come un monito e un inesauribile serbatoio di carità. Ma tra questi miserabili si annidavano anche gli astuti, i simulatori, che irridevano le leggi umane e quelle divine: avevano nomi fantasiosi (gli “affrati”, ovvero falsi frati, gli “attremanti”, che si fingono paralitici, i “falpatori”, “che fan toccare il falso per il vero”, e molti altri) e usavano gerghi “furbeschi” che solo loro comprendevano. Tra le evidenze della realtà quotidiana, i manuali e le elaborazioni letterarie, i pittori si accostarono alle icone dei pitocchi come a personaggi degni di rappresentazione. La loro azione si sviluppò in direzione della pittura di genere, nel confronto con i fiamminghi operanti a Roma, e dell’esplorazione pittorica della povertà dei filosofi compiuta da Jusepe de Ribera, che probabilmente soggiornò in Emilia e in Lombardia nel 1611. Frattanto, dalla Francia giungevano prima le suggestioni di Callot – determinanti furono le sue incisioni picaresche, nell’ambito della diffusione del genere – poi Le Nain. Antoine, Louis e Mathieu, nati nei primi anni del Seicento. Questi ultimi tre aprirono insieme un atelier a Parigi attorno al 1630 ed indagarono con particolare attenzione gli ultimi gradini della scala sociale, mentre le incisioni tratte dai loro soggetti presero a circolare per l’Europa.


Migliaia di stampe
che raffiguravano quel mondo
consumarono le lastre 

La matrice letteraria della pittura di genere – sia essa legata ai terribili romanzi picareschi spagnoli o alle opere più comiche dei narratori popolari italiani – è dimostrata dall’attività di Giuseppe Maria Crespi (1665-1747), autore di venti incisioni all’acquaforte, utilizzate per illustrare gli episodi della saga di Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno. Le tirature furono elevatissime al punto da logorare irreversibilmente le matrici di rame, sicché Ludovico Mattioli (1662-1747) venne chiamato, verso il 1730, a produrre nuove incisioni ispirate a quelle del maestro bolognese.

Ceruti, La lavandaia, P. Tosio Martinengo. Notiamo la notevole differenza tra la pittura di realtà del Pitocchetto, che rappresenta il mondo degli ultimi senza deformazioni picaresche o grottesche, e l’opera di Cifrondi, molto vicina a una matrice di teatro popolare.
Ceruti, La lavandaia,
P. Tosio Martinengo. Notiamo la notevole differenza tra la pittura di realtà del Pitocchetto, che rappresenta il mondo degli ultimi senza deformazioni picaresche o grottesche, e l’opera
di Cifrondi, molto vicina a una matrice di teatro popolare.

Nell’ambito della pittura di genere possiamo identificare due diversi filoni espressivi: il primo, che si rivela particolarmente collegato alla letteratura dell’epoca, e che si presenta come libera interpretazione delle azioni furbesche dei poveri e dei vagabondi, caratterizzati da un certa deformazione grottesca – e pensiamo, nell’area lombarda, all’azione svolta in questo ambito da Giacomo Francesco Cipper detto il Todeschini (Feldkirch, Austria 1664 – Milano 1736) e dal bergamasco Antonio Cifrondi (1656-1730) -; il secondo filone, con il quale si matura il concetto di pittura di realtà, rappresentato in modo eccelso dal milanese Giacomo Ceruti detto il Pitocchetto, che operò a lungo tra Brescia e Padova. Ceruti lesse le vicende dei poveri, evitando il registro letterario-grottesco, in direzione di un racconto che teneva conto delle nuove istanze caritative, assegnando pertanto ai soggetti una profonda dignità, come dimostrano, tra l’altro, gli straordinari dipinti conservati alla Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia.

Affrontato, in estrema sintesi, il percorso letterario e artistico della pittura di genere, dobbiamo ora chiederci quali fossero le reali condizioni delle masse nel Seicento. Milano costituì uno dei nuclei principali dai quali cui si diramò, nell’Italia settentrionale, tale modello pittorico, giacché in questa città, tra gli altri, giunse il Todeschini e si formò Ceruti. Entrata a far parte del dominio spagnolo dopo la morte senza eredi del duca Francesco II Sforza, avvenuta nel 1535, Milano aveva conosciuto un periodo di grande sviluppo economico, che si era tradotto in un maggior benessere per tutti i ceti. La devastante epidemia di peste, che colpì la città nel 1630 annientando metà della popolazione, la conseguente crisi economica senza precedenti e, infine, la discesa, da tempo temuta, delle truppe francesi, sconvolsero il Ducato provocando significativi rivolgimenti sociali.


