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Mila Schön – Il rapporto dei suoi abiti con la storia dell’arte


Prosegue il nostro viaggio nell’Alta moda, indagine del complesso di relazioni che intercorrono tra questo ambito creativo e le arti figurative. Il vicedirettore di “Stile” ha incontrato Mila Schön.

a_2La casa di Mila Schön – dove veniamo accolti con la più affabile delle ospitalità – s’affaccia, dall’interno, sui giardini di Brera. E questo vorrà pur dire qualcosa. Dalle sue pareti fa bella mostra di sé una straordinaria galleria di opere di maestri del Novecento, tra cui spiccano autentici capolavori di Fontana e Schifano. E anche questo vorrà dire qualcosa. E certo non può stupire che la grande stilista parli con tanta incondizionata partecipazione del suo amore per la pittura. Un amore che non scopriamo adesso, peraltro: un conto però è ribadire concetti già universalmente riconosciuti – Mila Schön è, tra i protagonisti della moda internazionale, in assoluto fra le più sensibili all’influsso delle arti figurative -, un conto è verificare direttamente come talune predilezioni non nascano per avventura – o addirittura per una sorta di ripiego, di stampella alla propria creatività, che riduce un quadro o una scultura a oggetto di mera trasposizione-riproposizione, in qualche caso financo freddamente mimetica -, ma, ed è questo uno degli esempi più limpidi, per profonda, sincera comunanza spirituale ed estetica.
Signora Schön, partiamo da Lucio Fontana. Spesso nei suoi capi sono stati individuati precisi riferimenti all’opera di questo maestro. In qualche caso i richiami erano dichiarati ed espliciti, come è avvenuto per la celebre collezione Alta moda del 1969, con gli abiti ispirati ai “Tagli”. Senza parlare del fatto che alcuni pezzi importanti dell’artista sono entrati a far parte della sua raccolta personale. Ci vuole raccontare questo feeling (ricambiato, peraltro: è risaputo che Fontana apprezzava molto le sue creazioni)?
Sono orgogliosa di poter affermare che Fontana aveva una particolare ammirazione per il mio lavoro. Un giorno mi chiamò: “Le dispiace se vengo a dare un’occhiata da lei?”. Figurarsi se mi dispiaceva. Lo rivedo ancora aggirarsi per il salone, osservando interessato i miei modelli. Alla fine disse: “Devo fare un quadro per lei”. E lo fece: era uno dei suoi famosi “Tagli”: un taglio solo, al centro della tela. Io ero – e sono – innamorata delle sue opere. Più tardi acquistai un altro quadro, con cinque tagli. Lo tengo qui, sopra il divano – vede? -, nell’angolo preferito di casa mia. Ricordo, i primi giorni continuavo a guardarlo, a studiarlo, non solo sul recto, ma anche sul verso.
Del resto, quelli erano i tempi del double, l’invenzione che le ha dato notorietà universale…
… e l’ispirazione nasceva anche da ciò: dalla “decifrazione” di un dipinto di Fontana, nelle sue diverse facce, nel gioco formale dato dalla lacerazione della materia, nel contrasto tra luce ed ombra, nella ricerca dell’essenzialità. Sì, credo che questo sia stato uno dei punti di partenza fondamentali. La stima che il maestro mi riservava è sempre stata ragione di profonda gioia per me; ed egli, dal proprio canto, si dichiarava entusiasta di quanto andavo realizzando. Col tempo, la mia collezione di sue opere si arricchì di nuovi pezzi: diversi disegni, due ori, tre argenti piuttosto insoliti – non li si direbbe, quasi, di Fontana -. Questi ultimi li ho… contesi a Teresita, che non voleva assolutamente cederli: poi si convinse, spinta certo dalla grande amicizia che ci legava reciprocamente. Io posso vantarmi di non aver mai acquistato opere d’arte che non mi piacessero davvero. Non ho mai pensato ad esse come oggetti di valore, occasioni di investimento. No: è sempre stato il gusto del bello, a spingermi. Del resto, per me vedere le cose belle è una condizione normale. Cosicché finisco per abituarmici: con l’handicap, poi, di notare subito le cose che, invece, non mi piacciono. Se sono per strada, ed incontro gente che sembra stia andando a una festa mascherata, non posso restare indifferente. Dentro di me scatta un sentimento di rifiuto, anche se, per educazione, non mi permetterei mai di criticare nessuno. Sono estremamente critica, insomma, verso ciò che non mi piace: negli altri, ma pure in me stessa. Sì, credo di essere stata sempre molto autocritica, ed autoesigente.
