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Oscar Di Prata, lo stile, le tecniche e le fonti iconografiche. Saggio critico


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Sulla zattera, tra Dio e i cannibali
 
 
di Maurizio Bernardelli Curuz
 
Alla fine il contrasto, intenso e senza confini, tra la luce e l’ombra, intese come entità metafisiche che s’incarnano sul piano della realtà, sotto la fiamma del Vangelo di Giovanni – che così profondamente aveva inciso sulla pittura luminista bresciana del Cinquecento, divenendo poi suggestione caravaggesca – risulta la dinamica di un montaggio per opposizioni che caratterizza l’espressione di Oscar Di Prata.
Flagellato dalla scoperta dei demoni, della morte, dell’insulto gratuito, del potere antropofago, della prevaricazione, l’artista esce dal candore della propria infanzia di bambino malinconico. affacciandosi a una realtà infernalmente contraria ai giardini lussureggianti della propria psiche, lontana dai cani sapienti e crepuscolari con occhi di padre che egli incontra per strada o dai gentili volatili i quali, durante le ore di disegno, zampettano accanto alle matite colorate come presenze cherubiche; l’anima di Di Prata, coltivata dalle attenzioni fatate e costanti della madre e delle sorelle, annichilisce al cospetto della violenza che esplode a ogni angolo di strada, che segna il territorio sprizzando rabbia sui cantoni, che grida e fa vibrare case e palazzi, che tracima nel grande mare della guerra; l’anima di poeta trema e freme; è costretta ad assistere alle prevaricazioni, all’omicidio, all’inganno più sottile e perverso, senza che sia piegata, senza che sia spezzata. Resiste in virtù del potere impenetrabile della poesia. Resiste, assorbendo con la forza di un occhio gigantesco e vibratile, le immagini del lato demoniaco dell’uomo, restituendole nella forma di una denuncia costante, quasi pedagogica nel voler dimostrare che, molto spesso, l’umanità preferisce l’oscurità alla luce e che da qui discende il disormeggio tempestoso, nella notte, in un mare color petrolio sul quale si viaggia verso luogo ignoto denso d’acque stigie, con la tolda colpita da una schiuma tempestosa di mare e sangue, flagellata da un vento prosciugante che riempie la bocca di sale e di agro.
 
Uomini antropofagi. Divoratori di se stessi. Uomini prevaricatori e uomini vittime, trascinati dal Caso sopra un legno privo timone sul quale ogni abominio assume naturale liceità, come su La zattera della Medusa di Thèodore Géricault, il dipinto che si trasferisce a livello strutturale nella mente di Oscar Di Prata quanto una primaria, assoluta, dirompente rappresentazione del dramma, contrassegnando l’inquadratura di decine e decine di dipinti del maestro bresciano.
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Théodore Géricault, La zattera della Medusa, 1818-19, olio su tela, 491×716 cm, Parigi, Museo del Louvre

 
Quel flash resta nella memoria profonda del nostro pittore. E’ Géricault con il frame inquietante di una vicenda vera di naufraghi-cannibali a fornire a Di Prata la camera con vista sulla sopraffazione simbolica più macchinosa e orribile, mentre il naufragio viene inteso come condizione diffusa, esistenziale, un avvitamento del corpo verso il nulla; un viaggio senza rotta così diverso, rari nantes in gurgite vasto, dalle disavventure equoree degli eroi omerici, ricchi di valore e di intelligenza, degli eroi greci di Omero o di Virgilio portati, per molte terre e per molti mari, dagli dei a Itaca, per il ritorno a una giustizia che vince il caos, o sulle coste laziali, dalle quali muoverà il percorso per la nascita della città eterna. La zattera, nell’Ulisse joyciano di Géricault e di Oscar Di Prata, è quella di una modernità che non conosce approdo, che viaggia senza luce di Dio su un tavolato viscido d’acqua marcia e di deiezioni, in cui l’uomo-scimmia e l’uomo-belva, scivolano, si rialzano, ruggiscono, gridano, divorando i propri simili. L’antropofagia diviene così in Di Prata – pur nel non detto – la massima rappresentazione simbolica dell’interagire di forze oscure in una società priva del lume della pietà e della compassione. I lacerti dei corpi dipinti dall’artista bresciano, i ritagli di torsi, i cadaveri con le teste spiccate sono prodotti più dall’azione di denti fraterni che della spada. Non è più nemmeno l’inferno, dove comunque prevale il lato orribile della giustizia divina, ma l’incubo di una realtà senza valore e senza valori.
