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Stefania Massaccesi – Quadri come romanzi esplosivi




Stefania Massaccesi compie una ricerca approfondita che passa, clamorosamente, attraverso la pittura. Abbiamo incontrato l’artista, che suscitò il grande interesse di Federico Zeri – il quale disse: “I quadri mi hanno assai colpito. Ne sono rimasto non poco impressionato, sembrano sogni folli” -, nell’ambito di un percorso dedicato agli autori contemporanei.
La storia e il presente: la sua pittura si misura molto spesso con la sovrapponibilità degli strati del tempo, in una metafisica sincronia tra il lontano e il vicino. Al punto che, nei suoi dipinti, si dischiude uno spazio molto vicino al concetto di visione, intesa come chiaroveggenza, come sensibile recupero di tante storie che si intrecciano nello stesso contesto architettonico. Da dove nasce e come si sviluppa questo acutissimo sentire? Il sentimento del tempo è sempre presente in tutta la grande pittura, tanto che in base alla sua classificazione potrebbero distinguersi classi di pittori. Esistono pittori del momento (Vermeer), del continuum (El Greco), del limite (Van Gogh), dell’al limite (Bosch). Per chi sappia penetrare nel profondo i grandi fino al secolo appena concluso, i concetti come spazio e tempo si sovrappongono e si integrano. Evidentemente, il loro studio, assieme a quello della musica (soprattutto barocca), ha connaturato in me queste dilatazioni spaziali e temporali. La struttura della musica barocca, Bach in primis, mi ha stimolato verso una multidirezionalità tanto della forma quanto psichica.
La dimensione del racconto come capacità di penetrare nel cuore della storia. E una drammatica teatralità che rilegge lo sviluppo di un percorso che parte da Caravaggio. Cosa ha significato per lei il realismo barocco? E quanto il teatro entra nella sua produzione artistica? Le mie ossessive processioni perforano secoli di storia: l’esaltazione della mediocrità, la sordità delle masse verso la cultura, l’iperbole della superstizione, non sono che scandagli che trovano nel riferimento al linguaggio barocco la massima efficacia espressiva. La mia superata teatralità potrebbe essere retaggio del mio passato musicale lirico.
Una fuga coraggiosa dall’arte delle Biennali. In Italia regna il biennalismo, che si sviluppa come fenomeno di importazione. Subiamo i modelli americani, nel momento in cui l’elaborazione dei principali linguaggi artistici si è spostata sull’asse newyorkese. Che significa tornare in questo modo clamoroso alla pittura, dimenticando la linea delle mode culturali? Sono arrivata all’arte attraverso tappe che giudico indispensabili, glissando le facili scorciatoie, conformiste, per apparire attuali senza avere nulla da dire. L’inquisizione dell’occhio è connaturata alla mia natura, inflessibile e crudele quanto un tribunale medievale. Ho sempre visto l’arte americana come una pittura da Far West: non avendo nulla da perdere (in quanto priva di tradizioni), ha potuto osare tutto, anche ciò che con l’arte non ha nulla da spartire. La Biennale di Venezia non è, nelle sue linee portanti, che il fatiscente riverbero di ciò che accade oltreoceano. Una tendenza cui si associano tristemente pretenziosi spettacoli concettuali, che trovano cantori di inarrivabile analfabetismo. Per definizione, concettualismo e arte non possono coesistere. La filosofia del gregge non può che identificarsi con l’atrofia del pensiero. Ogni arte è peculiare del mezzo che la rappresenta: per la musica il suono, il colore per la pittura, lo spazio per la scultura e l’architettura.
Come nasce un suo quadro? Dipinge dal vero, utilizzando modelli? Quanto conta il confronto con la realtà? Per andare oltre il vero, utilizzo tutti i mezzi possibili. Disegni e pittura dal vero, foto e anche computer. Trasfigurare la realtà è l’unica mia istanza.
Passiamo a un particolare tecnico. Lei sceglie tele di grossa trama, giungendo a una pittura che, nell’insieme, suggerisce gli esiti di una visione lenticolare della realtà. Ci può raccontare, sotto il profilo eminentemente tecnico, come si sviluppa il dipinto? Anzitutto da uno studio di pura astrazione. Da cui prende avvio una dialettica costante di realismo e forme geometrico-astratte, pittura non pittura, contrasti al limite. Una costruzione dell’opera basata su sottili meccanismi di semitoni cromatici. La trama della tela, della distanza, è l’unico espediente per ottenere una vibrazione ottica.
Bergman diceva che ogni film nasce da un’ossessione, da un pensiero che torna con frequenza e che diventa ineludibile, fino al momento in cui prende la forma del racconto. Quali sono le sue ossessioni che si trasformano poi in segmenti narrativi? Un incubo costante di realtà irrimediabili. Dipingerlo è l’unico modo per tenerlo a bada, sia di giorno sia di notte.
Il ritratto è un capitolo importante nell’ambito del suo percorso. Che significa, oggi, questo genere? E come vi si accosta? Raramente posso realizzare il mio ritratto ideale. Nessuno desidera vedere il suo lato oscuro (introspezione psicologica); né tantomeno la visione che ho dell’umanità.
Se dovesse dividere in capitoli la storia della sua espressione, come li definirebbe e quali sono le strade tematiche che intende intraprendere? Un primo periodo di incomunicabilità, e un secondo, imminente, in cui rinuncio a comunicare. L’idea delle bambine in cucina è dovuta al presentimento che dopo il post-moderno non possiamo che aspettarci il post-umano. Le ragazze, cui ho già sottratto quel sentimento visibile, concettualità e espressionismi, saranno finalmente angelici androidi.
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[PDF] Come romanzi esplosivi



STILE ARTE 2007