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Chi era Peggy Guggenheim? Come nacque la casa museo? Il video, il testo analitico


di Mariana L. Cànepa Luna

abbottContinua – nell’ambito del rapporto di collaborazione fra Stile e Guggenheim – il progetto che coinvolge i giovani di tutto il mondo partecipanti all’Internship program nella sede veneziana di Palazzo Venier dei Leoni, invitati a raccontare dalle pagine della nostra rivista il loro percorso, nonché talune attività della Fondazione. L’iniziativa si avvale del costante apporto di consulenza e supervisione dell’operato degli studenti da parte dello staff redazionale di Stile.

Peggy Guggenheim aveva una fede incrollabile, tradotta in un impegno preciso: far conoscere ed amare l’arte contemporanea. Il suo sogno – aprire un museo – poté concretizzarsi per la prima volta nel 1942. In quell’anno, Frank Sinatra debuttava al Paramount Theatre, Pollock dipingeva “Male and female” e Mondrian “Broadway Boogie-Woogie”, i primi soldati americani sbarcavano a Belfast e nella Francia occupata veniva sancito l’obbligo per i bimbi ebrei di portare sempre con sé la stella di David.

Pochi mesi prima Peggy aveva abbandonato proprio la Francia per far ritorno negli Stati Uniti, dove riprese il progetto del museo. Dopo molte difficoltà, finalmente trovò uno spazio adeguato in un attico newyorchese. Per il disegno degli interni, inviò una lettera all’architetto più in voga del momento, l’austriaco-americano Kiesler. Peggy gli chiedeva di “trasformare due sartorie in una galleria dove possano esporre artisti agli esordi della sperimentazione”, dove l’avanguardia europea – in particolare i surrealisti -, rappresentata da Duchamp, Tanguy, Breton, Ernst sarebbe stata affiancata dagli ancora sconosciuti Rothko, Still, Motherwell, Pollock.

Per l’allestimento, Peggy Guggenheim pagò settemila dollari: settemila dollari che le consentirono di “scrivere il suo nome nella storia, non solo per la qualità della collezione, ma pure per il rivoluzionario modo con cui la stessa era proposta”. Secondo il volere di Peggy ed il suggerimento di Kiesler – che già aveva ricorso a tale scelta in precedenti esperimenti -, tutte le opere furono esposte senza le cornici, ritenute una decorazione senza vita né senso.

Il metodo, pur clamoroso, non avrebbe peraltro avuto grandi ripercussioni negli anni a venire, se si esclude il caso dello zio di Peggy, Solomon, e di Hilla Rebay, che nel 1948 contattarono Frank Lloyd Wright manifestandogli l’intendimento di collocare dipinti sulle pareti ricurve di quella che sarebbe diventata la nuova sede indipendente della loro straordinaria collezione.

Kiesler aveva speso gran parte degli anni Trenta elaborando il suo programma estetico; fu però negli anni Quaranta che gli si offrì l’opportunità di realizzare i propri progetti. L’architetto era convinto che la galleria dovesse essere essa stessa un’opera d’arte, e che nell’esperienza artistica il visitatore rivestisse un ruolo attivo, di primo piano.

Egli creò dunque un ambiente organico e trasparente, effettuando cambi radicali nel modo di esibire i lavori, fatti “respirare” in un environment fantastico-surrealista, dove quadri, sculture e ambiente circostante assumevano pari importanza grazie alla coordinazione di strutture, luce, suono e movimento.

Un’integrazione tra arte e vita alla base della dottrina estetica di Kiesler e che diverrà una costante della produzione successiva – si pensi, ad esempio, alla Galerie Maeght di Parigi -, spinta ben al di là dei limiti comunemente accettati dalla museologia. “Art of this Century” – come fu battezzata la galleria-museo – aprì al pubblico il 20 ottobre 1942. Era suddivisa in quattro sezioni, che conosciamo attraverso le fotografie di Berenice Abbott.

