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L'Unità d'Italia, la pittura subliminale e le esplicite allegorie politiche


La natura accidentata dell’erta percorsa in direzione dell’Unità d’Italia trova numerose conferme, oltre che nelle fonti storiche, nel vasto repertorio iconografico che precedette, accompagnò e seguì, tra fusioni a caldo e a freddo, la costruzione di un Paese ricco di contraddizioni.

Il dipinto di Angelo Inganni in questa pagina è particolarmente interessante poiché evidenzia un significativo ed evoluto messaggio finalizzato alla rappresentazione di una nazione realmente felice, nascondendo, invece, il macchinoso processo di unità degli spiriti, della lingua, della cultura e delle pianificazioni economiche. Inganni promuove intensamente, attraverso la magia del quadro, l’idea di concordia e prosperità assolute, legate agli esiti delle battaglie risorgimentali e all’opera politica e amministrativa svolta dall’Italia nuova, sotto l’egida sabauda. Un dipinto di intelligente propaganda, donato nel 1879 dal pittore lombardo al sovrano.


Angelo Inganni, Brescia, veduta di piazza della Loggia sotto la neve
Angelo Inganni, Brescia, veduta di piazza della Loggia sotto la neve

Ciò che risulta fondamentale, nell’economia del quadro, è l’azione subliminale del messaggio di tranquillità e di pace sociale raggiunti, secondo una visione addomesticata offerta dal pittore, grazie al percorso unitario.
Lo spettatore è immediatamente spiazzato, nel più puro incanto, dal bianco riverbero della neve, dai colori degli abiti dei venditori ambulanti e dei passanti, dall’insieme ben composto di uomini e di solenni scorci architettonici, chiusi dal palazzo della Loggia a Brescia, sorretto da quel colonnato rinascimentale nato dalla moltiplicazione dei disegni del riminese arco di Augusto. La neve è la prima alleata del pittore. Crea un’atmosfera di soffice ottundimento dei sensi. Tutto è pace. Una pace che diviene mancanza di suono.
Ogni segmento del dipinto rinvia a una tranquilla operosità, senza clamore. Sullo sfondo, a sinistra, il nostro occhio può persino cogliere l’immagine degli spazzaneve, intenti a svolgere un lavoro di pubblica utilità. Un cenno all’efficacia delle amministrazioni locali italiane o una pura coincidenza che si sviluppa tra impianto semantico e dato di cronaca? Certo è il fatto che tutta l’economia del quadro tende, con straordinaria raffinatezza, quasi senza darlo a vedere, a sottolineare i benefici del buongoverno sabaudo, nato dal Risorgimento.
Del resto, un’amministrazione efficace si rivela tale quando è sottesa alla vita della nazione e non arranca, non sbuffa e non produce sonori cigolii di ruota. E’ presente, eppur liberalmente defilata. Il quadro propone così un potente, per quanto schermato, motore semantico, anch’esso sotteso. La macchina del significato si mette in azione nel momento in cui l’osservatore attento coglie la rappresentazione pittorica del monumento alla “Bella Italia” – realizzato dallo scultore Giovanni Battista Lombardi – e di due uomini, ai lati opposti dell’inferriata che cinge la statua.
Il signore con tuba, elegantemente vestito, simboleggia la Destra o comunque chi ha operato, in ambito risorgimentale, su una linea realista vicina a Cavour e a casa Savoia. Dalla parte opposta, con cappello e tabarro, la Sinistra, forse più garibaldina che mazziniana. Entrambi gli uomini sembrano reduci. Entrambi, al contempo, rappresentano l’unità nazionale delle classi sociali e delle ideologie ai piedi della svettante Italia, proiettata nel cielo, accanto al fumo caldo che sguscia da un camino, contronota che riscalda il dipinto.
I pittori italiani, nel corso dell’Ottocento, produssero anche allegorie in cui il messaggio era ben più chiaro nei termini della propaganda e della sintesi popolare di alti contenuti politici. E’ il caso di Giacomo Casa, con un olio su tela di importanti dimensioni – 117×168 cm – realizzato con un colorismo che ricorda le opere dei grandi veneti del Cinquecento.
Giacomo Casa, Allegoria risorgimentale
Giacomo Casa, Allegoria risorgimentale

