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Giove pittore di Farfalle di Dossi, il significato


di Maurizio Bernardelli Curuz

Giove, colto nell’atto della Creazione, dipinge farfalle su una tela candida, contro la fascia di un arco dorato che si leva fino a coprire parte del cielo. Dietro il padre degli dei, totalmente assorbito dalla rappresentazione fino a non percepire più nulla di quanto ha attorno a sé, si torce la figura di Mercurio-Ermete, con petaso e caduceo, in direzione di una giovane trafelata che ascende di corsa le erte dell’Olimpo. Il dio alato protegge la tranquillità del suo re.
E avvedendosi dell’arrivo dell’intrusa, che appare con le caratteristiche di una servetta affannata, col fiato interrotto dall’acuta salita, pronta a richiamare rumorosamente l’attenzione dei presenti, come dimostra il volto contratto e preoccupato – e sembra di intuire che voglia lanciare un monito o comunicare una notizia considerata fondamentale per Giove -, Mercurio porta l’indice al naso invitando al silenzio. Una mossa che s’espande con la forza di una teatralità che estingue ogni minimo fruscio, ogni stormir di foglia.
L’ermetismo della scena dipinta da Dosso Dossi (1489 circa-1542) e la presenza convergente di alcuni elementi di matrice alchemica, a partire, appunto, da Mercurio-Ermes, considerato tra i fondatori e i tutori dell’Arte regia, per giungere alla realtà volatile delle farfalle, fino all’oro che pare prodursi, in arcobaleno, sul fondale del luogo sacro, avevano indotto a ritenere che l’opera potesse rappresentare una vigorosa testimonianza delle indagini di matrice alchimistica svolte nell’ambito della corte estense, che ben sappiamo già fortemente incline alla magia e all’astrologia. In particolare, l’attenzione veniva orientata sulla figura di Zeus che, sotto il profilo fisionomico, coincide con quella di Alfonso d’Este (1476-1534), Giove del ducato ferrarese. Il significato alchemico non è ora accantonato, ma si fa luce sull’intrico di significati e sulle origini letterarie del capolavoro. Sulla sua matrice e sul motore iconografico. Vincenzo Farinella, con lo studio Dipingere farfalle. “Giove, Mercurio e la Virtù” di Dosso Dossi, un elogio dell’otium e della pittura per Alfonso d’Este – recentemente edito da Polistampa, 104 pagine, 12 euro -, completa il quadro della situazione, rifacendosi, tra le altre fonti, alla terza edizione del libro Venezia città mobilissima et singolare di Francesco Sansovino e alle Intercenales di Leon Battista Alberti – a quei tempi attribuite a Luciano di Samostata -, delineando quelli che, a mio giudizio, sono gli elementi narrativi che fungono da prologo alla scena stessa, la quale si indirizza verso la raffigurazione del riposo intellettualmente operoso che per gli antichi, nel corso delle villeggiature, era il momento in cui il pensiero si stagliava netto e le creazioni giungevano a giusto compimento.
 
 
Ma facciamo un passo indietro: tutto parte, sotto il profilo storico, dalla realizzazione di un luogo di delizie, al centro del Po. E’ forse in quella casa che il testo di Leon Battista Alberti – dal quale sarebbero sgusciate le figure di Giove, Mercurio e della Virtù – viene letto, mentre il dipinto Giove pittore di farfalle di Dosso Dossi sarebbe nato proprio per il palazzo di vacanza.
“Una lettera da Ferrara di Biagio Rossetti al cardinale Ippolito d’Este a Roma, datata 15 novembre 1513 – scrive Farinella -, documenta l’avvio dei lavori patrocinati dal duca Alfonso I, per la realizzazione di una nuova ‘delicia’ sull’isola di Boschetto, posta in mezzo al Po, di fronte a Castel Tedaldo: un luogo ameno (…) da cui si poteva godere una splendida vista sulla città di Ferrara e sulle possenti fortificazioni che si estendevano sul fiume verso meridione”.