Galleria surrealista
Le pareti erano nere (come il soffitto), ricoperte di pannelli ricurvi in legno di eucalipto dove mazze da baseball fungevano da “bracci” per i quadri di Miró, Ernst, Delvaux, De Chirico, Magritte, Carrington. In tal modo i dipinti, in bilico e distaccati dalle pareti, sembravano sospesi.

L’esperienza fisica del visitatore seguiva la teoria dei surrealisti, che Kiesler frequentava e ammirava. Anche per ciò egli aveva installato un’illuminazione intermittente e alternata sui due lati, che considerava “dinamica e fluente come il sangue”, in alternativa all’uso della luce nei musei tradizionali, che dava alle opere “un look di morte”. Lo spirito con cui si agì era di appendere ogni quadro “con la stessa cura di un bambino”.

Speciali effetti sonori – il rumore di un treno che ad intervalli di due minuti pareva avvicinarsi – completavano l’allestimento.
Come sottolineò Clement Greenberg, la galleria ricordava “un gran passaggio sotterraneo”. Non mancavano sedie e panche biomorfiche, disegnate sempre da Kiesler, e che rispondevano a sette diverse modalità di utilizzo, dimostrando la preoccupazione di garantire il comfort del visitatore.

Galleria astratta e cubista
Qui, opere di Kandinskij, Arp, Mondrian, Calder, apparivano bagnate da una forte luce fluorescente. Due delle pareti erano mobili, e somigliavano ad un immenso tendaggio.

Come in un circo, i quadri erano appesi alle corde che pendevano dal soffitto, quasi a galleggiare nello spazio, sorretti da colonne invisibili. Kiesler stabilì una continuità fra il pavimento turchese, le pareti azzurre ed il tetto, offrendo la sensazione di “nuotare sul fondo marino”.
Lo spazio poteva fungere pure da temporaneo auditorium, dove un centinaio di persone trovavano posto su comode sedie, azzurre anch’esse.

Galleria cinetica
Nel corridoio, due grandi ruote mostravano in sequenza, attraverso un foro all’altezza degli occhi, sette opere di Klee e quattordici riproduzioni di “Boîte en Valise” di Duchamp. Il sistema era azionato mediante una fotocellula.


Un terzo “oggetto cinetico” era costituito da un contenitore con un “object-poème” di Breton. Certa stampa battezzò questa sezione, un po’ spregiativamente, “Coney Island”; molti critici furono invece concordi nel ritenerla uno spazio di avanguardia, connotato da elementi di innovazione mai sperimentati prima. Accanto alle due sale principali, ne esistevano altre due, più “tradizionali”: pareti bianche, finestre coperte con stoffa che filtrava la luce naturale.

Fu qui che Peggy iniziò il suo ruolo di promotrice di giovani artisti, aprendo tali spazi, ad esempio, a Jackson Pollock.
In conclusione potremmo dire che la filosofia che muoveva “Art of this Century” era quella di favorire il dialogo tra il pubblico e l’opera. Come disse il critico Manny Farber, “ciò che Kiesler fece, fu togliere la cornice dai quadri e i quadri dalle pareti… Nell’assenza di cornice e pareti, il visitatore poteva capire l’immagine, vederla per ciò che era”.

In quei difficili anni di guerra, Peggy rese possibile, grazie alla sua galleria, l’incontro fra gli stili dell’avanguardia e le nuove tendenze del “downtown”, poi raggruppate sotto il nome di “Espressionismo astratto”.

Organizzò le prime mostre personali di maestri quali Arp, De Theo, Van Doesburg, Pollock, Baziotes, Rothko, Motherwell, Cornell; il primo show di collage mai verificatosi negli Stati Uniti, “Spring Saloons”; importanti eventi di arte al femminile e dell’infanzia.

“Art of this Century” era un luogo che – scrisse David Hare “dava l’opportunità di esibire, di vedere ed essere visto… Peggy ti appoggiava, e ciò era vitale”. Oggi, è possibile ammirare la quasi totalità delle opere, un tempo esposte al museo newyorchese, a Venezia, nella stupenda sede di Palazzo Venier dei Leoni, che s’affaccia sullo scenario magico del Canal Grande.

Chi era Peggy Geggenheim,  biografia per immagini

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