Per collocarsi al centro dell’occhio-mente di Oscar Di Prata, comprendendone le scelte pittoriche e tematiche, non solo è necessario risalire alla scaturigine prima, costituita dalla folgorazione derivata dall’incontro con il dipinto del maestro francese, ma ripercorrere le radici dell’abominio nascoste in quell’episodio accaduto il 2 luglio 1816, quando la Méduse, una fregata della marina francese, in viaggio verso il Senegal, s’incagliò su un banco di sabbia, a 160 chilometri al largo della Mauritania. L’archetipo della Medusa agisce, infatti, nella pittura di Di Prata, come catena di sventure provocate dall’egoismo umano e dal potere. Seguire questa breve storia, significa respirare lo sdegno del pittore bresciano che si protrarrà fino alle opere degli anni novanta. Guardiamo allora le isole-zattere del nostro pittore e, al contempo, leggiamo queste poche righe, qui sotto, poiché esse irradiano significato sull’intera opera dipratiana.
Siamo ancora al largo della Mauritania.Il comandante ha imbarcato sulle scialuppe di salvataggio duecentocinquanta passeggeri di rango, tra i quali il governatore del Senegal, la moglie e la figlia, mentre i 139 membri dell’equipaggio vengono caricati su una zattera malfida di 20 metri per dieci. La grande tavola è trascinata faticosamente dagli uomini delle scialuppe, sicché ben presto – e questa diverrà un’accusa terribile – qualcuno si sbarazza del peso, attraverso il taglio della cima. Quella carne sottomessa, non è carne d’uomini, ma di servi.
Dei 139 membri dell’equipaggio, venti muoiono (o si tolgono la vita) già la prima notte; quasi la metà finisce in mare a causa delle lotte furibonde. Al nono giorno i venticinque sopravvissuti si danno al cannibalismo: il tredicesimo giorno, i superstiti – poco più di una dozzina – sono salvati da un battello, ma cinque di loro muoiono la notte seguente. Ciò che resta nella mente di Oscar di Prata, attraverso la narrazione di Géricault, è l’apice assoluto dell’abominio scolpito indelebilmente dal pittore e dalle fonti storiche, l’inquadratura dei corpi sul tavolato e l’insulto drammatico all’umana dignità che non scaturisce soltanto dalla disgrazia, dall’antropofagia, dal gioco avverso del destino, ma è suscitato dal potere che disumanizza tutti coloro i quali non appartengono all’elevato milieu. Il taglio di quella corda e il sacrificio dell’equipaggio, considerato una sottocategoria umana, trasforma il quadro – e la sequenza sottesa al fotogramma dell’episodio – in un incunabolo del significante e del significato dipratiano.
L’artista bresciano rinnova stilisticamente la matrice ottocentesca, ma non si distacca concettualmente dalla Medusa la quale, a un certo punto, agisce come una realtà archetipica senza nome, che si presenta al ricordo con modalità ossessionanti. Egli la rivede e la interpreta pittoricamente con citazioni antiche – le figure tragiche, allungate, rese con colorismo puro e senza disegno di El Greco  – o moderne-contemporanee – Picasso, De Staël, Matisse, le avanguardie -.
Centinaia sono le opere di Oscar Di Prata che muovono dalla struttura della zattera, sulla quale è riconoscibile, in molti casi, persino la vela precaria dei naufraghi innalzata da Géricault.
 
 
Di Prata ha così modo di rappresentare, con un taglio esistenziale e politico, al contempo, una nuova umanità lasciata alla deriva, costretta a soggiacere – a causa del potere – agli istinti di sopravvivenza più primordiali, senza uno spiraglio di luce anche se, in alcuni dipinti, emerge, su quel povero insieme d’assi interconnesse, la figura del salvatore, colui il quale regge titanicamente il peso dei feriti o dei morti, come in un’accorata Deposizione, mentre tutto rotea nell’inferno più imo.
Per l’artista bresciano, non è tanto la natura ad affilare sul corpo e sul destino degli uomini le sue grinfie di matrigna, quanto le umanissime èlite, che s’aggregano in strutture di potere impenetrabili e conchiuse, abbandonando a se stessi coloro i quali non hanno, per censo o casta, diritto d’accesso alla scialuppa. E dov’è la Stella di Mare? E Cristo-luce perché non viene invocato? Chi guida in modo demoniaco i gruppi sociali, secondo Di Prata, non fornisce divinità autentiche ma feticci.