L’edificio che s’andava costruendo – oltre ad essere protetto dall’acqua e rinfrescato dai più morbidi zefiri fluviali, durante le soffocanti notti estive – venne circondato da boschetti di rovere, nonché di olmi e di pioppi dalle tremule foglie; le rive furono dotate di solide mura e, nell’ombra del parco, vennero rilasciati cervi, capre, conigli, struzzi, pavoni e faraone, che “convivevano con le specie esotiche
– leopardi e perfino un elefante – dipinte nel parco”.
Un palazzo di villeggiatura magnifico e finalizzato al recupero dell’otium latino, per il quale furono necessari tre anni di lavoro. Ultimato nel 1516 sotto il profilo delle principali realizzazioni edilizie, venne raso al suolo nel 1599 “per essere sostituito da un’arcigna fortezza papale”.
Questo il contesto, che comunque incide sui contenuti e sulle vicende del quadro. A giudizio di Vincenzo Farinella, infatti, “particolarmente significativa risulta la possibilità di ricollegare al contesto decorativo del Belvedere di Alfonso I uno dei capolavori più evocativi di Dosso, il Giove pittore di farfalle, il famoso dipinto eseguito intorno al 1524, che porta anche il titolo di Giove, Mercurio e la virtù”. Farinella sottolinea l’importanza di una fonte letteraria – già peraltro esplorata – che risulta come una matrice molto plausibile per la raffigurazione di questi tre personaggi. Si tratta di uno dei testi presenti nelle Intercenales, piccole storie da convito, composte tra il terzo e il quarto decennio del Quattrocento dall’intellettuale e teorico della rinascita delle arti.
I brevi racconti erano stati stesi per essere letti e ascoltati “mentre si mangia e si beve” (“inter coenas et pocula”) “come briosi e ‘leggeri’ intrattenimenti conviviali”, annota Farinella; mentre lo stesso Alberti auspicava: “Vorrei che da tutte le mie intercenali risultasse chiaro l’obiettivo: che i lettori mi considerino uno scrittore brillante e che trovino nell’opera argomenti validi per rendere meno pesanti le ansie e le preoccupazioni”.
Il valore psicologicamente terapeutico delle storie, caratterizzate da “temi audaci, anticonformisti, paradossali e allusivi”, ben s’attagliava alla necessità di offrire un valore aggiunto, tra giochi intellettuali e sorrisi, alla piacevolezza del soggiorno estivo, sull’isola ventosa, entro un circolo di dirigenti dello Stato e di ospiti eruditi in grado di ascoltare e comprendere anche testi non perfettamente ortodossi, nei quali virtù e morale, come del resto accade sul piano ordinario della vita, non risultano automaticamente premiati dalla cornucopia della fortuna.
“Virtus – riferisce Vincenzo Farinella – è un dialogo tra Mercurio, impegnato, come se si trattasse di una sorta di segretario del principe, a difendere i momenti d’ozio di Giove da visitatori importuni, e la dea Virtù, salita dai Campi Elisi sull’Olimpo per lamentarsi del trattamento subito dalla Fortuna. Anche se, nel proemio al primo libro delle Intercenales (scritto forse come una sorta di giustificazione a posteriori di una serie di testi davvero poco ortodossi), l’Alberti si impegna ad esplicitare a chiare lettere il presunto significato morale sotteso a questo breve dialogo (‘Non bisogna mai allontanarsi dalla virtù, pur riconoscendo che la moralità è sempre soggetta alla varietà dei casi fortuiti’), l’esito dello scambio di battute contraddice clamorosamente, con un paradossale ribaltamento delle attese, questa conclusione, mostrando l’inevitabile sconfitta della Virtù di fronte allo strapotere della Fortuna”.
Ed ecco la fabula: “Mercurio ha abbandonato temporaneamente il luogo dove risiede Giove per venire incontro alla Virtù che gli ha scritto una lettera di lamentele: il signore dell’Olimpo, quindi, non è presente al dialogo, che idealmente si svolge alle porte del suo regno celeste. (…) Di fronte al tono lamentoso e postulante della Virtù, Mercurio le chiede di essere breve, perché suo compito è tornare presto da Giove. La Virtù si presenta davanti agli occhi di Mercurio non solo come infelice e disprezzata, ma anche ‘nuda’ e ‘sporca’, accusando per questo suo stato indecoroso ‘la barbara ingiuria della dea Fortuna’”.
