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Capire Emilio Isgrò, l’elogio della cancellatura



di Maria Teresa Benedetti

“L’arte vive di deviazioni e di scambi, di mascherature e di smascheramenti, di avvistamenti e di svisature linguistiche. Vive dove non è e dove è non vive”. Emilio Isgrò

Emilio Isgrò nasce artisticamente all’inizio degli anni Sessanta, come leader di esperienze di poesia visiva, autore di imprevedibili associazioni tese a contestare la presunta autorevolezza della parola. Adopera la cancellatura come strumento per sradicare la comunicazione, da un lato critica al linguaggio e individuazione dei suoi limiti, dall’altro tabula rasa per ricominciare.
Operazione di sottrazione, da lui trasformata in occasione di ricca articolazione di significati, ora elegantemente ironici, ora irriverenti e provocatori, la cancellatura è la base della sua poetica. Figlia di un tempo di avanguardia, riflette la necessità di scendere nell’agone con un gesto irrevocabile e insieme con l’idea di chiudere in modo definitivo con la stessa avanguardia.
Isgrò cancella, ma nega solo in apparenza, visto che ricerca una più vera realtà, distrugge con segni vistosi voluminosi libri sapienziali, poiché ambisce, con insolenza e umiltà, a riscrivere la storia del mondo. Inaugura un’operazione di igiene mentale del linguaggio, in antitesi all’omologazione di falsi valori, senza apoditticità dogmatiche, ma con la forza di un’intelligenza e di una creatività duttile e metamorfica.

Emilio Isgro'
Emilio Isgro’

Dotato di irridente scaltrezza intellettuale, di amore del paradosso, di un senso vitale del rischio, l’artista è figlio del suo tempo, ma anche erede di una sapienza antica. Profondamente legato alla terra di origine, manifesta, anche nella piena maturità, le pulsioni di un giovane nutrito di sofistica siculo-greca, penetrato dal paradosso che da Gorgia di Lentini giunge fino a Pirandello. E, non a caso, Paolo Volponi lo ha definito “il vero erede di Pirandello”. Come non pensare a Il fu Mattia Pascal o a Uno, nessuno, centomila?
Una calcolata mistura di razionalità e irrazionalità, come ebbe ad affermare Arturo Schwarz, gli consente di passare da un apparente estremo all’altro, senza che ciò vada a discapito di quella coerenza che il pubblico pretende dagli artisti.
In anni lontani (1971) ci ha conquistato con una suggestiva autocancellazione, un’affermazione di non identità (Dichiaro di non essere Emilio Isgrò), e oggi ritratta, sostituisce alla sparizione un perentorio Dichiaro di essere Emilio Isgrò. “Perdere la propria identità è tanto difficile quanto ritrovarla” egli afferma, alludendo alla potenza del suo cancellare, che porta in sé, contraddittoriamente, il suo stesso contrario, il conservare, come sostiene Marco Bazzini: “Per oltre quarant’anni, Isgrò si è diviso sulla riflessione dell’essere e non essere, sui problemi del determinato e indeterminato, sulla potenza e impotenza dell’atto creativo”.

Il Seme dell'Altissimo - Emilio Isgrò
Il Seme dell’Altissimo – Emilio Isgrò

Legato a una molteplicità di possibili significati, l’artista crede nell’importanza del divenire, la realtà è come un fiume che scorre ininterrottamente, e non permette mai di immergersi due volte nella stessa acqua. Nel corso della sua esperienza, ha individuato la sterile potenza del mezzo fotografico, se è usato per enfatizzare fenomeni caduchi. E’ nata così l’idea del particolare ingrandito, anonimo, scelto per vanificare l’insolenza dell’operazione, additare l’inutile parcellizzazione dell’esperienza, e, in via ultimativa, l’intera conoscenza.
Nelle Storie rosse i protagonisti della rivoluzione, peraltro amati, sono sottratti alla vista dal dilagare del colore, che tutto invade e cancella. Anche l’ideologia non elude un processo di manipolazione. In antitesi all’operazione di cancellazione della parola, Isgrò opera da sempre anche in ambito letterario, aspira ad evidenziare, oltre i limiti, il valore stesso della parola. Ha esordito nel 1966 con una raccolta di poesie, edite da Mondadori e, da allora, ha pubblicato numerosi titoli in versi e in prosa. E’ autore inoltre della trilogia teatrale L’Orestea di Ghibellina, presentata dal 1983 al 1985 sulle rovine del paese distrutto dal terremoto. Testimonianza, attraverso la corale partecipazione di tutta la popolazione, della volontà di risorgere dopo la catastrofe.

La Sicilia agisce sempre su di lui come stimolo fecondo. Il Seme d’arancia, eseguito in tufo (la pietra degli antichi templi della Magna Grecia), resina e scorie vulcaniche, è struttura simbolo di prosperità e insieme germe di riscatto civile. La valenza estetica sottende anche una valenza economica; un messaggio nato in un contesto locale, è inteso a simboleggiare un’isola-continente, uno dei luoghi deputati della cultura universale. Del resto, anche le Carte geografiche cancellate vanificano i confini, alludono alla fusione delle nazionalità, alle trasmigrazioni di popoli. In anni recenti l’artista ha adottato gli insetti come testimoni e protagonisti di un vivere sempre più teso e inquieto: le api della Torah suggono il miele delle parole, ne assorbono il senso, la loro è operazione solare, positiva; le formiche, nere come le cancellature, hanno un qualcosa di minaccioso e invasivo, generano sgomento. L’opposizione fra forze vitali e distruttive, fecondità e sterilità, luce e tenebre, spirito apollineo e dionisiaco, si mescola nel divenire del mondo.
“Dal Romanticismo al Simbolismo, dal Futurismo al Dadaismo – afferma Achille Bonito Oliva -, lo sforzo dell’artista e del poeta è stato costantemente quello di rappresentare l’indicibile, quella complessità sempre più nascosta e silenziosa che abita l’esistenza e in qualche modo la configura. L’arte di Isgrò risponde attraverso la complessità della tecnica e lo sconfinamento interdisciplinare, capaci di restituire quella totalità che l’univocità di un singolo linguaggio difficilmente può dare”.