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Otto Dix, Woman on a Leopard Skin, 1927, Cornell University
Otto Dix, Woman on a Leopard Skin, 1927, Cornell University

Otto Dix (Gera, 1891 – Singen, 1969) è stato un pittore tedesco, tra i principali esponenti della “Neue Sachlichkeit” (Nuova oggettività). Realizzò i dipinti più violenti, stravolgenti e incisivi durante gli anni della Repubblica di Weimar. Come un Goya del Novecento raccontò il sonno della ragione che genera mostri, dipinse la guerra e la morte al fronte, i reduci storpi che si aggiravano nella Germania del dopoguerra, le deformità della bruttezza, il rapporto tra eros e morte, oltre a numerosi ritratti e autoritratti che realizzerà per tutta la vita.

di Enrico Giustacchini

[“U]na parola d’ordine ha ispirato negli ultimi anni un’intera generazione di artisti: ‘Creare nuove forme espressive’. Dubito che sia possibile. E se vi fermate davanti ai quadri degli antichi maestri o vi sprofondate nello studio di nuove creazioni mi darete certamente ragione. La novità in pittura, secondo me, consiste nell’allargare la scelta dei soggetti, sviluppando le forme espressive già adottate dai maestri antichi”.

aperturadixA scrivere ciò, nel dicembre del 1927, è Otto Dix. Che ribadirà, di lì a poco: “Creare nuove forme espressive è difficile per ogni artista, a qualunque tendenza appartenga. Non è detto che quello che egli considera nuovo sia nuovo davvero. Basta pensare alle pitture ritrovate recentemente in Egitto, che rivelano una sorprendente somiglianza con la pittura contemporanea oggi considerata rivoluzionaria. Comunque, la vera arte tenderà sempre a creare espressioni che oltrepassino il quotidiano. Quello che era nuovo migliaia d’anni fa oggi è vecchio, eppure è ancora nuovo. Come si fa a capire dove finisce il vecchio e incomincia il nuovo, o quando le nuove forme espressive sono superate da forme ancora più nuove?”.
Il pittore tedesco ha all’epoca trentasei anni, e un passato da avanguardista. A Dresda, dove egli aveva frequentato la Scuola di Arti applicate, si era costituito ed aveva operato sino al 1911 Die Brücke, il mitico gruppo espressionista. Nel 1913 Otto aveva avuto modo, nel corso di un viaggio in Italia, di conoscere il Futurismo. Dipinti e disegni che raccontano la sua drammatica esperienza sui campi di battaglia durante il primo conflitto mondiale contengono palesi rimandi ad entrambi i rivoluzionari movimenti.
Al ritorno dal fronte, con altri giovani artisti aveva fondato la Dresdner Sezession – Gruppe 1919. “Noi, i radicali di Dresda – recitava il manifesto – abbiamo dato vita a una secessione. Vi appartengono coloro che a Dresda hanno da fare qualcosa in quanto espressionisti”. L’esperienza aveva tuttavia goduto di una fortuna breve, anzi brevissima, ed era stata travolta dall’avanzata di altri modelli di riferimento. “Dix si legò strettamente a George Grosz, Raoul Hausmann, John Heartfield, Rudolf Schlichter – rileva Tulliola Sparagni nella monografia edita da Mazzotta -. Questo gruppo si muoveva già verso il superamento delle posizioni e delle utopie espressioniste, in un’ottica pienamente dadaista, e a questa vena corrosiva, se non sovversiva, Dix si adeguò ben presto, tanto che il periodo ‘cosmico’ – caratterizzato da forme semplificate e quasi astratte e da una forte allusività simbolica – può dirsi terminato già sul finire del 1919. Il dipinto Il marinaio Fritz Müller da Pieschen, con il suo umorismo kitsch e gli inserti a collage, rappresenta il ponte tra il momento uranio, celeste (anche dal punto di vista cromatico) delle creazioni del 1919 e i lavori del 1920, come Prager Strasse, I giocatori di skat,