Frattanto quest’ultima, aggredita verbalmente dalla Virtù, ingiunge alla collega di cedere il passo al cospetto di una dea più grande e nobile. L’atmosfera si surriscalda e scoppia lo scontro. La Fortuna intima il silenzio a Platone, che parteggia per la sua avversaria, e Cicerone, che cerca di portare la dea bendata, con un discorso filosofico, a più miti consigli, viene colpito al volto da Marco Antonio. “A quel punto tutti i nobili seguaci della Virtù si danno alla fuga: le persone ‘prepotenti e armate’ al seguito della Fortuna percuotono violentemente la Virtù con pugni e calci, facendole a pezzi le vesti e lasciandola in mezzo al fango. (…) Non appena ristabilitasi da questa disavventura, la malcapitata dea sale all’Olimpo per tentare di informare Giove Ottimo Massimo dell’accaduto: ma dopo un mese sta ancora attendendo alle porte del palazzo di essere ricevuta”.
Gli dei cercano insomma mille scuse per impedirle l’incontro con Giove. E tra le giustificazioni appaiono anche le più banali. Si lagna infatti la Virtù nelle Intercenales albertiane: “Dicono che gli dei devono far fiorire a tempo le zucche o badare a rendere più variopinte le ali delle farfalle. E allora? Avranno sempre qualche nuova occupazione per tenermi fuori dalla porta e non badare a me. Le zucche sono fiorite da un pezzo, le farfalle volano ed è uno spettacolo magnifico. A evitare che le zucche muoiano di sete ci pensa già il contadino: di noi non si curano né gli dei né gli uomini”.
Il dialogo procede con un machiavellico scambio di battute tra Mercurio e la Virtù. Il segretario del principe sostiene che nessuno avrebbe l’ardire di inimicarsi una dea potente come la Fortuna. “Allora devo starmene sempre nascosta in eterno
– risponde lei -. E così me ne vado nuda e disprezzata”.
Singolarmente violenta – che essa sia intesa come un passo di denuncia amara o una constatazione, appunto, machiavellica dell’impossibilità di raggiungere risultati ragguardevoli contando esclusivamente su un comportamento virtuoso -, la piccola storia di Leon Battista Alberti mette in luce quello che risulta uno dei nodi delle disquisizioni morali di quegli anni; un nodo che verrà sciolto, in arco temporalmente ristretto, dalla figura esibita di Raffaello Sanzio, additato dai Papi come dimostrazione della possibilità che grazia, virtù e fortuna possano albergare, senza conflitti, nella stessa persona. Un caso esemplare, contrassegnato più dall’unicità che dalla rarità. Ora vediamo come quel testo albertiano entri nell’opera misteriosa di Dosso Dossi.
Già nel menzionato libro Venezia città mobilissima et singolare di Francesco Sansovino (1663), come avverte Vincenzo Farinella, il quadro che rappresenta Giove pittore di farfalle – in quegli anni conservato nel palazzo veneziano del conte Widman in San Canciano – era messo in rapporto con la fonte letteraria di Leon Battista Alberti. Eppure lo stesso Farinella sottolinea giustamente che, per quanto Dossi sia partito da tale suggestione, il dipinto non possa essere ritenuto un’illustrazione, più o meno fedele, del dialogo albertiano; giunge così a contaminarla “con altre fonti per raffigurare una scena sostanzialmente diversa, dove il vero argomento dell’opera non sono tanto le vicissitudini della Virtù e della Fortuna, ma il passatempo di Giove, presentato come un ‘semplice’ pittore, quindi sotto un aspetto del tutto inedito”.
 
 
Se allora il dialogo di Leon Battista Alberti appare come un lontano ma evidente incunabolo della scena, il quadro narra in verità qualcosa di diverso.
Dovremmo allora puntare lo sguardo alle farfalle. Sono davvero allegoria delle operazioni lievi e disimpegnate svolte nell’ozio dal Giove-Duca, che non vuole essere disturbato? Una conferma in tal senso verrebbe dalla “Camera del Camin nero” nel Castello del Buonconsiglio di Trento, un dipinto realizzato dallo stesso Dosso nel 1531-32 per il cardinale Bernardo Clesio.
