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Su questa tavoletta il pensiero di Giotto


di Alessandra Zanchi

giotto31Il Museo Amedeo Lia, aperto al pubblico dal 1996, è nato nel 1995 grazie all’imponente donazione dell’ingegner Lia, industriale pugliese naturalizzato spezzino, e della sua famiglia al Comune della Spezia. La collezione è a dir poco strepitosa quanto a varietà e qualità delle opere: quadri, miniature, sculture, reperti archeologici e “objets d’art” di tutti i generi, con una cronologia che dall’epoca classica al tardo antico giunge al medioevo e all’età moderna. Tra i capolavori ci sono dipinti di Pietro Lorenzetti, Bernardo Daddi, Vincenzo Foppa, Antonio Vivarini, Gentile e Giovanni Bellini, Tiziano, Tintoretto, Magnasco, Canaletto. E di grande interesse sono alcuni quadri con attribuzioni autorevoli che sono tuttavia motivo di continua disquisizione tra gli studiosi. Una di queste è la tavola con “San Giovanni Battista e committente”, che è stata esposta nel 1999-2000 nella mostra fiorentina dedicata a Giotto. L’opera, singolare per la sua storia e per le qualità pittoriche, è ancora un caso aperto in merito ad una precisa datazione e attribuzione a Giotto stesso o alla sua bottega.

Chiediamo ad Angelo Tartuferi, vicedirettore della Galleria dell’Accademia di Firenze e ideatore della mostra, di parlarci di questa preziosa tavola.

Può raccontarci brevemente la vicenda storica dell’opera, entrata a far parte della collezione Amedeo Lia della Spezia?
La tavola del “San Giovanni Battista” è avvolta da un certo mistero, perché comparve improvvisamente nel 1963 grazie a Roberto Longhi, che ne segnalò la presenza in una collezione privata parigina. Il mistero è comprensibile trattandosi di un frammento che potrebbe essere di una predella, piuttosto che di un tabernacolo o di uno sportello di altarolo portatile. Difficile dirlo con sicurezza. Tuttavia, l’evidenza della figura del committente rende più probabile l’ipotesi del gradino di una predella d’altare. Presente in altre collezioni francesi fino al 1985, l’opera entrò poi nella Collezione Lia e quindi nel Museo Civico.
A proposito, invece, della vicenda critica, cosa ne pensa della questione dibattuta dagli studiosi sulla datazione dell’opera: fu eseguita nel secondo decennio del Trecento – secondo l’ipotesi forse più diffusa – o alla fine del secolo, come sosteneva Zeri?
La datazione non è mai facile con Giotto e la sua cerchia. Gli studiosi, da Longhi a Boskovits a Bonsanti, fanno riferimento a quella fase giottesca incline al Gotico che coincide con il periodo degli affreschi della Basilica inferiore di Assisi e che si lega al “Trittico Stefaneschi” della Pinacoteca Vaticana e al “Polittico di Santa Reparata” di Santa Maria del Fiore a Firenze, eseguiti da Giotto e bottega intorno alla metà del secondo decennio del Trecento. Zeri, che considerava invece queste due opere più tarde, collocava ovviamente anche la tavoletta Lia verso il finire del secolo.
Quali sono gli elementi storici e stilistici a supporto delle due ipotesi?
La veste e il copricapo marroni del committente sono di una tipologia comune nei primi decenni del Trecento: e sicuramente la stesura dolce e sfumata, fluida e decisamente goticheggiante, che accomuna la tavola del Museo Lia alle altre due sopra citate, rende plausibile l’ipotesi della prima datazione. Al contrario, la fase finale del percorso giottesco è quella stilisticamente affine alla Cappella Bardi di Firenze e ad opere come il “Polittico con San Paolo” della National Gallery di Washington o come il “Santo Stefano” del Museo Horne di Firenze. Opere caratterizzate non tanto da uno stile sfumato ma piuttosto da una compattezza formale e da una evidente solidità delle forme: si pensi anche alla “Incoronazione Baroncelli”, che apre la strada allo stile di Maso di Banco.


Può dirci qualcosa in più sul legame dell’opera con le altre due tavole raffiguranti il Battista attribuite a Giotto e bottega: l’una parte del Trittico Stefaneschi e l’altra del Polittico di Santa Reparata?

E’ il “San Giovanni Battista” l’elemento di congiunzione stilistica, per via di quel nuovo modo di interpretare la figura, meno aspro rispetto agli esempi del primo Trecento. In anni recenti, inoltre, questo gruppo di opere è stato collegato a miniature, attribuite al Maestro del Codice di San Giorgio e datate intorno al 1315, che segnalano esattamente la diffusione di un’immagine più “morbida” del Santo: le miniature del “San Giovanni Battista” sulla coperta dello Statuto dei Monetieri di Firenze o quella, individuata da Andrea De Marchi, raffigurante il “San Giovanni Battista” nel “Gradale D” ora in Santa Croce in Gerusalemme a Roma. E questo collegamento rafforza ulteriormente l’ipotesi della datazione tra il 1315 e il 1320.
Veniamo allora all’attribuzione dell’opera. La mostra di Firenze si è chiusa con l’assegnazione della tavola alla Bottega di Giotto. Allo stato attuale degli studi, ci sono nuove ipotesi che possano ricondurre il dipinto più direttamente alla mano del maestro?
Consideriamo innanzi tutto che sulla qualità del pezzo è molto difficile non essere d’accordo. Zeri per primo sottolineava elementi significativi e importanti tipici delle opere giottesche. E mi riferisco a quegli aspetti che riguardano l’impostazione e la definizione spaziale. La cornice esterna è caratterizzata da una fine strombatura che si inserisce come elemento tridimensionale tra lo spettatore e il dipinto; la figura del Battista in piedi è posizionata in tralice, sopra uno stretto davanzale, e lo sfondo è di una tinta indefinita tra il verde e il marrone, con minuscoli puntini neri a suggerire l’idea di una specchiatura marmorea. Caratteristiche che si ritrovano nel più simile “Polittico di Santa Reparata”, con la figura dipinta entro una nicchia con nembrature marmoree. Stlisticamente si ravvisano alcune differenze rispetto alla produzione di Giotto, ma non ci sono dubbi sul fatto che l’idea compositiva e il pensiero che governa la “regìa” si debbano far risalire al maestro. Il problema è stabilire “quanto” l’opera, e in particolare quella del Museo Lia di cui stiamo parlando, è di Giotto. E questo è indefinibile. In realtà la critica di oggi non è più ossessionata come cinquant’anni fa dal concetto di autografia. Perché oggi sappiamo come avveniva il lavoro dell’artista e della sua bottega di collaboratori.
Non è allora possibile dare un giudizio sicuro?
Direi che non è più produttivo ormai distinguere tra “Giotto e bottega” e “Bottega di Giotto”, anche se mi rendo conto che per il pubblico psicologicamente può esserci una differenza, perché si pensa che la seconda definizione escluda la presenza del maestro. In realtà è evidente che dietro l’opera ci sia la mente di Giotto, ma quanto ci sia stata fisicamente la sua mano poco importa. Magari ne tracciò il disegno, e poi continuarono i suoi allievi. L’importante è ricondurre l’opera ai giusti termini storici, senza cadere in una filologia capziosa che gli americani chiamano scherzosamente “attribution game”: filologia tipica nell’Ottocento ma inadeguata nel nostro secolo. La cosa certa è che il “San Giovanni Battista e committente” è stato eseguito con la migliore costruzione prospettica possibile per quei tempi, e che l’unico in grado di ideare una costruzione simile, all’epoca, era Giotto.