Il quadro si apre all’insegna della convergenza regionale, sotto l’egida di Vittorio Emanuele II, che appare al centro della tela, al vertice di un ideale triangolo, i cui lati sono costituiti da due donne che s’inchinano al re con atteggiamenti devoti. Le due giovani, eleganti dame sono la Lombardia e il Veneto, la seconda ancora con le catene alle braccia, come una prigioniera appena liberata dal carcere. La presenza delle due donne consentirebbe di datare l’opera dopo il 1866, anno dell’annessione del Veneto, e forse prima del 1870, anno della Breccia di Porta Pia.
Il dipinto è particolarmente significativo sia sotto il profilo dell’eleganza formale che per i semplici ma numerosi elementi simbolici. Nella parte inferiore appaiono il leone di San Marco, con il Vangelo, proprio sotto la Regione veneta che indossa una sontuosa stola, una mantellina di ermellino e il copricapo dogale. A terra, accanto al leone marciano, frutti degli alberi e messi dei campi rappresentano la feracità delle due regioni. Ai piedi della donna che incarna lo spirito della Lombardia – al cui fianco sta un ritratto di Garibaldi -, Giacomo Casa collocò un putto biondo che regge il tricolore francese, a ricordo dell’apporto straordinario dei cugini transalpini nell’ambito della seconda guerra d’Indipendenza (1859), che ebbe come conseguenza, dopo la battaglia di San Martino e Solferino, la liberazione della terra lombarda dal giogo austriaco.
Di rilievo, sotto il profilo della storia politico-militare, la presenza, a sinistra e a destra del re, di Garibaldi in camicia rossa, il quale regge il lembo estremo del tricolore italiano, e di Cavour, l’antipode dell’eroe dei Due mondi. Gli effigiati si offrono a una duplice possibilità di lettura. Sono, infatti, le due anime del Risorgimento: quella di derivazione mazziniana, movimentista e di fatto – pur nel profondo – sostanzialmente repubblicana (Garibaldi) e quella monarchica (Cavour). Al tempo stesso, la vicinanza di Garibaldi alla Lombardia e di Cavour al Veneto configura i ruoli diversi svolti dai due personaggi rispetto alla liberazione delle due regioni, che erano state unite amministrativamente dagli austriaci nel 1815.
Angelo Inganni, Brescia, veduta di piazza della Loggia sotto la neve, particolare
Angelo Inganni, Brescia, veduta di piazza della Loggia sotto la neve, particolare

