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Maurizio Cesarini – C’è un perfetto dandy annegato nel mare


L’artista Maurizio Cesarini , sin dagli anni ’70 si inserisce nell’ambito della Body Art con performance che pongono la questione dello statuto identitario.
Negli anni successivi sino ad oggi tale questione si è sviluppata attraverso varie modalità espressive tra cui il video, la fotografia digitale e la performance. Ha esposto in mostre nazionali ed internazionali tra cui Shanghai, Philadelphia, Frankfurt, ed attualmente ad Yzmir in Turchia.
La Performance M.Von Hauser si struttura attorno all’idea di una identità parallela, definita da azioni performative che si evidenziano attraverso l’uso di un abito , quasi una sorta di costume di scena, ma a differenza della forma teatrale in questo caso l’artista compie gesti usuali e vive realmente le situazioni che interpreta. La struttura del lavoro si è sviluppata nell’arco di due mesi  attraverso tre interventi performativi. Abbiamo chiesto all’artista di essere testimone del proprio percorso

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di Maurizio Cesarini

Anzitutto occorre inquadrare storicamente, si pur in forma sintetica, l’idea di performance, che nasce come possibilità di superare lo iato tra l’opera, sia questa quadro o scultura, e l’artista. L’artista diviene l’opera, il suo corpo è la materia attraverso la quale la forma d’arte si organizza e nella quale si inscrive. Sarebbe lungo tracciare un panorama, se pur essenziale, della performance come pratica artistica, perché sebbene il corpo sia indiscusso protagonista di queste pratiche, tuttavia il senso varia decisamente a seconda dell’ambito artistico nel quale l’azione performativa è praticata.

Così in Fluxus, ad esempio, il corpo è oggetto comune, forma esistentiva che si produce in azioni minime, mentre nella Body art il corpo è esperito, vissuto, ferito, così da darsi come maschera dolorante di una sofferenza ed una interrogazione esistenziale. Nelle singolarità esperienziali di alcuni artisti, la performance rivela una struttura rituale a volte caratterizzata da allusioni sciamaniche, come nel caso di Beuys ad esempio, in cui il corpo non è quello che si mostra, non solo il corpo proprio, ma lo strumento di una liturgia caratterizzata da sinestesie sensoriali. Questa breve introduzione permette di definire il senso, la struttura teorica e l’assetto formale della performance intitolata: M.Von Hauser . Quello che vorrei evidenziare da subito è che in questo caso il corpo non si pone come medium privilegiato, o come ostensione carnale dell’organico, ma diviene metafora, corpo pulsionale, situabile quindi non nel reale, ma ascrivibile al registro dell’immaginario. L’assetto concettuale dell’operazione definisce il senso del lavoro; anzitutto l’idea è quella di destrutturare la forma della performance intesa come evento di spettacolazione per ridefinirla entro i limiti dell’agire quotidiano. M.Von Hauser non è semplicemente un alter ego, un personaggio da interpretare in senso attoriale, ma una dichiarazione di intenti, così come la stessa definizione suggerisce alludendo etimologicamente sia all’idea di casa e quindi luogo domestico e quotidiano, sia ad una sorta di spaccatura identitaria, uno iato tra ciò che si è e quel che si potrebbe essere, riferendosi direttamente al personaggio filmico di Kaspar Hauser. Lo sviluppo del progetto performativo è definito da tre assunti fondanti; il tempo: ovvero la durata e l’esecuzione; l’identità:l’assunzione di una imago caratterizzata dall’abito indossato; il luogo: ovvero lo spazio e l’ambito nel quale la figura agisce. Sin dagli anni ’70 il mio lavoro si è coagulato attorno a precise tematiche identitarie, Von Hauser quindi rappresenta una tappa significativa, una sorta di glossa del discorso sviluppato attorno a questa ricerca. L’ordine entro il quale si è costituito l’evento performativo, si può definire in un limite di senso e di azione, per cui pur indossando gli abiti di Von hauser, gli atti, i gesti e le azioni non dovevano essere determinate dal soggetto assunto, ma si connotavano come banali, comuni, quotidiane, senza alcune divaricazione dalle stesse compiute quotidianamente.


Von Hauser diviene quindi lo squarcio, lo strappo nel reale, il punto in cui il senso comune assume un senso assoluto e il vivere quotidiano reiterato e usuale si blocca in un momento irripetibile. L’ultima performance realizzata sancisce e conforma tutto il progetto presentandosi come una sorta di buco nero nel quale il gesto quotidiano e quello simbolico coincidono in un unico evento. L’immersione nelle acque marine, pur nell’aspetto iconologico che può rimandare a vari sensi legati all’abluzione come pratica rituale, tuttavia non ha inteso avere un aspetto liturgico o rituale, determinando invece il senso della sparizione, dell’annullamento, del naufragio. Appunto in questo naufragare s’è perso per sempre Von Hauser, ma da questa perdita tutta l’azione ha acquistato il senso di linguaggio e di metafora, forma simbolica di una imago destinata alla sparizione sin dal suo primo apparire. L’opera quindi si è definita e conformata attraverso tre tipologie procedurali: una pagina sul web che di volta in volta ha documentato, sia in senso teorico che fotografico, lo svolgersi dell’opera; La performance stessa nell’atto della sua attuazione e la documentazione fotografica decisa e definita in dieci scatti fotografici (ovvero lo stesso numero di lettere che compongono il nome).