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Tiziano, l'enigma dell'autoritratto



di Lionello Puppi

Abbiamo narrato l’avventura complicata e la sorte miserevole degli affreschi impalcati da Tiziano, da Marco Vecellio, figlio dell’amato cugino Toma Tito, e dal fedele discepolo tedesco Emanuel Amberger sulle pareti del coro e del presbiterio della chiesa arcidiaconale di Pieve di Cadore.
Non si trattava della sola opera consegnata dal maestro alla sua patria: né – ovviamente – alludo alla ben nota paletta con la Vergine e il Bambino tra i santi Tiziano e Andrea e l’autoritratto del pittore, conservata proprio negli spazi ricostruiti di quell’arcidiaconale, provenendo dalla vecchia chiesa destinata alla demolizione, messa in salvo dalla famiglia Jacobi sin dal 1764 e restituita con una convenzione siglata nel 1841. E opera
– s’aggiunga – problematica e senza alcun dubbio significativa: già il Vasari, infatti, ne aveva contezza e la rammenta nel profilo biografico di Tiziano allegato all’edizione giuntina (1568) delle Vite, non sappiamo se informato dallo stesso pittore nell’occasione del breve incontro tra i due a Venezia, nel maggio del 1566 o da Cosimo Bartoli, agente mediceo presso la Serenissima, che, sin dal
15 dicembre 1563, prometteva allo storiografo aretino di “mand[argli] una nota” “delle cose di Titiano” e, in effetti e come a buon diritto Charles Hope sospetta, fu il principale oracolo del summenzionato profilo biografico.
Ricordata ancora nella Vita del Vecellio edita senza indicazione della paternità del suo autore (Giovanni Mario Verdizzotti?) dal Tizianello nel 1622 e da Carlo Ridolfi ne Le Maraviglie dell’Arte (1648), dovette, dunque, esser stata dipinta all’avvio degli anni Sessanta e per la cappella di famiglia, costituendo pertanto – essa sì: non gli affreschi eseguiti tra 1566 e 1568 e sbriciolati tra 1809 e 1810 -, con la convocazione del ritratto di sé, indizio di un’intenzione, da parte del maestro, di trovar sepoltura nella sua Pieve.
Conviene, piuttosto, in quest’occasione insistere sul dono di proprie opere elargito da Tiziano al cugino Vecello Vecellio a titolo di ringraziamento per i buoni uffici che il congiunto aveva interposto, o s’accingeva ad interporre, nei complessi rapporti che intratteneva con la Magnifica Comunità: un “quadreto di Adonis”, già pronto e recapitato attraverso il figlio Orazio, giusta la lettera del 24 maggio 1562 – che abbiamo già citata in un precedente intervento su Stile – e uno di “nostra dona” “che si atend[eva] a fornir” a quella data. Ne apparirà un altro, come vedremo tra poco, ma, prima, non sarà ozioso soffermarsi un momento sulla personalità del destinatario, per meglio focalizzarci, quindi, su quella del figlio, omonimo del pittore e, per distinguerlo, designato col predicato di “l’Oratore”.
Parente alla lontana di Tiziano, Vecello Vecellio fu efficientissimo e ben remunerato mercante del legname ed esponente di spicco della Comunità cadorina, della quale fu cancelliere, ed a lui spetta l’ammodernamento – includente la decorazione ad affreschi di grottesche scene pastorali e iscrizioni d’ardua decifrazione, la cui paternità non è ancora stata chiarita, così come la cronologia oscillante entro il settimo decennio del Cinquecento – della residenza gentilizia, nota come “casa di Tiziano l’Oratore”, oggi in fase ultimativa di restauro ed eletta a sede della Fondazione Centro Studi Tiziano e Cadore: che, in materia, sta concretamente costruendo l’ambizione di costituire il necessario punto di riferimento internazionale (e chi vuol saperne di più veda www.tizianovecellio.it).

Ma quella decorazione, intanto: se conferma l’amore e il gusto della buona pittura in Vecello, attestati dal dono d’opere sue da parte di Tiziano, è pensabile che potesse esser stata affidata a figura estranea (e, poi, nella congiuntura, quale?) al congiunto celeberrimo? Sì che ritenerla eseguita, magari su qualche spunto grafico del maestro – e lo proponiamo senz’altro in questa sede, con la riserva di tornarci sopra -, da Marco Vecellio ed Emanuel Amberger durante i mesi in cui li intratteneva lassù l’impegno nell’arcidiaconale, non pare affatto fuor di logica.
