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L’ombra del Titano, il caso Michelangelo. Colloquio tra Curuz e Paolucci


Colloquio tra Maurizio Bernardelli Curuz  e Antonio Paolucci.

Michelangelo, Un’ombra lunga che si stende sia su Firenze che, in generale, sulla pittura cinquecentesca. Il Cinquecento è plasmato da Michelangelo: i suoi accordi cromatici violenti, i dipinti che hanno le caratteristiche di “statue dinamiche”, caratterizzano in modo stretto il secolo. Vorrei iniziare quest’intervista in negativo. Con la fine del Manierismo – e con gli inizi del Seicento -, cioè nel momento in cui il michelangiolismo entra in crisi. Caravaggio e il barocco eliminano i giganti di Michelangelo?

michi11 Firenze cresce sotto l’ombra di Michelangelo, e così, in effetti, sarà fino all’arrivo del barocco, anche se rimane la roccaforte inviolata della Grande Maniera… Comincio subito, dicendo che Michelangelo è stato il più grande, geniale amministratore d’immagine di tutti i tempi. Oggi sarebbe il presidente della Rai, sarebbe in grado di monopolizzare tutti i telegiornali. L’artista ha costruito il suo genio, utilizzando tutti gli strumenti che mettevano in campo capacità mediatiche. Vasari l’aveva già divinizzato nell’edizione de “Le Vite” del 1550. Per Vasari tutto inizia con Cimabue e Giotto, ma il picco insuperato e insuperabile è il Buonarroti. E Michelangelo, mentre Vasari scrive questi giudizi fondamentali, è vivo. Un’intera città, un intero Stato manifesteranno profonda nostalgia per il proprio geniale rappresentante partito per Roma, anche se tra la città d’origine e l’artista permane un rapporto fitto e continuo. I fiorentini lo considerano un temporaneo ostaggio di Roma.
Eppure i rapporti con Firenze non furono sempre ottimi.
Sappiamo tutti perché lascia Firenze. Lui è democratico, repubblicano. Non ama, dei Medici, l’assolutismo dinastico, la configurazione del passaggio monarchico. Certo, questa partenza dalla città d’origine non ha soltanto ragioni politiche. Egli lascia Firenze anche perché Roma era Roma e offriva opportunità che il capoluogo toscano non era in grado di proporre. Tuttavia i Medici – prima Cosimo e poi Francesco -, nonostante Michelangelo sia un loro dichiarato nemico politico, contribuiscono all’esaltazione del genio, con un’operazione molto spregiudicata…
Molto moderna, molto machiavellica…
Sì… Tanto che, in base all’apertura dei Medici, Michelangelo avrebbe potuto tornare quando avesse voluto.
Così Firenze inizia a ricordare il genio lontano.
Sulla scia di Michelangelo si muovono tutti: Vasari, Bronzino, Salviati, Cellini, Giambologna. Sono i grandi protagonisti che troviamo in mostra e che dichiarano la loro dipendenza da Michelangelo, anche quando hanno personalità autonome.
Quali sono le opere che creano il “caso Michelangelo”?
Il mito di Michelangelo tra i contemporanei viene creato attorno a due opere: il “David” (1504) e il “Giudizio universale” della Cappella Sistina, quindi un lavoro giovanile e un’opera della vecchiaia. Il “David” viene scoperto, e, subito, Giorgio Vasari afferma che gli antichi sono stati vinti, che sono stati superati Fidia e Prassitele, che è stata dimostrata una netta supremazia della ricerca artistica fiorentina nei confronti dell’antico. Raffrontato al colosso, al gigante non c’è nulla che tenga, nemmeno in campo archeologico… nemmeno i “Dioscuri” del Campidoglio. Poi la Cappella Sistina. Il “Giudizio universale” ebbe un enorme effetto mediatico. Il papa Paolo II Farnese, dicono le cronache, si buttò in ginocchio, a terra, piangente di fronte alla scena che gli appariva davanti agli occhi.
Michelangelo, a un certo punto, diventa oppositore dei Medici, anche se i primi passi li muove proprio nell’ambiente mediceo.
Comincia, quando era un ragazzino di quindici anni, proprio con Lorenzo il Magnifico. Poi, un papa di quella famiglia, Clemente VII, gli commissiona le Cappelle Medicee. Allora non si chiedeva certamente – agli artisti e agli uomini di genio – la tessera del partito. Il legame con la città resta sempre forte. Quando Firenze viene assediata da Carlo V – e gli assedianti hanno una forza paragonabile, con le dovute proporzioni, all’esercito americano di oggi -, lui combatte per la propria città
Artista e combattente, come Cellini a Castel Sant’Angelo.
Precisamente.
Cosa porta di nuovo nell’ambiente mediceo, agli esordi?
Il “David” è davvero un’opera sconvolgente, che muta i canoni. Non si era mai visto un uomo totalmente nudo, con il sesso bene in vista, in mezzo a una piazza. E’ chiaramente un’operazione violenta, tanto che, anni dopo, quando iniziano a diventare imperiose le indicazioni della Controriforma, la statua sarà dotata di una cintura di bronzo dorato. Già agli esordi, quindi, Michelangelo offre rivoluzionari mutamenti percettivi (pensiamo anche alla “Pietà”, in San Pietro…). Lo scultore non ha ancora 30 anni. Allora la precocità. Il genio e la precocità che lo portano a spazzare via tutto ciò che era stato fatto fino a quel momento. Annulla la cultura della serra medicea che imperava delicatamente a Firenze, rinnova l’iconografia. A questo proposito torniamo al “David”. Il giovane raffigurato non ha, ai suoi piedi, la testa di Golia decapitata – come avviene nella tradizione iconografica -. David deve ancora colpire, tiene la fionda, è una macchina mortifera, pronta a scattare contro l’avversario, con la forza di una molla…