In questo caso, comunque, a differenza del quadro ferrarese, l’artista offre un’illustrazione piuttosto fedele del dialogo scritto dall’Alberti. Qui le farfalle escono in volo dal palazzo di Giove “perché si vuole alludere proprio a quelle futili scuse (‘rendere più variopinte le ali delle farfalle’) che in realtà, ormai, ‘volano in tutto il loro splendore’, addotte dalle divinità dell’Olimpo per non ricevere la Virtù umiliata e, di conseguenza, per non essere coinvolte nella sua pericolosa disputa con la Fortuna”. Un’opera vicina, ma assolutamente non consustanziale. E allora, in che direzione cercare ancora?
Una suggestione che rinvia ad una possibile impresa allusiva all’otium creativo del Duca è confermata dall’idea che “la pittura è un’invenzione degli dei”. “Una conferma
– scrive Farinella – che sembra provenire da altri due particolari presenti nei lavori di Dosso: l’arcobaleno che si innalza proprio alle spalle della tela su cui Giove sta dipingendo le farfalle (che in origine, come rivelato dalle radiografie, doveva estendersi lungo tutta la composizione, andando a cadere all’estremità opposta), che andrà inteso non come un attributo del dio, un segno astrologico, un simbolo di pace o un semplice evento meteorologico, ma come la raffigurazione di quei ‘fenomeni’ celesti che, secondo Filostrato, ‘dipingono’ la volta cava del cielo. (…) Andrà quindi sottolineato come, ad un primo livello di significato, ci troviamo di fronte ad una vera e propria glorificazione dell’arte pittorica, tramite l’assimilazione del pittore con la somma divinità pagana; l’idea del ‘divino artista’ trova insomma la sua visualizzazione letterale; addirittura, secondo Peter Humpfrey, ‘il tema centrale del dipinto (sarebbe) l’arte pittorica in se stessa: e in sintonia con tutto questo, l’esecuzione è eccezionalmente sofisticata, ed è senza precedenti l’accentuazione degli effetti pittorici di evanescenza’”.
 
 
Ma solo questo? Solo l’elogio della pittura e dell’ozio creativo?
Un passo del libro di Vincenzo Farinella ci consente di intravedere – e le conclusioni sono nostre – ciò che doveva avvenire nel palazzo ferrarese e quello che lo specchio della pittura rifletteva.
“E’ l’attività artigianale che lo impegna, a rimandare alle ben note propensioni febbrili del duca di Ferrara – scrive l’autore del libro edito da Polistampa -; le fonti non solo sottolineano le sue particolarissime abitudini al lavoro manuale nei laboratori fatti appositamente costruire a palazzo, dove Alfonso poteva mettere alla prova le sue capacità di fondere i metalli, lavorare il legno al tornio, modellare ceramiche d’argilla, ma accennano anche al desiderio del Duca di dipingere in prima persona, giacché nel 1493, quando aveva diciassette anni, aveva chiesto all’ambasciatore estense a Venezia di recuperare colori di grande qualità”.
Ciò che emerge è così un insieme rafforzato di significato attorno all’etereo simbolo delle farfalle: l’otium, inteso come distacco dalle ordinarie preoccupazioni di governo, è la condizione essenziale per le ricerche svolte dal Duca nei laboratori dove fonde i metalli. Attività, questa, strettamente connessa con l’alchimia. L’arcobaleno è del resto un simbolo utilizzato nei testi canonici dell’ermetismo per rappresentare il collegamento tra la terra e il cielo; il colore monocromo dell’arco d’oro potrebbe alludere al prodotto finale della sintesi alchemica, raggiunto attraverso l’uso di sostanze volatili (le farfalle), create dal nulla.
E del resto, come già abbiamo sottolineato, lo stesso Mercurio-Hermes è la divinità alchemica per eccellenza. E’ pertanto da più livelli degli apparati allegorici che il quadro ramifica i suoi significati. Lontano dagli assilli della virtù, che dovrebbe portarlo ad impegnarsi in altre direzioni, confortato dalla fortuna, il Duca si abbandona, grazie all’otium protetto della villa insulare, alle proprie attività di ricerca. E non ci risulta difficile ricordare che pittura ed alchimia furono strettamente collegate, come dimostrano i casi di Parmigianino e del Beccafumi.