Un potere che egli rappresenta incessantemente nei suoi dipinti, coltivando i simboli più arcigni, beffardi e ambigui tra i quali la figura della scimmia, cioè l’ingannatrice primordiale tanto simile all’uomo e al demonio da apparirne una rappresentazione grottescamente in nuce, animale che, a partire dall’iconografia medievale, rappresenta la lussuria, l’inganno e comunque la condizione bestiale dell’uomo senza religione e civiltà. Animale che, non casualmente, troviamo in un’incisione di Dürer, tenuto saldamente al guinzaglio dalla Madonna, colei che è nata senza peccato originale.
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Nelle scene di denuncia dei teatrini in cui si muovono gli uomini di potere, che Di Prata configura con sempre maggiore frequenza in seguito al 1968, la scimmia appare molto spesso anche, in forma semi-statuaria, su un’erma, come il vitello d’oro, idolo privo del soffio di Dio, supremo e demoniaco tentatore.
La venerazione della scimmia indotta dalle élite, diventa, nelle opere del pittore, una perfetta rappresentazione degli inganni simbolici del potere, che porta a culti idolatrici, finalizzati alla regressione delle masse a uno stadio umanoide, dominato dagli istinti basici, non filtrati dalla cultura e dalla religione. In molti casi, con il fine di dimostrare una netta coincidenza tra le scimmie e i malefici amministratori del mondo, l’artista fa oscillare al collo dei primati una bandoliera tricolore, che indica nell’ossessione nazionalista la fonte di innumerevoli mali.
In altri dipinti di Oscar Di Prata, le scimmie esibiscono i canini, manifestando la massima aggressività che equivale all’intensità dell’urlo intimidatorio del comandante che impartisce un ordine. Rappresentazione dell’uomo al grado zero della propria umanità, la scimmia diviene in altri dipinti – quanto il mostro di Füssli sul ventre della donna candida, giacente – simbolo degli eccessi incontenibili dei fremiti pulsionali, come in uno dei quadri più amati da Oscar di Prata, un’opera di impianto onirico-surrealista che l’artista conservava in un posto di privilegio, nel salone della propria casa; vi appaiono due uomini, un lume barocco, una donna nuda, violata e uccisa, una scalinata che ricorda i  percorsi dei ponti di Venezia e una scimmia, che osserva con rapimento la scena, consapevole che la violenza è scaturita dalla propria volontà, intensa anche in senso schopenauriano. Il potere dal sordido cuore primitivo è in grado, secondo la narrazione del pittore, di coprire il nucleo scimmiesco con abiti eleganti o di distintivi sociali o status symbol.
Gli uomini che tagliano le corde delle zattere, gli alti funzionari privi di regole morali, i politici dell’inganno, nelle opere del pittore bresciano indossano sempre abiti da cerimonia, che risuonano di medaglie, mentre inforcano occhiali da sole affinché il proprio sguardo sia impenetrabile; calcano in testa pure aggrssivi fez, come vecchi fascisti movimentisti, o i cappelli a cilindro dei plutocrati; tagliano nastri, gestiscono le sepolture dei militi ignoti, con corone d’alloro.
Né Di Prata evita di condannare una parte della Chiesa che si presenta in assoluta difformità morale rispetto ai presupposti di Cristo e di Pietro. Un’entità deviata e collusa, i cui cardinali sono distinti anch’essi dalla presenza degli occhiali da sole – anche se, a questo punto bisogna prestare attenzione a quei pochi ritratti dal vero nei quali l’effigiato, incolpevole, porta le lunette – a differenza dei veri pastori d’anime che indirizzano un soccorrevole sguardo libero, limpido, compartecipe – uno sguardo abbeverato alle fonti di Dio e di Cristo – verso i fratelli sofferenti.
Una distinzione, tra il bene e il male che caratterizza anche il mondo animale. Il potere addomestica con finalità aggressive cani dal muso di mostri o di astori, mentre sfuggono a questo dominio gli imprendibili, dinoccolati trampolieri che incarnano, nei dipinti dell’artista lombardo, lo spirito della libertà di volo, dell’azzurrità mallarmeana divenendo incarnazioni del binomio bellezza-bontà, attraverso un’alta cresta di piume rocaille.