Andrea Appiani junior in Venezia che spera (1861) rappresenta l’antefatto, rispetto al quadro esaminato in precedenza. L’ex capitale della Serenissima, che in quell’anno era ancora “prigioniera degli austriaci”, è una donna seduta, con la corona a terra, scarmigliata e pallida, serva abbandonata e sconsolata dopo l’esclusione del Veneto dal nuovo corpo nazionale, parzialmente modellato dall’armistizio di Villafranca. La decisione cadde come un fulmine a ciel sereno su una regione che si accingeva ormai a festeggiare la liberazione. Altra allegoria del dolore risorgimentale è offerta magistralmente da Francesco Hayez con La Meditazione. L’Italia nel 1848.
La Meditazione, in due tele realizzate dal maestro nel 1850 e nel 1851, si pone come una commossa metafora politica della prima grande delusione risorgimentale. Il dipinto è una composizione allegorica e descrive la situazione politica italiana posteriore ai moti del 1848: questa data è infatti possibile leggere tra le mani della giovane donna, sulla croce del martirio risorgimentale, a caratteri rosso fuoco (“18.19.20.21.22 marzo / 1848”), allusione al massacro seguito alle cinque giornate di Milano. Ancora è chiaramente visibile il volume, somigliante a una Bibbia, su cui sta scritto “storia d’Italia”, a confermare il fatto che la data del fatidico marzo del 1848 fu un momento cruciale per lo svolgersi delle vicende future della Penisola.
Il messaggio politico è chiaro. Hayez fu molto attivo politicamente, e in questo dipinto descrive la profonda amarezza per il naufragio delle speranze rivolte verso i moti che si verificarono negli anni a ridosso dell’esecuzione dell’opera.
La giovane, bellissima e perlacea, ma anche calda ed emozionale, ha il seno nudo, il volto coperto da un velo d’ombra ed i capelli corvini: l’aria è di profonda mestizia, lo sguardo è fiero e deciso, ma allo stesso tempo provato, le mani rassegnate reggono il peso del grosso libro e della croce. Con questo quadro Hayez fa trasparire tutta la malinconia della coscienza contemporanea trasformata in meditazione, lasciando cadere anche il velo del malcelato travestimento religioso per palesare appieno il motivo patriottico del dolore dell’Italia risorgimentale.
Attraverso le opere allegoriche dei pittori ottocenteschi è possibile cogliere pure elementi di regionale resistenza all’ampliamento dell’orizzonte sabaudo, certo in epoche antecedenti alla grande fiamma risorgimentale. Nel dipinto di Felice Guascone La Liguria nel 1814 viene rappresentata la sottomissione della Liguria ai Savoia vista dagli occhi dei genovesi.
Nell’indignata allegoria, realizzata nel 1815, la Liguria è simboleggiata da una donna, sorvegliata da due sentinelle inglesi armate. Accanto a lei, con il porto di Genova sullo sfondo, ci sono due personaggi che concludono un affare sotto una tenda. Si tratta di Vittorio Emanuele I, a sinistra, e di lord Bentinck, il generale britannico che avrebbe trattato la cessione della Liguria al Piemonte per denaro. I due sembrano infatti mercanteggiare. Bentinck ha la mano protesa verso un mucchio di monete sul tavolo, mentre la donna punta l’indice accusatore su di lui, nell’attesa di conoscere il proprio destino. Vicino a loro un giovane chiude dei sacchi pieni di denaro, che una barca trasporta ad una nave da guerra inglese, all’ancora al largo. Guascone titola questa scena: “Liguria… sic erat in fatis… diviserunt sibi omnia bona mea. 1814”.
Si nota come l’astio del pittore sia rivolto soprattutto ai britannici, e questo perché l’Inghilterra aveva avuto un atteggiamento molto ambiguo nella vicenda della cessione della Liguria. Durante l’epoca napoleonica, infatti, gli inglesi avevano cercato di tenersi buona l’oligarchia genovese, promettendo di riportarla al governo. Alla fine era prevalsa però la politica antifrancese, e questo tradimento non fu dimenticato.
Un altro dipinto, sempre di Felice Guascone, è rivolto in modo più esplicito contro i Savoia. Il titolo è Entrata di Vittorio Emanuele I a Genova dopo l’annessione della Liguria al Piemonte (8 febbraio 1815). Si vede la carrozza del nuovo sovrano, seguita da un corteo di ufficiali a cavallo, gesuiti e frati cappuccini, fendere una folla dolente e miserabile, composta da storpi, mendicanti, bambini affamati. La popolazione, ridotta alla fame, lo accoglie con totale indifferenza. Una donna accetta una borsa di denaro da un turco con caffetano e turbante, a indicare che la miseria portata dai Savoia spingeva le donne genovesi a prostituirsi persino con gli infedeli.
Dopo l’annessione, il governo sabaudo cercò di attenuare il sentimento diffuso di ostilità verso il Piemonte, ma senza troppo successo. L’erede al trono, Carlo Felice, fece di tutto per rendersi popolare. Iniziò la costruzione del teatro e di altre opere pubbliche, e decise di stabilire la propria residenza a Genova per buona parte dell’anno. Ma i suoi tentativi fallirono e non venne mai visto con simpatia dalle famiglie della città.
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