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L’ultimo Rauschenberg e la poetica dei rifiuti e dello scarto


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di Susan Davidson
Pubblichiamo di seguito, per gentile concessione dell’autrice e dell’editore, uno stralcio del saggio in catalogo di Susan Davidson, curatrice con David White della mostra Robert Rauschenberg. Gluts, che fu allestita alla Peggy Guggenheim Collection di Venezia.
Robert Rauschenberg dimostra un entusiasmo per i materiali che non conosce limiti. La realizzazione di opere con oggetti di recupero o con elementi caratteristici del consumismo e della comunicazione di massa portano i critici ad identificarlo erroneamente come neodada o ad associarlo alla Pop art e ai movimenti a questa collegati. Eppure, nel corso della sua multiforme carriera, egli rifiuta in maniera risoluta di venire di volta in volta incasellato, svincolandosi dai successi e affrontando il rischio e l’avventura della meta successiva. Rifugge, come Jackson Pollock, dai metodi e dagli strumenti più tradizionali per avvalersi dell’inventiva che instilla in ogni sua opera. E’ dedito al riciclo e possiede quella capacità rara di riuscire a scoprire sempre nuovi modi di impiegare quel che gli altri dismettono, donando agli scarti una seconda vita che li rinvigorisce.

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Esplora con grande zelo il vasto repertorio che arriva per lo più a comporre nei primi quattro anni di carriera, cominciata, a tutti gli effetti, nel 1949: progressioni e sequenze temporali; formati basati su una griglia; sdoppiamenti, raddoppiamenti, capovolgimenti; contrappunti che alternano l’aggiungere e il togliere; infine, il senso di una scala a dimensione d’uomo. Da quel momento, Rauschenberg si riappropria del proprio vocabolario artistico personale.
L’inizio di ogni opera lo vede spesso tracciare, a matita, una linea sulla tela bianca. La sua semplice spiegazione altro non è se non l’ammissione del bisogno “di un punto da cui partire”. E così, davanti agli oggetti più disparati, ammucchiati sul pavimento dello studio, impiega il medesimo approccio diretto per affrontare il gruppo numeroso di lavori che definisce Gluts (1986-89, 1991-95), assemblaggi di oggetti di recupero, la maggior parte in metallo, che rappresentano la sua ultima serie di sculture.
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I Gluts nascono da uno sviluppo continuo e costante dell’opera di Rauschenberg, cominciata con Elemental Sculptures(1953), una serie che incorpora pietre, flangie, vecchi chiodi e legno. Seguono i famosi Combines (1953-64 circa), che eliminano la differenza tra pittura e scultura, e a metà anni sessanta Oracle (1962-65), un ambiente tecnologico mobile composto da cinque pezzi (i cui trasmettitori analogici, all’epoca pionieristici, sembrano ora rudimentali), che conferisce agli assemblaggi una presenza nuova nel creare un dialogo interiore, continuo tra personaggi indipendenti, spogli, metallici. Ecco poi gli esempi scultorei dei Venetians (1972-73), come Sor Aqua (Venetian) (1973) o Sant’Agnese (Venetian) (1973), quindi la serie Kabal American Zephyrs (1981-88), e opere di rilievo come Petrified Relic from the Gyro Clinic (1981), che sviluppano narrazioni più riconoscibili in quanto assemblaggi-installazioni.

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Rauschenberg passa infine ai Gluts, l’ultima vera serie scultorea dell’artista, il quale realizzerà, anni dopo, alcuni piccoli assemblaggi che potrebbero essere interpretati più come dei “cimeli”: da Untitled (1995), con una lente d’ingrandimento appesa in maniera stravagante sottosopra in un vaso chiuso di vetro, ad analoghi lavori fantasiosi, come un righello in legno appeso a una palla di spago (Untitled, 1997), o i calchi in oro, argento o bronzo dei torsoli di mela (Untitled, 2001, 2003, 2003) o di piccoli ananas del suo giardino (Untitled, 2004). Questi assemblaggi o fusioni non sono mai stati immessi sul mercato, ma tenuti da Rauschenberg sul tavolo dello studio (con pennelli, latte di colore, seccatoi ed altri utensili) o della cucina (con vari oggetti, i premi, la posta, grandi vasi di fiori).
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A partire dal 1970, quando si trasferisce a Captiva Island, Rauschenberg si reca nella discarica di Fort Myers, a un’ora di macchina dalla sua casa, riempiendo interi camion di ferraglia (ventilatori, cruscotti, segnali stradali, ruote, marmitte, tubi, radiatori, cestelli di lavatrici, saracinesche e molto altro ancora), che pian piano trasforma negli assemblaggi poetici e spiritosi dei Gluts. Dimostra un’empatia quasi viscerale per lo scarto. “Gli oggetti abbandonati mi fanno simpatia, e così cerco di salvarne il più possibile”.
I Gluts trovano un’espressione contigua nelle serie di dipinti su metallo Shiners (1986-93), Borealis (1989-92), Urban Bourbons (1988-95), Night Shades (1991): opere bidimensionali che si basano sull’uso di immagini e fanno risaltare l’occhio attento dell’artista, incorporando sue fotografie trasferite su metallo e lavorate con ossidazioni e corrosioni – come nel caso di Borealis (in ottone, rame, bronzo) – o con il colore applicato con grande gestualità – come in Urban Bourbons (alluminio smaltato o specchiato) -, o soltanto trasferite, come negli splendidi monocromi, un po’ spettrali, di Night Shades (acciaio inossidabile).
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Gli Shiners incorporano oggetti di recupero, spesso pure in metallo: un’unione tra pittura e scultura che ricorda i Combines. Il passo successivo è, quindi, la creazione di elaborazioni pienamente scultoree di tali oggetti: i Gluts.