Di Prata è un uomo in perenne ascolto e in perenne confronto con la realtà novecentesca, nonostante la sua figura ricordi certi monaci dolci e ieratici impegnati soprattutto nella preghiera. Invece si aggiorna, viaggia, polemizza dolcemente, coltiva uno spirito dolcemente anarchico, crede nel moderno contemperato dalla tradizione sicché osserva gli autori moderni e contemporanei francesi – Utrillo, Roault, Picasso, Braque -, ma assorbe, al contempo, in un desiderio di conoscenza che non conosce requie, la struttura delle vetrate delle cattedrali gotiche, riportando poi, nella propria pittura soltanto una suggestione, una citazione del proprio confronto.
Egli cercherà sempre di agire nel tentativo di liberarsi rapidamente di ogni debito artistico – ammesso che ciò fosse possibile – , ritenendo essenzialmente l’arte come espressione dell’individualità, quindi uno dei massimi esercizi di libertà. Per questo giunge, in molti casi, a citare se stesso o a tornare, dopo anni, su temi accantonati.
E s’avvia, pertanto, lungo le volute di una pittura ciclica che potremmo ben rappresentare nella forma di una spirale, con il ritorno a una curva sovrastante che ripete il modello della sottostante, variandone leggermente lo stile. Per questo la datazione dei suoi dipinti non è sempre così agevole, se non ci si basa sulla natura dei materiali utilizzati e sulle varianti spesso impercettibili – dopo l’acquisizione del proprio stile – dello stesso soggetto, ripreso ad anni di distanza.
La ciclicità dipende spesso da una risposta emotiva intensa ad analoghe situazioni di disagio o di gioia che egli ricava dal proprio atteggiamento di uomo che ascolta il Novecento, nel suo costante movimento sussultorio.
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Un ascolto e uno sguardo che egli rivolge al contemporaneo. Se il movimento del Sessantotto, per quanto per un periodo temporalmente limitato, incide in modo molto intenso, pur nella brevità, sul mutamento della sua pittura – creando quasi un fatto isolato da una parentesi e caratterizzandosi per figure in primo piano, fortemente realistiche sul lato dell’espressione rafforzata, incombenti, dotate di vividi colori e un impianto pittorico che sembra inquadrare televisivamente i diversi frame – ecco distendersi, dopo questa puntata episodica, in direzione di un ritorno al linguaggio precedente: egli torna ad esprimere l’assoluto del Male, in chiave simbolico metafisica, secondo quello che potremmo definire lo stile della zattera, sia come categoria assoluta che come evento fenomenico. Egli dipinge il male e il dolore come categoria, poi lo applica al suo inverarsi nella realtà della cronaca. Ecco allora i dipinti riferiti al Vietman, alla strage di Piazza Loggia, all’Italicus, agli orrori nucleari. Eppure c’è sempre una porta, nelle architetture del dolore. Lo stesso varco che egli immaginava di percorrere, verso la luce, nel momento in cui l’oscurità della prigionia, della malinconia e della nostalgia gli premeva il petto durante la prigionia in India e alle falde himalayane.
“Immaginavo di salire una scaletta disegnata nel muro – raccontava Di Prata – e di aprire un battente. Ecco, mi trovavo a casa, nonostante fossi a una distanza incommensurabile, la stanza era calda e luminosa, e lì c’erano le mie sorelle e mia madre”. Egli individua, anche nell’oscurità del male, una via d’uscita che l’uomo sottovaluta, quella dell’amore. Sorgono da questa fiaccola che l’umanità dimentica sotto il moggio le rischiaranti fiamme della solidarietà; ed allora s’erge l’eroe che è colui che ha la forza di alzarsi dal suolo e di prendere tra le proprie braccia di Cristo vigoroso i morti e i feriti, i corpi sofferenti o dilaniati dalla morte che troviamo in numerose opere del pittore bresciano. Da lì si apre la porta che conduce – quanto l’ìmmaginario uscio che s’apriva nella muraglia del campo di prigionia – a un mondo fulgido di luce, d’azzurri e di rosa che giungono al pittore attraverso la tavolozza del suo primo maestro, Trainini e per un’evidente, antico amore per la pittura di stampo tiepolesco, che gli permette di gioire nella scioltezza dei tratti corsivi, nel colorismo assoluto, nella contemplazione della religione più pura per la quale vibra come un autentico francescano, ricco di amore creaturale, poiché la bellezza della luce e del mondo, dei paesaggi, degli animali contiene i riflessi intensi di un eone divino: una, cento, mille scaglie di un dio che è presente come Uno nel Tutto, secondo una visione che sta tra Francesco d’Assisi, Marsilio Ficino e l’alchimia spirituale. Anche per questo gli uomini di potere, nei dipinti dell’artista bresciano, pongono tra sé e il sole il filtro oscurato dagli occhiali, con il fine di non vedere la luce e di non mostrare i propri occhi, colpiti da una vampiresca fotofobia assecondata dolosamente, poiché l’oscurità è il regno di chi si muove senza essere visto.