La crisi economica:
migliaia di operai
licenziati alimentano
le fila dei pitocchi

Nel saggio La vita quotidiana a Milano in età spagnola (Longanesi), Romano Canosa conduce la sua ricerca a partire dal contesto socio-economico, analizzando la situazione propria di ciascun gruppo sociale.

Nel corso del XVII secolo, la nobiltà rafforzò la sua egemonia, riuscendo ad imporre restrizioni all’ingresso al suo interno dei mercanti, compresi quelli di oro, argento e seta, che costituivano l’aristocrazia produttiva della città, nonché il ceto che versava le tasse più alte. Un provvedimento emanato dal Collegio dei giureconsulti nel 1663 affermava: “Si devono ritenere nobili solamente coloro che derivano la propria origine da una famiglia antica e di antica nobiltà. Si intende antica la famiglia che abbia più di cento anni e che si sia astenuta dalla mercatura, dagli affari e da lucri sordidi di ogni genere, esercitati sia in proprio che per mezzo di intermediari. Sono ammessi soltanto quei guadagni – secondo la definizione di Cicerone nel secondo libro del De officis – attraverso i quali si forma un patrimonio familiare con attività che sono immuni da ogni immoralità”.

La normativa suscitò gravi ripercussioni sul sistema economico-sociale: la preclusione dalla possibilità di ammissione degli appaltatori di imposte aveva infatti provocato un “raffreddamento” nelle richieste d’appalto, causando ingenti danni all’erario. Ancora, non poche famiglie nobili, impossibilitate a dedicarsi al commercio per via del loro status, erano cadute in miseria. Allo stesso tempo nella città sembrava essersi estinto lo splendor mercaturae che, in passato, era stato alla base della sua ricchezza. I mercanti infatti, pur di consentire ai propri figli l’ammissione al Collegio, erano soliti abbandonare la propria attività non appena ne avevano la possibilità, cedendola a uomini inesperti e dalle dubbie capacità, di certo non in grado di garantire esiti commerciali soddisfacenti.

All’inizio del 1620, il manifestarsi di una crisi economica legata alla produzione tessile, che aveva causato il licenziamento di numerosi addetti, indusse le autorità statali a cercare possibili rimedi. Interpellati, i mercanti dichiararono che, nei limiti del possibile, si erano adoperati per venire in soccorso delle maestranze e delle persone indigenti, offrendo lavoro ed elargendo elemosine. Tuttavia, a causa delle difficoltà finanziarie, ogni commerciante era “in stato di dover per necessità di presente diminuir il negocio suo”: l’unica soluzione possibile era quella di vietare l’esportazione delle sete non lavorate e impedire l’importazione di drappi stranieri.

Alla luce di queste considerazioni, i delegati suggerirono al governatore due rimedi: imporre ai mercanti di garantire agli operai disoccupati due mesi di sostentamento, e “proporzionare” all’abbassamento del denaro i prezzi di tutte le merci. Purtroppo ciò restò sulla carta, e la situazione rimase immutata per più di sessant’anni.

 

In difesa dei più deboli
cercarono di intervenire
le confraternite

Impiegata in grande misura nella produzione tessile in tempi di economia fiorente, la classe operaia, ormai disoccupata, si vedeva costretta ad emigrare o ad incrementare il già elevato numero di servitori dei più abbienti, o addirittura a passare alla mendicità, sperando nel supporto degli istituti caritatevoli.

Sulla base di queste riflessioni, una constatazione appare innegabile: le condizioni dei ceti inferiori della popolazione, per tutto il XVII secolo, furono infauste e precarie, di gran lunga peggiori rispetto a quelle del secolo precedente. In difesa dei più deboli intervennero le confraternite, associazioni spontanee costituite soprattutto da laici, volte a sostenere e preservare i principi cattolici nella società. Il programma di ciascuna di esse veniva definito nell’atto costitutivo, detto “regola”, approvato dalle gerarchie ecclesiastiche.

Prevalentemente devozionale, ad esempio, era la compagnia del Corpus Domini e di Santa Maria Incoronata nella chiesa di San Michele alla Chiusa di Milano. I suoi membri, invitati a ritrovarsi alla prima domenica di ogni mese nella chiesa per ricevere la comunione, erano incaricati di vigilare affinché nella propria parrocchia non vi fosse alcuna meretrice o concubinario, e di occuparsi della custodia e manutenzione del Santissimo Sacramento. Inoltre, avrebbero dovuto provvedere al sostentamento fisico e spirituale delle persone indigenti, visitandole e soccorrendole.

Un fenomeno vasto e dirompente che passò, pur con diversi registri interpretativi, alla letteratura e alla pittura.