Il figlio di Vecello, il futuro “Oratore”, era da poco rientrato in Cadore per esercitarvi il notariato, oltre che per affiancare il genitore nell’attività commerciale e sostituirlo ai vertici del governo della Comunità; nato nel 1538, s’era per tempo trasferito in Udine e poi a Venezia a concludervi gli studi giuridici e praticar l’avvocatura, ma ne aveva anche frequentato il bel mondo e si vuol che avesse intrecciato una storia d’amore con la bellissima Irene, figlia del nobile friulano Adriano da Spilimbergo e di Giulia da Ponte che l’aveva iniziata alla poesia: cui ella si dedicava con esiti già sorprendenti (Tiziano
– il pittore, ovviamente -, legato d’amicizia alla madre e ad esponenti della sua famiglia, la ritrasse, o concorse a ritrarla, nel discusso dipinto oggi conservato a Washington), quando, di soli diciannove anni, perdeva la vita.
Dotato di naturali, straordinarie capacità di comunicazione e ben addestrato nelle sottigliezze della retorica sì da guadagnarsi sul campo la fama che gli varrà il soprannome di Oratore, dalla Capitale aveva importato a Pieve non solo vezzi alla moda quali il gioco del pallone, ma un bagaglio di solide relazioni con esponenti del patriziato e del governo della Serenissima che lo avvantaggeranno allorché si troverà a dirimere, in qualità di cancelliere della Comunità o di suo ambasciatore a Venezia, delicate controversie; e famoso, tra l’altro, resterà il discorso che recava alle supreme venete Autorità le gioiose felicitazioni dei Cadorini per la vittoria sui Turchi a Lepanto e che otterrà il riconoscimento della dignità di stampa, guadagnando al suo autore il titolo prestigioso di cavaliere di San Marco (Titiani Vecelli / Equitis / Pro Cadobriensibus / ad Sereniss[imum] Venetiarum Principem / Aloysium Mocenicum Oratio / Habita VI Kalend[is] Januarii / MDLXXI / Pro magna navali Victoria Dei gratia / contra Turcos, Venetiis, Guerrei, 1571).
Intellettuale raffinato – sì da poterlo agevolmente ritener ispiratore del programma iconologico degli affreschi problematici decoranti la casa rinnovata dal padre, e che diverrà sua dimora -, fu in corrispondenza con numerosi tra i maggiori letterati e uomini di cultura del suo tempo, le cui condoglianze per la morte sopravvenuta il 10 ottobre 1612, furono raccolte in un volume dato alle stampe dai torchi del Deuchino nel 1621 a Venezia: un tributo negato al pittore, sull’evento della cui scomparsa cala un silenzio strano e inquietante (Antologia / overo/ Raccolta di fiori / Poetici / In morte del M[ol]to Ill[us]tre / et Ecc[ellentissi]mo Sig[nore] / Titiano Vecellio / di / Cadore / Cavaliere et Oratore; il registro manoscritto dei componimenti trovasi presso la Biblioteca Archivio della Magnifica Comunità di Pieve).


L’Oratore ebbe carissimi i quadri – “di Adonis” e di “nostra dona” – regalati al padre dal grande congiunto, col quale, anzi, aveva intrattenuto rapporti quanto basta cordiali da meritarsi alla sua volta il dono, come vedremo subito, di un terzo dipinto (o così sembra). Ravvisiamo, a prova, sulla base del testamento dettato il 24 luglio 1610 (e tuttora inedito presso l’Archivio della Magnifica Comunità di Cadore a Pieve), che il Nostro s’era preoccupato d’assoggettare a vincolo fidecommissario, insieme ad altri mobili, quelle pitture ed una ancora – il regalo, appunto, ricevuto personalmente dal suo autore? – indicata come “ritratt[o] dal naturale del […] celeberrimo signor Titiano Vecellio pittore”, sicché tale condizione continuava a valere anche quando, con rogito del notaio Michele Vecellio del 2 aprile 1625, i figli Alessandro, Vecello e Quinto addivenivano alla spartizione dell’eredità dividendone i beni (l’inventario è stato pubblicato dal Fabbro) in tre “colonnelli”, nel terzo dei quali ricadeva il “quadro di pittura che rappresenta la favola di Venere et Adone” e nel secondo l’autoritratto di Tiziano e “un quadretto con l’immagine di Nostra Donna che tiene il suo figliolo Gesù Nostro Salvatore in braccio”.