I più bassi istinti – incarnati dalla scimmia o da animali mostruosi – contribuiscono a muovere qualsiasi uomo in direzione di un’oscurità sordida e verminosa, dominata dall’egoismo. La sopraffazione, l’insulto, la rapina, il raggiro, l’omicidio divengono valori in quanto produttori di ricchezza e di potere. Questo procedere, in dipinti diversi, per contrapposizioni, caratterizza l’intero percorso di Oscar Di Prata, che negli ultimi anni di vita si darà invece totalmente a una pittura semplificata, tutta azzurri e rosa, con incursioni di rosso come un’invasione di purpuree ciliegie, ultimo capitolo che mostra una certezza assoluta della vittoria del Bene, pur a fronte della morte. Una pittura che deve essere ancora accuratamente studiata e che, per un notevole scarto al confronto con le opere maggiori del corpus, non abbiamo collocato in mostra, nonostante apra un capitolo di straordinario interesse, pur a fronte di certe semplificazioni che sembrano essere infantili. Non un regresso, comunque, causato dall’età; ma un percorso verso l’estinzione del segno e del mondo in una luce che tutto domina e assorbe, in un dolce calore, nell’eterno ritorno.

Automatismo e surrealismo in Di Prata
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La questione stilistica, in Di Prata, non è lo strumento attraverso il quale l’artista raggiunge e consolida un proprio linguaggio, secondo un canone espressivo, ma una modalità tecnica di mitopoiesi dei propri dipinti, che generalmente non sorgono da un disegno preordinato, ma si impongono autonomamente alla tela, secondo analogie che seguono la scrittura automatica surrealista. Nessun disegno è sotteso alle opere. Il disegno e la grafica sono, per Di Prata, generi autonomi di espressione, che non hanno alcun rapporto ancillare con il quadro finito. La pittura di cavalletto sgorga esclusivamente dal colore-caos, dal magma primordiale di campiture sovrapposte, ondose, spesso multicolori, che costituiscono la materia primordiale Se escludiamo buona parte delle opere realizzate nell’ambito della pubblica committenza ecclesiale, nelle quali il vincolo del disegno è strettamente connesso alla piena riconoscibilità dei soggetti, contro il rischio di un deragliamento eterodosso del segno, le opere del maestro bresciano, a partire dal Dopoguerra, nascono progressivamente dalla modellazione della materia dell’inconscio-colore (cioè da un fondo informale, che emergerà, tra l’altro, come citazione dei linguaggi aniconici della modernità), assumendo quelle caratteristiche di scene prodotte da una sospensione del fiato onirico o da quel grave nodo di oscurità semantica, riconducibili tanto al simbolismo antico quanto al lessico del pensiero inconscio. La materia cromatica è la potenza, la forma è l’atto. Il pittore è l’entità demiurgica in grado di portare il caos informale al significato di una forma, che già appare parzialmente suggerita.
Le procedure tecniche – quindi le scelte stilistiche – sono originate chiaramente da un atteggiamento estremamente creativo, al cospetto della tela. Ho potuto assistere alle modalità di approccio del maestro al supporto, secondo un criterio che univa tre suggestioni convergenti: il pensiero di Leonardo da Vinci rispetto alla macchia, la lezione del suo maestro d’affresco, Trainini, che riprendeva da pietre, marmi e alberi le figure in essi casualmente disegnate dalla natura e l’automatismo psicanalitico di derivazione surrealista.
