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Chi è Mimmo Paladino – Transavanguardia. Intervista e quotazioni gratis


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Riproponiamo un’illuminante intervista a Mimmo Paladino, in quanto l’artista enuclea con estrema chiarezza i contenuti e le origini della sua poetica e del suo stile. In fondo alla pagina, sempre aggiornati, i risultati d’asta internazionali relativi all’autore

di Enrico Giustacchini

Prosegue il nostro viaggio fra temi e protagonisti di uno dei più significativi fenomeni dell’arte italiana ed internazionale degli ultimi decenni: la Transavanguardia. Dopo Enzo Cucchi e Sandro Chia, abbiamo intervistato Mimmo Paladino.

a_1Paladino, la sua è una pittura influenzata dall’arte e dalla cultura dell’antichità, rievocate anche attraverso il recupero di tecniche quali il mosaico e l’encausto…
Non è questione di sguardi, magari nostalgici, al passato. La molla è la curiosità: il voler comprendere, ad esempio, se in una tecnica antica ci sia del nuovo, se utilizzandola possiamo ridestare – appunto – la nostra, personale curiosità. Vi sono momenti, nella storia, in cui l’artista incontra tecniche o materiali che lo affascinano, lo suggestionano, ne influenzano il segno. Il mio interesse verso una forma arcaica è, piuttosto, interesse verso un’idea arcaicistica, alla ricerca delle radici del segno stesso. Prendiamo il mosaico: anche l’Art nouveau ha prodotto mosaici, ma a me appassionano di più quelli paleocristiani. I miei riferimenti vanno a quella semantica, a quella ragione storica risolutiva, più consona ad esprimere un’epoca precisa, un preciso momento.



Il disegno è sempre stato un elemento importante del suo agire artistico. In particolare, sono notissime le sue incisioni. Ritiene che questo mezzo garantisca possibilità espressive altrettanto significative della pittura?
Ricordo lo stupore provato entrando in un laboratorio di grafica: la lastra, il segno che graffia… Io sono un sostenitore della stampa d’arte, nonostante le volgarità fuori luogo che sono state espresse anche di recente. La trovo una forma d’espressione nobilissima, che ha pieno diritto di cittadinanza accanto alle altre. Pensiamo alla lezione di Rembrandt, di Picasso, di Piranesi.
Parliamo ora di scultura. Già alla fine degli anni Settanta, lei ha realizzato quadri sulla cui superficie venivano applicati elementi tridimensionali. Poi è avvenuto il passaggio verso vere e proprie sculture, in legno e in bronzo, tra cui i celebri “Totem”. Può illustrarci in sintesi questo suo percorso?
Io ritengo che certe scelte, anche importanti, nascano spesso da coincidenze. Prima del 1983 non avevo mai pensato alla scultura, mi ritenevo innanzitutto un pittore. Fu visitando una fonderia che rimasi folgorato da quella tecnica, me ne innamorai presto. Un po’ com’era successo, appunto, per l’incisione. Credo che il gusto della scoperta, la voglia eterna di meravigliarsi, rientrino tra le mie attitudini personali. Per fortuna, viviamo una fase storica favorevole, che permette all’artista di essere libero. In precedenza, erano dominanti forme ideologiche che ostacolavano tale libertà. Usare il pennello era considerato un delitto. Imperava questa forma di moralismo, bieco e deleterio. Oggi un giovane artista può esprimersi come crede, in modo multiforme; può realizzare un quadro, un video, un’installazione: qualsiasi cosa, purché – naturalmente – la faccia bene. La discriminante è solo la qualità dell’opera.
A proposito del periodo in cui “usare il pennello era un delitto”. Lei, protagonista di quella Transavanguardia che abbiamo voluto definire – nella nostra inchiesta – come “Rivincita della pittura”, è d’accordo con il suo compagno d’avventura Sandro Chia, che in una recente intervista a “Stile” definiva “triste” l’arte concettuale?
Parlerei piuttosto di un sentimento di spiazzamento, che si è fatto strada al declinare dell’esperienza. Dopo anni, si è cominciata ad avvertire un po’ di stanchezza, non solo del pubblico, ma anche degli artisti, con palesi scivolamenti nell’accademia. Ma non è un fenomeno generalizzato: alcuni autori non hanno mai stancato (facendo propria la lezione del sommo Picasso, che ci ha insegnato la possibilità di un continuo rinnovamento), mentre altri, magari, ci annoiano di più… E’ sempre, torno a dire, un problema di qualità. Quindi, secondo me, “triste” non è l’arte concettuale tout court: “triste” è l’arte fatta male.
Accennavo prima ai “Totem”. Che – esprimendo una religiosità primitiva – introducono ad una delle peculiarità della sua produzione: l’attenzione al rito, sviluppato attraverso immagini allegoriche ed evocative. E’ in tale contesto che si inserisce la mostra in programma a Bressanone, dove le sue opere colloquieranno con i capolavori d’arte antica altoatesina, dal Duecento in poi, ospitati nel Museo Diocesano. Vuole parlarci di questo evento?
Una premessa. Quella espressa da strutture come i “Totem” è definibile, a mio parere, quale religiosità “primaria”, più che “primitiva”. Nata in assenza di edulcorazioni culturali, dalla necessità di una forma immediata. A me interessa questo, convinto come sono che alla base di un’opera d’arte ci sia sempre un’esigenza primaria (ed è per ciò, ad esempio, che, per analogia storica, io “sento” molto certa arte minimal, anche se non la pratico, anche se per tanti versi è distante dal mio lavoro creativo…). Credo al valore fondamentale dell’immediatezza del segno, della forma plastica intesa nella sua primarietà espressiva: quella che riscontriamo sicuramente più in un totem africano che in una statua classica greca. E veniamo alla mostra di Bressanone. Il confronto con le opere del Museo conferma la mia convinzione che non vi siano incomprensibili fratture nel passaggio storico, bensì una continuità innegabile e precisa che caratterizza i rispettivi percorsi artistici. Non c’è sintonia né contrasto: c’è, semplicemente, una comune attitudine a dipingere. Io mi sento più vicino ad un pittore del Duecento che non, poniamo, ad un romantico dell’Ottocento; qui sono… a casa mia. Mi affascina questa grandezza nascosta sotto l’anonimato, mi piace l’umiltà di chi creava senza firmare il suo capolavoro. Sono belle, tali figure di geni sconosciuti.



Concluderei citando una sua frase “storica”: “L’artista, come un acrobata sulla fune, si muove verso più direzioni non perché pieno di destrezza, ma perché non sa quale scegliere”. E’ sempre d’accordo con questo concetto?
A distanza di diversi anni, lo aggiornerei così: “L’artista rimane acrobata, non perché non sa dove andare, ma perché l’arte non può dare certezze”. E del resto, se fosse vero il contrario, non affronteremmo ogni giorno un nuovo dipinto… E’ confortante sapere che, invece, dietro una tela bianca c’è sempre una sorpresa. Come l’arte, così neppure l’artista sa offrire risposte certe. Anche se, ogni tanto, quando la storia lo richiede, c’è chi ci prova: ed è così che nascono i movimenti, le ideologie, i vari -ismi, tentativi di condensare la ricerca entro involucri ideali più precisi. Io, tuttavia, continuo ad amare l’artista che si sente libero di spaziare da più parti. Senza costrizioni ideologiche. Senza confini. (Stile arte, 1 giugno 2002)

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