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Sarto d’artista


di Enrico Giustacchini

maestro_guido_bosiGuido Bosi, il sarto degli artisti. Guido Bosi il grande collezionista. In questa duplice, indissolubile veste ti accoglie nel suo atelier al numero 3 di via Farini, in pieno centro, proprio tra le cosce di mamma Bologna, per dirla con Guccini. C’è, nell’atelier, quell’atmosfera fervida, riverberante i sentori buoni della creatività, quel disordine un po’ folle e un po’ saggio che sempre accompagna l’espressione dell’estro. Così, tra grucce, rotoli di stoffe e manichini dechirichianamente addobbati da abiti in gestazione, ancora segnati dalla bava larga e altalenante dell’imbastitura, occhieggia una mirabile galleria di opere di maestri del Ventesimo secolo: da Klimt a Chagall, da Braque a Man Ray, da Fontana a Morandi; e poi Capogrossi, Pomodoro, Pistoletto, Scanavino, César, Matta, Pignon, Schifano, Tápies… E l’atelier conserva solo una parte della collezione di Bosi, il resto è racchiuso entro le mura della sua abitazione. Molti di questi artisti sono, o sono stati, clienti ed amici del celebre sarto. Per ognuno di loro, c’è un episodio, un aneddoto, una storia da raccontare.

Matta, ad esempio. Matta mi ha dedicato una sorta di trittico. Il primo pezzo è intitolato “Bosicultura”; il secondo, “Bosibosando”; il terzo rappresenta il sottoscritto mentre infilza i suoi spilli nel fracchettino di un cliente tutto intimorito… Un’opera divertente, ricca di ironia.
E questo “Ferro da stiro”, scultura in ferro di Man Ray?
E’ un pezzo molto importante, ed emblematico. Man Ray mi commissionava dei completi, così come Miró e Capogrossi.
Capogrossi è stato uno dei suoi migliori amici, non è così?
Di più. Andavo a trovarlo a Roma, e lui mi diceva: “Vorrei avere un figlio come te. L’avevo conosciuto ad Albisola, negli anni in cui Albisola era un centro fondamentale della cultura internazionale. Lì mi accostai a Lam, Fontana, Scanavino… e fu lì che nacque la mia passione per l’arte. Grazie anche a Gualtieri di San Lazzaro.
San Lazzaro era il direttore del mitico “XX siècle”.
Già, ed aveva una famosa galleria a Parigi. Il suo sarto era lo stesso di Picasso: un sarto italiano, che fece fortuna rifilando al maestro catalano magliette alla marinara e pantaloni di velluto a coste. In cambio, si faceva regalare dei disegni. Quando Picasso venne a sapere che l’altro non aveva alcuno scrupolo a rivendere quei suoi regali, andò in collera e ruppe con lui. Evidentemente, neppure San Lazzaro era molto soddisfatto delle prestazioni del mio collega, tant’è che – incontrandomi proprio ad Albisola – chiese a me di confezionargli alcuni abiti. Da quel momento, iniziò tra di noi una profonda comunanza intellettuale. E’ stato per suo tramite che ho potuto conoscere numerosi protagonisti dell’arte del Novecento.
Può farci qualche nome?
Giacometti, ad esempio. Me lo presentò a Parigi. Come pure Chagall: pranzammo insieme in occasione dell’inaugurazione della mostra che la capitale francese gli aveva dedicato per il suo ottantesimo compleanno. Mi sembra ancora di vederlo, Chagall: un ometto piccino, con due occhiettini vivacissimi e irrequieti… In seguito frequentai pure la figlia del maestro, Ida, che in casa aveva alcuni tra i maggiori capolavori del genitore. Non mi era troppo simpatica, lei, a onor del vero: rammento l’espressione infastidita con cui accolse i miei apprezzamenti per un dipinto di Matisse che, dalla parete, teneva compagnia alle opere paterne.
Un’altra frequentazione da ricordare è quella di Fontana.
Fontana mi commissionò la prima volta una giacca scozzese. Quando mi recai a casa sua, lo trovai fuori, mentre dava del pane a un gruppo di merli, che gli zampettavano attorno. Mi fece entrare nello studio, tappezzato da quadri tutti bianchi. Mi pagò con uno di quei quadri: bianco, appunto, con quattro tagli. “Quanto costa la giacca?” mi chiese. “Centosettantamila lire.” risposi. “Un quadro così io lo vendo a trecentomila.” osservò. Ci pensò un istante, poi: “E va bene.” concluse “Sei un bravo ragazzo, te lo do, e siamo a posto così.” Tempo dopo, vado a casa di Schifano. In quel periodo, Schifano era già stregato dalle immagini Tv. Teneva sempre il televisore acceso, e fotografava tutto quanto compariva sullo schermo. Ci mangiammo insieme un piatto di maccheroni, e mentre mangiava continuava a scattare foto. Ad un certo punto, ecco che trasmettono un’intervista a Fontana, probabilmente l’unica intervista televisiva mai rilasciata dall’artista. “Guarda Fontana!” mi dice Schifano. Guardo, e vedo che Fontana indossa una giacca scozzese, inconfondibile. “E’ la mia giacca!” grido “La mia giacca!”
Artisti a parte, lei ha lavorato e lavora per tantissimi personaggi noti. Nell’ambito della musica – von Karajan, Muti -, del teatro…
Oh, sì, anche in questi ambiti posso annoverare molte persone care. Strehler, per primo: Giorgio era un fratello, per me. Sono stato io a “convertirlo”, convincendolo a smetterla di vestire sempre e solo di nero. Un diffuso settimanale dedicò un servizio alla… svolta strehleriana, intitolandolo “Il regista del regista”. Una definizione lusinghiera, per me, e che fece sorridere il regista, quello “vero”. Un altro grande amico è stato Walter Chiari. Mi torna alla mente un aneddoto gustoso. Un giorno Walter venne qui, in atelier, per provare un abito: ma per errore infilò i calzoni di un altro cliente, di corporatura assai più piccola e tozza della sua. Eccolo così capitarmi davanti con le brache che gli arrivavano ai polpacci, mormorando con aria imbarazzatissima: “Scusa se mi permetto, ma sai, non mi sembra che questi siano i miei pantaloni…”.
Guido Bosi, come ama definirsi? Uno stilista?
No, la parola stilista non mi piace. Preferisco essere definito, semplicemente, un sarto. Un sarto che fa il suo lavoro con capacità e passione. Un sarto che ama i tessuti, anche i più rari, anche quelli oggi dimenticati. Sono un collezionista di tessuti: da me si trovano stoffe preziose, persino stoffe che si usavano quarant’anni fa. Da me si trova il cashmere di Harrison’s, il cashmere più bello del mondo.
Quanto incide la passione per l’arte nell’arte di un grande sarto come lei?
Moltissimo. Non è affatto disgiunta dal mio lavoro. Anzi, al mio lavoro consegna una maggiore attenzione al gusto cromatico e formale. Consegna una sensibilità diversa, più profonda. Che è un’eredità davvero non trascurabile.