L’uso dei colori acrilici, negli ultimi decenni, consentiva al pittore esecuzioni molto rapide, in quanto i tempi di essicazione e di stabilizzazione del colore risultavano nettamente abbattuti rispetto all’uso di pigmenti con legante ad olio. Egli stendeva sull’imprimitura bianca delle tele una sorta di tappeto policromo di acrilici, con la rapidità e la casualità – forse apparente – di chi getta più volte sul tavolo i dadi, utilizzando pennelli di discrete dimensioni e alternando campiture pressoché geometriche a percorsi cromatici sinusoidali.
Ciò che appariva, in prima stesura, era pertanto un quadro astratto – la materia –; l’essicazione rapida dell’acrilico consentiva la realizzazione dell’opera che traeva spunto dai suggerimenti del fondale stesso, dalle figure appena abbozzate che emergevano con casualità dal tessuto pittorico sottostante. Egli pertanto interveniva con un’opera di adattamento o conversione figurativa delle macchie, passando dal caos alla forma, con pennelli più sottili che delineavano le silhouettes dei personaggi o degli oggetti. Generalmente la scelta iniziale della tonalità, come nella musica, dirigeva il dipinto verso una scena drammatica o dell’idillica, giacché i colori più cupi portavano alla notte dei suoi drammi, mentre campiture rosa, celesti, bianche, inducevano alla rappresentazione di soggetti che, in linea con il titolo della mostra, potremmo definire angelici. Sicché ogni figura non nasceva in modo preordinato, secondo uno schema e un canone, ma era suscitata dalla potenza della materia che Di Prata trasformava in atto, cioè in una forma. Nasce da qui la capacitò dell’artista di unire la modernità dell’informale alla pittura di figura alla quale era fortemente inclinato; una visione post-moderna della narrazione, intesa in senso letterario come superamento delle avanguardie, senza la negazione del modernismo e con il cammeo citazionista del passato.
Le immagini conchiuse dalla linea o da una nuova stesura di colore data a corpo si sovrapponevano pertanto al tappeto apparentemente caotico, al quale il pittore, pur con alcuni aggiustamenti, assegnava, la funzione di fondale architettonico
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El Greco, L'apertura del quinto sigillo dell'Apocalisse  c. 1608-1614
El Greco, L’apertura del quinto sigillo dell’Apocalisse
c. 1608-1614

La ricerca della macchia e il proprio orientamento in direzione di un espressionismo fortemente caratterizzato dallo spaesamento surrealista è il nucleo fondante dell’espressione del pittore bresciano ed è l’elemento caratterizzante della maggior parte della propria produzione. La destrutturazione dei dipinti in diversi lemmi iconici consente di leggere con maggior attenzione l’operazione compiuta da Di Prata. Se a livello semantico e strutturale La zattera della Medusa di Géricault risulta, come abbiamo detto, l’episodio visivo fondante per il pittore bresciano – le sue città, le sue rovine, le sue isole caratterizzati dalla presenza di un’umanità sofferente non possono che essere rinviate a quell’archetipo pittorico costituito da un rettangolo in prospettiva, circondato dal mare e dal cielo, caratterizzato dalla presenza di corpi umani sofferenti -, il linguaggio eleborato attorno a questo elemento molto ricorrente si fonda sulla fusione tra astrazione e figurazione, attraverso lo sviluppo del concetto di macchia. Egli quindi parte dall’astratto per giungere al figurativo, spesso transitando per i blocchi informali che rinviano a De Stael, il pittore francese di origine russa al quale Di Prata dedica esplicitamente un dipinto e dal quale trae materia per tutti i dipinti di Agadir e per numerose opere che hanno per soggetto antiche rovine. I più rari quadri aniconici della piena maturità del nostro pittore, sono in fondo paesaggi armonizzati, secondo le linee del francese, il quale si poneva come punto di raccordo tra l’astrazione e la riconoscibilità semantica del segno. Di Prata interviene comunque spesso su questi blocchi paesaggistici che assumono per lui il valore della macchia ed agisce, con grande rapidità, attraverso un pittoricismo che ricorda la stralunata visione dei corpi umani di El Greco, un pittore che, tanto sotto il profilo tecnico – linea o compitura conchiusa attorno al suggerimento della macchia, quanto per la visione drammaturgica della tela, con le sue figure allungate e frementi. Ma, in Di Prata, El Greco, passa attraverso le avanguardie o i grandi maestri del Novecento attraverso figure all’apparenza decoupées come quelle di Matisse o le reinvenzioni picassiane.