A proposito della sua collezione. Oltre a Fontana, io vedo qui anche quadri di altri grandi, a cominciare da Schifano…
Sì, Schifano è tra i miei autori preferiti. Vede, ad esempio, questo dipinto dove la composizione, a macchie di colore, è frazionata da un reticolo bianco, come l’inferriata di una prigione? Fu realizzato in un periodo in cui Mario ebbe problemi con la giustizia, per questioni legate all’uso di stupefacenti… Un’opera drammatica, cui fanno da controcanto queste figure femminili, sempre di Schifano, invece molto allegre, piene di sensualità e gioia di vivere, e che tale gioia trasmettono immediatamente a chi le guarda.

L’amore per l’arte, da parte sua, quando ha cominciato a manifestarsi?
Devo tantissimo, da questo punto di vista, a Ugo Mulas. Eravamo molto amici. Ricordo gli scambi di idee, le discussioni appassionate, le lotte accese, anche… Imparavamo reciprocamente, ci ammiravamo reciprocamente… Io gli offrivo la possibilità di fotografare cose che lui amava. Fu un periodo meraviglioso. Andavamo in giro per mostre, e pian piano, anche grazie a lui, scoprivo un nuovo mondo, il mondo dell’arte.
Un altro artista a cui lei si è richiamata, dopo Fontana, è stato Calder (Collezione Alta moda primavera/estate 1990). Cedendo, in particolare, alla magia dei “Mobiles”, le sculture destinate a subire lievi fluttuazioni mediante – uso le parole esatte del loro autore – il “soffio dell’aria”.
Cercavo fonti d’ispirazione, spunti traducibili con il double. Studiammo per mesi il tessuto, e le possibilità di arricchirlo senza appesantirlo. Finché nell’enorme salone di una lussuosa villa di Dallas non vidi, appesi al soffitto con fili di rame, tantissimi “Mobiles” di diversi colori. Fui folgorata da quest’immagine, e decisi di rifarmi a tali sculture per i miei abiti. Il lavoro fu complesso, non privo di problemi da risolvere. Ma alla fine riuscii a realizzare quanto mi ero prefissa.
La sua collezione, signora Schön, riproponeva i “Mobiles” in forma bidimensionale e policroma – in rosso, in nero, in giallo -, paralizzandoli, quasi, su di un fondo bianco. Un “fermo immagine”, però, solo apparente, nell’attesa che l’abito-opera d’arte prenda a muoversi in virtù di chi lo indosserà…
Sì, la sua interpretazione è corretta. Le forme vivono nel movimento. Il fascino della dinamicità dell’arte riaffiora anche nei riferimenti alla produzione di Vasarely, che troviamo in sue creazioni più recenti (Collezione Prèt à porter autunno/inverno 1998/99). I principi della “moltiplicazione dell’immagine”, alla base della teoria propugnata dal maestro ungherese, si esplicitano nella reiterazione di forme geometriche elementari – quadrati, cerchi, poligoni concentrici – per scale cromatiche digradanti, facendo ricorso anche a materiali che rifrangono la luce. Movimento, moltiplicazione di immagini, geometrie, sono tutti riferimenti fondamentali. Sia che giungano da un’opera d’arte, sia che vengano colti dall’osservazione della realtà. Durante un viaggio in Tunisia, mi capitò di incrociare imbarcazioni con immense vele a righe. Tornai a casa con il desiderio di far provare ad altri le stesse emozioni visive che avevo provato io, e diedi vita ad una collezione dove le righe erano l’elemento dominante. L’ispirazione si può trovare dovunque c’è lavoro, arte e bellezza. Ma bisogna saper amare le cose che si fanno: la creatività è pure tenacia. Talvolta iniziare una nuova collezione è stato terribile, per me. Mi sentivo svuotata. Passavano giorni interi senza che riuscissi a inquadrare i colori giusti.