…mentre l’immagine più diffusa è quella di un David raffigurato nella pace della vittoria…
Sì; qui, invece, ci troviamo di fronte a un Ercole concentrato.
Facciamo ancora qualche passo indietro. Michelangelo “nasce” nella bottega del Ghirlandaio, ma le tracce di questo apprendistato non sono visibilissime.
Secondo la tradizione, Michelangelo ha iniziato a lavorare dal Ghirlandaio, un artista-imprenditore che aveva alle sue dipendenze numerosi pittori e collaboratori. Ma il ruolo del Ghirlandaio, rispetto a Michelangelo, è minimo. Michelangelo si forma da sé.
Si ha l’impressione di trovarsi al cospetto di uno dei primi artisti-intellettuali, che non sono costretti ad appoggiarsi a filosofi o letterati.
Lui è un intellettuale. Scrive poesie, idealizza il suo mestiere e lo dimostra, mettendosi in competizione con i suoi stessi committenti. L’esempio sta in un celebre episodio legato proprio al “David”. Il Confaloniere di Giustizia, Pier Soderini, giunge in piazza mentre Michelangelo è al lavoro alla scultura. Soderini ritiene che il naso di David sia un po’ troppo grosso, come racconta Vasari, e lo grida al giovane artista. Michelangelo risponde più o meno così: “Forse avete ragione, eccellenza”. Quindi si china, recupera dal ponteggio una presa di polvere di marmo e finge di assestare il naso. L’artista avrà questo tipo di antagonismo anche con il Papa. Non si piegherà mai alla volontà del committente e, aspetto più importante, saprà sempre sfruttare gli effetti di questo tipo di competizione, un po’ alla Sgarbi, si parva licet componere magna.
Riceve anche qualche fregatura. La volta della Cappella Sistina, ad esempio. Il giovane Michelangelo non vuole fare il pittore, ma lo scultore. Eppure viene incastrato in quell’impresa drammatica.
Lui vede il mondo sub specie sculpturae, e anche questo è tipico della sua personalità, quanto considerare l’arte come un affrontamento, come un duello, come un corpo a corpo.
E il suo successo sta anche nella proposta pittorica di quelle che risultano, in definitiva, nell’ambito di un conflitto tra corpi ragguardevoli, come “sculture dinamiche”.
La forma sta dentro il marmo. Michelangelo cerca. Viene fuori l’opera, quindi la finitura diventa un lavoro artigianale, che non interessa più l’artista. Michelangelo afferma il principio dell’idea.
Sì, e questa sua ricerca di un’idea che sta nelle cose, si deve formazione neoplatonica, avvenuta nella Firenze medicea di Marsilio Ficino.
Scendendo sotto la pelle del marmo, c’è anche il fiume carsico della sua omosessualità mai praticata, mai dichiarata, anche se uno dei sonetti parla di affettuosa fantasia…
La triade resta imperante. Michelangelo, Leonardo e Raffaello. Quale dei tre riesce, a livello di segmento genetico che si trasduce in opere artistiche, ad arrivare fino a noi?
Io sono sempre stato convinto che il più grande artista è Raffaello Sanzio. Dalle sue opere emergono la calma, la facilità, la scioltezza, lo splendore del mondo in un mattino di primavera. E’ come se i suoi occhi fossero gli occhi di Dio. La nostra epoca, che è tanto più drammatica, preferisce Michelangelo a Raffaello. Le folle si fiondano nella Cappella Sistina, passando davanti rapidamente ai dipinti di Raffaello. E il nostro secolo ama molto, accanto al Buonarroti, Leonardo. Hanno vinto Michelangelo e Leonardo, Raffaello è rimasto discosto, più in ombra; ma non è detta l’ultima parola. In altri secoli – e pensiamo al Seicento di Poussin e di Guido Reni – Raffaello ha rappresentato una stella polare.
Colpa della caduta della Grazia e dell’apollineo. Raffaello, in pittura, era ciò che Petrarca era in letteratura: la calma suprema, la bellezza limpida, l’elevazione spirituale. Non per nulla Bembo, grande petrarchista, dettò le parole che campeggiano sulla tomba dell’Urbinate.
Certo. Raffaello era la grazia apollinea, la facilità linguistica che, perdonate il gioco, è la cosa più difficile nell’arte. Tutto ciò che sembra facile da rappresentare, molto spesso nasconde una grande difficoltà d’approccio. Michelangelo è il corpo a corpo con la storia. Leonardo è la modernità introspettiva, è l’uomo moderno che inizia a guardare dentro se stesso, cercando di capire cosa si nasconde nell’endoscopia. Sono tre realtà e tre tendenze che comunque, insieme, hanno un peso straordinario.
Eppure, rispetto a Raffaello, Michelangelo esercita un forte appeal. Penso a Giulio Romano, che nasce da Raffaello, ma poi guarda alle statue in movimento di Michelangelo, per Palazzo Te, a Mantova.
Lo stesso Raffaello aveva guardato con estremo interesse a Michelangelo, ma aveva conservato una propria lingua.