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Miracolo Sistina


di Maurizio Bernardelli Curuz

“Stile” intervista Giovanni Gentili, coordinatore scientifico dell’Ufficio mostre del Meeting di Rimini.
xx_9La prima sezione della mostra riguarda quello che potremmo definire il “Michelangelo pop”, cioè l’incidenza che l’immagine della Cappella Sistina ha avuto sull’immaginario collettivo anche negli oggetti d’uso, nel mondo a noi contemporaneo. Ma il cuore della mostra parte dalla origini della Cappella e sua destinazione.
Sì, partiamo dalle mani di Michelangelo, icona ricorrente. Abbiamo affrontato questa sezione con tanta saggezza per evitare la stanza degli orrori o il mercato. L’indagine passa attraverso qualche oggetto estremamente rappresentativo, attraverso i francobolli, il cinema, l’arte contemporanea, la maiolica ottocentesca, la ripresa dei dipinti. Si tenga conto che i primi disegni presi dalla Cappella Sistina vengono eseguiti da grandi artisti – e tra costoro Federico Barocci – che copiano le figure del “Giudizio universale”. Ma veniamo al nucleo della Sistina. Sostituisce la Cappella Magna, luogo in cui il Papa celebra cerimonie riservate, alle quali sono ammessi soltanto alcuni ecclesiastici e famigli. La svolta è provocata dalla necessità di ampliamento e abbellimento di quello spazio. Bisogna tener conto del fatto che Sisto IV si colloca come grande innovatore in una Roma a lungo abbandonata. Sicché, entro questa nuova cornice d’impegno, rientra anche il lavoro sulla cappella. Il papa dà ordine che siano elevati muri, al punto che i problemi di sostruzione si manifestano immediatamente, sollecitando l’apposizione di scarpate di rinforzo. Il contratto del progetto decorativo (1481) coinvolge Pietro Perugino, Botticelli, Ghirlandaio, Cosimo Rosselli, che sono i quattro cofirmatari. L’opera di altre “mani” importanti è emersa nel corso dei restauri, come quella di Luca Signorelli o di Bartolomeo della Gatta accanto ad altri capi bottega. Grandi maestri fiorentini che in pochi mesi, con un contratto capestro, affrontano l’impresa. Tutto deve essere finito nel 1483: 2500 metri quadrati di muri, compresa la volta che fu realizzata in lapislazzuli blu con stelle d’oro.

Papa Giulio II eredita la Sistina da Sisto IV dal quale lo spazio ha preso il nome. Egli decide di rivedere globalmente il piano decorativo.
Francesco della Rovere, nipote di Sisto IV, si fa chiamare Giulio. Vuole così stendere una linea di continuità con la gens Iulia, stirpe imperiale. Vuole glorificare il papato, se stesso; vuole rendere onore alla propria famiglia. Intende trasformare Roma da città medievale in città moderna, cioè rinascimentale. Il pretesto gli è fornito da una grossa crepa che si è aperta nella volta, tra Quattrocento e Cinquecento. Sanato il problema, si giunge al rinnovamento degli apparati decorativi. Così il pontefice chiede a Michelangelo di rappresentare sulla volta le figure dei dodici apostoli. Michelangelo, ovviamente, prova a realizzare il progetto, ma un certo punto non sopporta più di essere prigioniero di uno schema. Torna sui ponteggi e distrugge ciò che fino a quel momento ha dipinto. Progetta tutt’altro e dipinge da solo, senza aiuti, nel giro di tre anni, ciò che ora vediamo.

In una composizione poetica, Michelangelo afferma che è impossibile concepire pensieri dritti, quando si lavora in posture disperate.
Sì, ma non è vero che Michelangelo fosse costretto a dipingere sdraiato, come è narrato dalle pagine di mitologia pittorica di area inglese. Lavora in piedi. Possediamo schizzi, conservati presso gli Uffizi e Casa Buonarroti, in cui disegna il ponteggio della volta e si rappresenta in posizione eretta. Certo, questo non vuol dire comodità. Vuol dire lavorare nell’oscurità, tra i fumi delle candele della chiesa – che nel frattempo resta aperta -, dei bracieri, degli incensi. Nel breve trattato “Rimedi per le malattie degli occhi”, conservata alla Biblioteca vaticana, affronta gli insulti oflalmici e le possibili terapie. In effetti Michelangelo rischia di perdere la vista a causa dell’oscurità, dei fumi.

