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Padova e l'universo pittorico ai tempi di messer Giotto



Riproponiamo un’intervista a Vittoro Sgarbi, compiuta nel 2001, dal vicedirettore dt Stile Arte. Se gli eventi di cronaca – la contingenza di una mostra – vanno lasciati sfumare, restano i dati strutturali posti in luce dal grande critico italiano

intervista di Enrico Giustacchini

Un’opera fondamentale della mostra in corso a Padova – da molti ritenuta “opera-simbolo” della mostra stessa – è la celeberrima “Croce stazionale” di Giotto, tra l’altro di recente restaurata. Può commentarci brevemente questo dipinto?

Non so se la Croce di Giotto possa considerarsi il simbolo integrale di una mostra così articolata, ma è certamente uno dei suoi maggiori capolavori. La sua conoscenza ancora limitata presso il grande pubblico dipende da letture critiche che ne hanno prima contestato l’autografia completa di Giotto, poi ne hanno supposto la posteriorità di circa un decennio rispetto agli affreschi della Cappella degli Scrovegni, al cui interno si trovava prima di essere spostata nel Museo degli Eremitani. In realtà la Croce è opera purissima di Giotto, realizzata in coincidenza del termine degli affreschi Scrovegni, splendida esibizione di pathos teatrale in funzione di icona religiosa. E’ dipinta su entrambe le facce (Cristo morente, Maria e Giovanni evangelista su una, Agnello mistico e simboli degli evangelisti sull’altra), a dimostrazione del fatto che non era appoggiata su una parete. Ad essa s’ispira un’altra piccola Croce d’artista riminese, anch’essa presente in mostra, proveniente dal Vittoriale dannunziano ed esposta per la prima volta a Padova.
Le trenta tavole di Guariento, raffiguranti le Gerarchie angeliche, saranno proposte nell’originale sequenza e all’interno di una struttura che ricostruisce di fatto la Cappella della Reggia Carrarese, per la quale erano state immaginate. Un’occasione per il grande pubblico per meglio conoscere ed apprezzare questo maestro, aperto – nel confronto tra la lezione di Giotto e le culture emiliana, veneta e bizantina – ad una costante evoluzione del proprio raffinato linguaggio. Vuole sintetizzare per i nostri lettori le peculiarità della sua arte?
Il ruolo svolto da Guariento è essenziale nel processo di modernizzazione che investe la pittura del Nord-est italiano durante il Trecento. Il linguaggio di Giotto a Padova era risultato troppo alto perché i pittori attivi fra il Brenta e il Tagliamento, ancora legati ad una koinè tardo-bizantina, potessero adeguarsi ad esso senza problemi. Non è un caso che per circa vent’anni la lezione di Giotto lasci minime tracce in tutto il Veneto. Ci pensano poi due riminesi, Pietro e Giuliano, a riaprire il discorso con le opere lasciate e perdute agli Eremitani, esposte in mostra. Guariento ha l’intelligenza di capire che, per poter essere sviluppata in Veneto, la lezione di Giotto aveva bisogno di confrontarsi con il linguaggio bizantino che dominava a Venezia, ossia nella “metropoli” della regione, cercando non di sopprimerlo, come era avvenuto in Toscana, ma di condividere con esso un gusto comune.
Da questo confronto deriva uno stile raffinatissimo, aulico come piaceva alla famiglia dei Carraresi che di Guariento è stata il principale committente, finalmente in grado di sbloccare quell’impasse fra i fautori di Giotto e quelli della vecchia tradizione bizantina.
L’evento padovano offre ai visitatori alcuni capolavori di una personalità tra le maggiori della pittura del Trecento, Altichiero da Zevio. In lui, l’eredità giottesca si fonde con una sorta di “realismo” tutto padano, sia pure stemperato nella solennità del linguaggio. Si tratta di una caratteristica riscontrabile anche nelle opere esposte?
Le presenze di Altichiero in mostra sono soprattutto fuori dagli Eremitani, nel percorso esterno, in primo luogo presso la Basilica di Sant’Antonio (Cappella Lupi di Soragna) e nello straordinario Oratorio di San Giorgio, vicino alla chiesa del Santo. Certo, Altichiero è forse il maggiore erede della lezione di Giotto in una direzione che potremmo dire “pre-rinascimentale”, realistica e plastica, narrativamente articolata, legata alla riscoperta pre-umanistica della centralità dell’uomo nella storia che il Medioevo teocentrico aveva rinnegato. Si tratta di “realismo padano”, almeno da Altichiero in poi, ma nell’ottica di un linguaggio nazionale, pronto ad offrire il suo apporto alla nascita della pittura quattrocentesca.


Un altro grande artista presente in mostra è Giusto de’ Menabuoi. Nella sua produzione spesso la critica ha individuato un passaggio dall’iniziale influenza di Giotto a quella esercitata su di lui, nelle opere più tarde, da Altichiero. E’ d’accordo con questa interpretazione?
Direi che si tratta di un rapporto reciproco, inevitabile fra due artisti che sono stati fra i maggiori interpreti del realismo giottesco nella direzione “pre-rinascimentale” che abbiamo definito prima. Quando Altichiero si afferma, Giusto, toscano di Lombardia che a Padova lascia i suoi capolavori, aveva probabilmente già realizzato la parte più significativa della sua produzione, ottimo viatico agli sviluppi di Altichiero. Ha però il tempo, come dimostrano gli affreschi della Cappella del Beato Belludi presso la Basilica del Santo, di rinvigorire la sua “pittura d’historia” alla luce delle vivacità narrative che vengono introdotte da Altichiero, astro nascente destinato a scalzarlo nel primato artistico all’interno della scena padovana.
La mostra è arricchita da ulteriori sezioni, non meno interessanti: sculture, oreficeria, codici, monete, documenti, addirittura strumenti musicali contribuiscono a definire il quadro variegato di un’epoca ricca di fascino. Vuole segnalarci qualche pezzo che reputa particolarmente intrigante e significativo? 
So di essere parziale e di fare torto a qualcuno, ma se dovessi indicare due cose in mostra diverse dalla pittura stricto sensu, lo farei per la splendida statua di Enrico Scrovegni che apre la mostra agli Eremitani, originariamente dipinta, opera nell’ambito di un grande scultore come Marco Romano, e per le miniature dell’Antifonario, le più remote delle quali risalenti al 1306, prima trasposizione del repertorio figurativo che Giotto aveva elaborato nella Cappella degli Scrovegni.