Il maniaco sessuale-Autoritratto, impregnati di spirito dadaista. Le immagini di mutilati, mendicanti, assassini e bordelli, e gli assemblaggi di carte, stampati e fotografie tra il grottesco e il macabro esprimono la carica nichilista e antiborghese del Dadaismo”.
Nel 1920, Dix aveva partecipato alla Erste internationale Dada-Messe di Berlino. E due suoi quadri, Mutilati di guerra (con autoritratto), poi distrutto dai nazisti, e Macelleria, erano stati giudicati, con Germania-Una fiaba d’inverno di Grosz, le opere-chiave della storica manifestazione.
Ma era tempo di girare un’altra volta pagina. Anche la fase dadaista andava precipitosamente eclissandosi, e Otto, dedito con sempre maggior frequenza al ritratto, scopriva i classici. Bisogna dire, a onor del vero, che si trattava piuttosto, per lui, di una riscoperta. Come avrebbe ricordato quasi alla fine della sua vita, in un’intervista rilasciata nel 1965 a Maria Wetzel, “i miei dipinti d’esordio, del 1912-13, hanno uno stile severo che si riallaccia a Cranach e al primo Rinascimento. Non c’era la ricerca di atmosfera degli impressionisti… volevo ottenere una forma come quella del Mantegna: dura e solenne”. Nell’agosto 1918 aveva profeticamente annotato nel suo diario: “Ciò di cui avremo bisogno in futuro è un naturalismo ostinato e impassibile, un’intensa veridicità, virile e senza errori, come quella di Grünewald, Bosch e Bruegel”. Nel 1919, già ventottenne e nel culmine del fervore espressionista, aveva avvertito l’urgenza di un tuffo nella tradizione, e si era iscritto all’Accademia.
Ora, però, era arrivato per lui il momento delle decisioni forti, e forse irrevocabili. Il clima era quello giusto, e non solo in Germania: in tutta Europa si riapriva il dialogo con la pittura antica, con la pittura dei grandi maestri. Un semplice ritorno all’ordine, per molti; una lezione da assorbire e rielaborare nella ricerca di nuove vie di modernità, per qualcuno.
Dix aveva intelligenza e talento sufficienti per scegliere di appartenere al secondo gruppo. Sapeva che gli sarebbe stato necessario ripercorrere il cammino dai fondamenti, in umiltà: a cominciare dallo studio della tecnica – recuperando magari l’uso della tempera grassa stesa a velature, o della tavola lignea in sostituzione della tela – che si fa elogio del mestiere, passando per le opzioni tematiche (le allegorie, ad esempio) e per le modalità dell’architettura compositiva (i trittici).
I pittori di riferimento erano, in primis, quelli della sua terra: i già citati Cranach e Grünewald, poi Altdorfer, Holbein, Baldung Grien – così intensamente evocato che Grosz ribattezzerà scherzosamente l’amico e collega “Hans Baldung Dix” – e, soprattutto, Albrecht Dürer.
Spalleggiato da cotali giganti, Otto entrava da par suo nell’ondata multiforme e gagliarda di quel movimento – ma sarebbe forse meglio definirlo un’atmosfera, una sensibilità – che aveva assunto la denominazione di Neue Sachlichkeit, Nuova Oggettività. Da par suo, ovvero da protagonista assoluto, capofila – con Grosz – dell’“ala verista” della tendenza che, manifestatasi già attorno al 1920, avrà la sua piena consacrazione cinque anni dopo, con la mostra di Mannheim a cui il Nostro parteciperà con dodici quadri, riscuotendo uno straordinario successo.
