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Max Klinger – Il pittore critico del maschilismo fu un cinico maschilista. Perché?


klinger foto interno
di Giovanna Galli
Tra gli autori più geniali della stagione simbolista, interprete di un originale e inedito incontro tra il mondo moderno tedesco e quello antico greco-romano, Max Klinger diede vita ad un modo di intendere l’espressione artistica come luogo simbolico eletto per l’incontro tra musica, letteratura, filosofia, e mito. Nato a Lipsia nel 1857, egli fu al tempo stesso pittore, scultore, acquafortista, filosofo, scrittore, musicista e poeta: suo grande merito fu l’essersi accostato alla molteplici manifestazioni creative con l’intento conciliatorio di chi è alla ricerca dell’ ”opera d’arte totale”. A questo proposito si meritò la celebre definizione di “artista moderno per eccellenza” da parte del suo primo grande ammiratore italiano, Giorgio de Chirico, la cui poetica per molti aspetti risentì dell’influenza del maestro tedesco, soprattutto nella visionarietà e nell’originalità che furono i tratti salienti della sua migliore produzione.


In vita, Klinger ebbe una fama notevole, nonostante che i pareri intorno alla sua figura fossero piuttosto discordi, contemplando sia lodi e autentica venerazione, sia non rari giudizi ben più freddi e sferzanti. Tuttavia dopo la morte , avvenuta a Grossjena nel 1920, la sua arte venne considerata superata dalla maggior parte dei contemporanei, sicché egli, che pure era stato sovente celebrato con entusiasmo, cadde nell’oblio per un lungo periodo, durato decenni. Soltanto nel 1970, infatti, con la grande esposizione organizzata a Lipsia per celebrare il cinquantesimo anniversario della morte, Max Klinger tornò alla ribalta, ritrovando il pieno favore non solo del pubblico, ma anche del mondo della cultura. Klinger, che da pittore assegnò alle tele una molteplicità di simboli, modelli, idee filosofiche e religiose e che si cimentò pure con la scultura, vivificandola con la forza dell’artista classico, antico e rinascimentale, fu soprattutto un eccellente incisore, fecondo, dotato di un’abilità tecnica straordinaria. Se la pittura e la scultura urtarono frequentemente contro perplessità e riserve, rimanendo a lungo incomprese, è certo che la sua produzione grafica fu sempre lodata senza restrizioni e le numerose serie di incisioni che egli produsse conobbero una larghissima diffusione grazie ad alte tirature.
Egli era convinto dell’autonomia estetica della produzione grafica, che, a differenza delle altre forme espressive spesso dominate dalla committenza, aveva la possibilità di nutrirsi liberamente di poesia, di passione, di approfondimento spirituale; in questo senso è evidente il legame con quella costante ricerca di unità tra mezzi e linguaggi che doveva condurre all’“opera d’arte totale”, egli si definiva un poeta figurativo, impegnato ad utilizzare le figure come fossero parole. Uno dei temi che ricorrono all’interno della sua vasta produzione è quello della difficile condizione femminile: la donna, vittima del moralismo e dei pregiudizi dell’epoca, è molto spesso protagonista delle sue serie di incisorie. Nei sei fogli ad acquaforte della raccolta Eva e il futuro (1880), ad esempio, Klinger si dedicò per la prima volta in maniera consapevole alla spinosa questione dei sessi. Attraverso la narrazione del destino di Eva, e delle conseguenze del peccato originale, l’autore cercò di porre un limite alla diffusa concezione dogmatica che solo la donna fosse responsabile delle pene e dei tormenti dell’esistenza terrena.
Esempio dell’interesse rivolto alla figura femminile calata invece nel suo tempo, è Una vita, la celebre serie di quindici acqueforti a cui Klinger lavorò tra il 1880 e il 1884 ispirandosi al romanzo Albertine dell’amico Christian Krohg, che descriveva la caduta sociale della protagonista fino alla prostituzione e alla rovina; qui Klinger, prendendo spunto dalla vicenda narrata, contesta e stigmatizza attraverso l’intenso realismo delle sue immagini, la società borghese dell’apparenza, della doppia morale, che immola la donna, infliggendole una sorte crudele. Egli così fu tra i primi artisti tedeschi a trattare senza ipocrisie il tema della prostituzione. Altrettanto efficace nella proposta del medesimo snodo tematico è poi l’affascinante cartella del 1887 intitolata Un amore, composta da dieci fogli che ripercorrono la vicenda di un innamoramento, declinato in senso drammatico per la fanciulla protagonista, la quale, dopo aver vissuto una storia di breve felicità, si scontra con il destino doloroso che la conduce in un vortice negativo, fino alla morte. La serie, dedicata a Arnold Böcklin, si apre con il risveglio alla sensualità di una giovane donna, che vive il suo primo amore. Ma la romantica storia di questa passione conosce presto la brusca virata verso il dolore dettato dalle conseguenze della perdita della purezza, che portano ad una gravidanza illegittima, dunque al disonore e alla condanna pubblica, e infine al tragico epilogo della morte per parto. Si ritrova qui l’idea di “Eva simbolo della condanna alla sofferenza”, idea che probabilmente racchiudeva elementi personali di Max Klinger. Paradossalmente, però la vicenda biografica del maestro, in particolare quella che riguarda gli ultimi anni della sua vita, pare smentire nella pratica questo atteggiamento di sensibile partecipazione nei confronti delle difficoltà incontrate dalle donne. Nel 1908 Klinger aveva conosciuto, a Lipsia, Elsa Asenijeff, una scrittrice viennese di ampio respiro protofemminista, più giovane di lui di dieci anni, che divenne sua modella e sua compagna. I due non si sposarono, ma dalla loro unione nel 1909 nacque a Parigi una figlia, Désirée, la quale fu cresciuta in Francia da una nutrice.


Elsa era una donna forte, che dominò per certi aspetti la vita dell’artista, ma solo fino a quando, nel 1910, fece la sua comparsa la giovane domestica Geltrud Bock, di cui Klinger si innamorò perdutamente. Dopo aver lasciato Elsa, nel 1919, il maestro si unirà a lei in matrimonio. Un anno più tardi, Klinger morì, solo poche settimane dopo aver nominato Geltrud sua unica erede. L’infelice destino di Elsa Asenijeff troverà tragica conclusione con la follia e la morte in manicomio nel 1941, un finale che è una sorta di materializzazione delle più drammatiche invenzioni dell’artista.