Come un pittore davanti alla tela bianca…
Appunto. Buttavo le coloriture sul tavolo e me ne andavo. Poi tornavo e, d’improvviso, ecco chiaro nella mia mente quello che fino ad allora avevo inutilmente cercato. Od ancora, penso ai ricami di certi miei abiti. Condividevo pomeriggi e pomeriggi con il mio fido ricamatore prima di giungere ad esiti soddisfacenti. Ho guardato molto, in tale contesto, a Klimt. Ma anche a Pollock.
Pollock come “suggeritore di ricami”, dunque. E in effetti, passando idealmente dalla tela del pittore ai tessuti della stilista – si veda la Collezione Prèt à porter primavera/estate 1996 -, il dripping assume, mi sembra, una diversa dimensione. Posto in contrasto con blocchi monocromi, il “colore gocciolante” finisce per mettere in secondo piano ruolo e drammaticità del “gesto” creativo in favore di una funzione più calligrafica e rasserenante, una funzione che privilegia la valenza estetica. E parlando di ricami, come non pensare all’Oriente (dove la sua moda è apprezzatissima: suo, tra l’altro, è stato il primo marchio italiano importato in Giappone)? Quanto devono, le creazioni di Mila Schön, all’arte orientale?
Davvero tanto. Indimenticabile, ad esempio, è stata per me l’esperienza iraniana: le tende, i gioielli, i tessuti, le vesti arabescate di Persepoli…
Restiamo in una dimensione internazionale: un suo abito è stato tra i protagonisti della grande mostra “Cubism and Fashion” che il Metropolitan Museum di New York ha allestito, con straordinario successo, tre anni orsono.
E’ vero. Tra l’altro, quell’abito – di collezione privata – venne poi ceduto dai proprietari al museo, ed è entrato quindi a far parte della raccolta permanente del museo stesso.
Che ne pensa, in generale, dell’alta moda che
viene portata sempre più spesso nelle sale di prestigiosi musei di tutto il mondo? Non posso pensarne che bene. Personalmente, sono stata onorata in diverse occasioni di mostre e sfilate all’interno di strutture museali, a Londra, in Giappone…
La sua produzione più recente si va sviluppando all’insegna della ricerca e della sperimentazione continua, saldamente nell’ambito di una ben nota tradizione di stile ed eleganza, ma con lo sguardo rivolto al futuro. In tale contesto, è possibile prevedere ulteriori riferimenti al panorama dell’arte, magari alle nuove tendenze che vanno facendosi strada in questo nuovo millennio?
Magari a questo penseranno i giovani, bravissimi stilisti del mio staff di collaboratori… Io confesso di non riuscire a capire compiutamente – e quindi ad amare – certa arte contemporanea. Ho visitato l’ultima Biennale di Venezia, ad esempio, e non posso negare di aver maturato anche parecchie perplessità. Ma questo non lo scriva, non vorrei provocare polemiche.
Non si preoccupi. Dovrebbe leggere quanto ha dichiarato sull’argomento, in un’intervista a “Stile”, Enrico Baj.
Ecco, Baj mi piace molto. E’ un artista vero.
Concluderei con una domanda “d’obbligo”: la moda, per lei, può essere considerata a pieno titolo tra le espressioni dell’arte?
Credo senz’altro di sì. Si pensi a quante cose stupende ha prodotto. Si pensi – per fare un solo nome – alla straordinaria creatività di Capucci. Certo, oggi il settore ha subito un po’ di violenza, ha sofferto qualche confusione, qualche volgarità. Ma la violenza c’è ovunque, non solo nella moda. E’ un’espressione della vita. Non ne è esclusa l’arte: quanti pittori hanno espresso la propria infelicità in quadri virulenti e tenebrosi! Dobbiamo accettare anche questo, seppure non lo condividiamo.