In base al lavoro svolto durante i restauri e alle testimonianze dell’epoca voi avete ricostruito le tecniche esecutive adottate da Michelangelo. Come operava? E’ confermata la notizia in base alla quale lavorava pittoricamente da solo?
Non ci sono mani coeve a Michelangelo. L’artista usufruiva di una grossa bottega, che comunque era utilizzata per riportare i disegni sui cartoni, per preparare gli spolveri o le linee di incisione, per la macinatura dei colori e la predisposizione dei leganti. E poi carpentieri e muratori per la stesura della malte. Ma il gesto pittorico non è condiviso con nessuno. Sia nella volta che nel “Giudizio universale”.

Il “Giudizio universale” fu dipinto tra il 1536 e il 1541 su incarico di Paolo III come decorazione della parete d’altare. Perché furono distrutti i cicli esistenti e da cosa fu originata questa singolare, terribile, scelta del soggetto?
E’ un’epoca di forti traumi per la Chiesa e per Roma. Il Sacco risale al 1527, la città vive anche il dramma della Riforma luterana. Restano, nel ricordo di tutti, le immagini della basilica di San Pietro saccheggiata. Rimangono indelebilmente i segni di una sacralità profanata. Clemente VII, un Medici, al quale si deve la committenza del “Giudizio”, accetta e assume questa straordinaria scelta iconografica, che ribalta i termini della tradizione, se si considera che il “Giudizio” è generalmente riservato alla controfacciata. Clemente lo vuole invece davanti a sé. E’ un segno dei tempi ultimi, dell’urgenza di purificazione della Chiesa. Teniamo conto che il papa celebrava Messa, avendo davanti agli occhi quelle immagini. I suoi occhi erano accolti dall’antro del Purgatorio, mentre ai lati potevano osservare la rappresentazione – di derivazione dantesca – di Minosse e dell’Inferno e le immagini delle anime contese da demoni e angeli. Al posto del “Giudizio”, in precedenza, c’erano le opere che rappresentavano la nascita di Mosè e di Cristo. Al centro una pala con la Vergine Assunta, alla quale la cappella è dedicata. Michelangelo è costretto a distruggere il Perugino e due proprie lunette della volta, corrispondenti alle parti del “Giudizio” in cui disegna gli angeli con gli strumenti della passione.

Vi siete occupati anche del modo in cui il “Giudizio” fu accolto presso la società dell’epoca. Quali furono le opinioni più ricorrenti?
Plausi e critiche. Critiche feroci. Aveva molti nemici. I mutamenti introdotti dalla Controriforma portarono al noto episodio della copertura delle nudità. Nel 1564 Daniele da Volterra mette le brache sui corpi di alcuni personaggi. Di alcuni, ma non di tutti. Restano nudità inspiegabili, come quella del violentissimo Minosse.

Minosse, come demonio, poteva forse esibire “le vergogne” che attenevano, secondo la nuova morale, al repertorio satanico… Un’importante approfondimento è dedicato alle diverse modalità pittoriche tra l’approccio al “Giudizio” e quello alla volta.
Passano trent’anni, tra il lavoro della volta e quello del “Giudizio universale”. Trent’anni, un tempo infinito. Michelangelo è già molto anziano quando mette mano al “Giudizio”. Le differenze? Anzitutto nell’opera della maturità egli manifesta l’abbandono di un certo classicismo fiorentino che, nella volta, è ancora intenso (ricordiamo a questo proposito la famosa scena della creazione di Adamo) e si avvicina sempre più al “manierismo”. L’uso dei cangianti – già praticato in una certa qual misura nella volta – si fa sempre più intenso. Entrano in campo forme contorte che preannunciano il barocco. Il “Giudizio” è una grande macchina teatrale, che noi, in mostra, cerchiamo di muovere ulteriormente con filmati, al suono della musica che fu realizzata in quegli anni per i pontefici.

C’è poi il capitolo dei restauri.
Si parte dal Braghettone, da Daniele da Volterra e si giunge all’ultimo intervento, con il pieno recupero dei colori originari. Le pagine e gli spazi della mostra sono stati affidati ai capi restauratori Maurizio De Luca, per il Quattrocento e Gianluigi Colalucci per la volta e il “Giudizio”. Ripercorriamo la storia degli interventi, testimoniamo l’uso degli oli e di altri elementi che hanno favorito l’abbassamento delle tonalità originali. Una curiosità emersa in questi giorni: sembra che sia stato coperto anche un nudo femminile della volta, il petto di una donna che allatta un bambino è nascosto da un “panno estraneo”.