Otto Dix, oltre che un artista ormai famoso, era un finissimo uomo di cultura, di cristallina onestà intellettuale. Aveva la consapevolezza di essere debitore – lui, implacabile narratore di storie e di cronache realiste – ad una stagione pittorica antica ma eterna, felice e terribile insieme. Del resto, per dirla con Elena Pontiggia, il realismo espresso dai seguaci di Neue Sachlichkeit “è un realismo che avverte in modo lancinante il mistero della realtà. Sottratta al fluire dell’esperienza, l’immagine rivela un aspetto inspiegabile, una domanda che non trova risposta” (La Nuova Oggettività tedesca, Abscondita). Certo Dix non rappresenta un’eccezione in proposito. Cosicché – tra richiami arcaici e inquieti brividi di attualità – non stupisce constatare, davanti ai suoi dipinti, come “anche nelle figure più sguaiate e sfatte si avverta l’eco disperata, la versione postribolare della Venere di Dresda, delle allegorie e dei memento mori del Rinascimento nordico”. E Otto l’onesto paga il proprio debito. Lo paga scrivendo, in quel mese di dicembre del 1927, le frasi che abbiamo riportato all’inizio. Asserzioni pesanti come pietre. Definitive.
“Una parola d’ordine ha ispirato negli ultimi anni un’intera generazione di artisti: ‘Creare nuove forme espressive’. Dubito che sia possibile. E se vi fermate davanti ai quadri degli antichi maestri o vi sprofondate nello studio di nuove creazioni mi darete certamente ragione…”.
E’ in perfetta coerenza con la sua “confessione” che le opere di Dix si pongono in relazione con la pittura del passato. Numerose fra esse, sottolinea Tulliola Sparagni, “escono dal contemporaneo per entrare in un tempo-spazio sospeso e innaturale”. Un capolavoro del 1930 quale Melancolia, ad esempio, deliberatamente ispirato alla celeberrima Melencolia I düreriana, concentra in sé “molte suggestioni tematiche, care all’autore, che derivano dal suo confronto con l’arte dei secoli XV, XVI, XVII, come il motivo della vanitas, dell’inesorabilità della morte, della finzione di essere e apparire, del temperamento saturnino emblema dell’artista”.
Tra il 1927 e il 1933, Otto Dix vive stabilmente a Dresda, dove aveva compiuto, come si è detto, i propri studi e dove già aveva risieduto in modo saltuario tra il 1919 e il 1921. E senza dubbio i tesori pittorici e architettonici della “Firenze del nord”, da lui indagati a fondo, ne influenzano non poco la produzione.
In Germania, però, il vento sta intanto cambiando. Con la salita al potere del Nazismo, per Dix cominciano gli anni bui. Una delle ultime grandi allegorie a sfondo politico che porta a conclusione, Il trionfo della morte, del 1934, è un tributo all’affresco trecentesco, dallo stesso titolo, eseguito da Buonamico Buffalmacco per il Camposanto di Pisa. Presto all’artista è impedito di esporre in patria, e 260 sue opere vengono rimosse dai musei della Germania. Egli è di fatto costretto a dipingere ritratti su commissione, quadri con episodi biblici e, soprattutto, paesaggi, in cui si coglie l’eco di un altro maestro tedesco del passato, Caspar David Friedrich. “Sono stato esiliato nel paesaggio – lamenterà in seguito. – Ora ne ho visto così tanto che non mi interessa per niente. Uomini, uomini, molto di più”.
Nel dopoguerra, riacquistata la libertà creativa, Otto Dix torna ai soggetti preferiti, senza abbandonare peraltro la tematica religiosa, che esercita su di lui un enorme fascino. L’ultimo periodo della sua vita è amareggiato dalle polemiche della critica occidentale (ma anche di là dal Muro sarà spesso guardato con sospetto): critica che, in epoca di astrattismo dilagante, attacca il vecchio maestro, ironizzando sul realismo “eclettico” di colui che qualcuno ha definito sprezzantemente il “Cranach del proletariato”.
Dix reagisce da leone: “Sono contrario agli informali, che dipingono con la scopa” dichiara, furibondo. E lavora, inarrestabile, sino alla fine (morirà nel 1969), nonostante una paralisi alla mano sinistra. Fedele alla sua idea di una pittura che parte da lontano per arrivare lontano.


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