A dispetto del vincolo, i dipinti a Pieve non rimasero a lungo: un secolo, suppergiù, tenendo conto di indizi suggeriti dal solito Jacobi. Ma quale ne è stata la sorte? Sopravvivono da qualche parte? Di Venere e Adone, com’è ben noto, esistono numerose versioni, variamente assegnate ad integrale paternità del maestro o a lui affiancato dalla bottega: all’interno di una siffatta produzione, Crowe e Cavalcaselle non escludono che l’opera donata a Vecello Vecelli nel maggio 1562, passata all’Oratore e confluita nella sua eredità, possa riconoscersi nella redazione del tema allora (1877) ad Alnwick in Scozia e oggi, se non m’inganno, nel Metropolitan Museum di New York.
Ma l’iter dei precedenti di collezione accertati (dai Barberini ai Camuccini) lascia perplessi, non meno che le dimensioni (cm 167×133) che contrastano con l’indicazione di “quadreto” nella succitata presentazione del regalo. Questa, semmai, converrebbe al dipinto, peraltro (ma, a mio giudizio, con eccessiva severità) ritenuto copia dal Wethey e altri studiosi, che fu in Herewood House a Leeds (cm 64,8×75) ma è andato disperso all’asta di Christie’s del 2 luglio 1965.
L’identificazione della Madonna col figlio comporta non minori difficoltà, e piacerebbe fantasticare che sia sopravvissuta nella squisita redazione di quel soggetto che sta oggi nella National Gallery di Londra.
L’Autoritratto, alfine: che ci inoltra nel ginepraio delle rappresentazioni autonome che Tiziano ci ha dato di sé – voglio dire e per intenderci alla buona, non inserite in un contesto narrativo -, e si aggroviglia attorno ai capisaldi, mai revocati in dubbio, dell’immagine ricordata dall’Aretino nel 1550 e tramandataci dalla celeberrima incisione del Britto, e dei dipinti, non meno famosi, ora a Berlino e al Prado: laddove io sono convinto che alcune cose, forse troppo frettolosamente liquidate come copie d’epoca o del primo Seicento d’originali perduti, siano viceversa uscite dall’atelier del maestro, da lui stesso impostate, e con la sua benedizione. La spinosa questione avrà un suo adeguato spazio di trattazione nella grande mostra che Belluno dedicherà a Tiziano dal 15 settembre; basterà qui, dunque, adombrarne la complessità proprio attraverso l’enigma della sorte toccata all’Autoritratto che fu a Pieve di Cadore nella residenza dell’altro Tiziano.
Un “pasticciaccio brutto”, per cominciare. Il 26 giugno 1733, Osvaldo Zuliani scrive al cognato Alessandro Vecellio (la lettera, come le altre che citeremo qui di seguito, è stata edita dal Ticozzi nelle Vite dei pittori Vecellio, 1817, e ne ignoriamo, purtroppo, l’eventuale ubicazione oggi), per ribadire la frode di cui sarebbe stato vittima. Il quadro – e, contestualmente, apprenderemo esser l’Autoritratto tizianesco pertinente all’eredità dell’“Oratore” – che, riposto in una cassettina, aveva portato a Venezia per sottoporlo al giudizio di esperti (che intendeva interpellare su un altro dipinto, una Madonna che si ritrovava da tempo immemorabile presso di sé), gli era stato inopinatamente e con sotterfugi sottratto, e altro non sa. Gli risponde seccamente, il 9 luglio, il congiunto: anzitutto, non doveva, lo Zuliani, rimuovere l’opera dalla sua casa, non essendone autorizzato benché suo procuratore: non si trattava, infatti, di cosa di poco conto ché, così fosse, “non sarebbe ora collocata nella galleria del granduca [di Toscana], né sarebbe stata venduta per le doppie dugento come ne [ha, lui, Alessandro Vecellio] i riscontri”. Si dia da fare, quindi, affinché il quadro “sia restituito agli altri registrati de’ fidecommisso”.
Se non conosciamo il seguito dell’affaire, disponiamo, tuttavia – sempre attraverso il dossier reso pubblico dal Ticozzi -, di uno dei documenti in virtù dei quali l’accusa del Vecellio poteva inappellabilmente “essere testificat[a]”.
“Il signor Marchetto Rizzi [idest, s’intende, il pittore Marco Ricci] di Belluno”, essendosi portato a Valle di Cadore, raccontò del “maneggio” con Osvaldo Zuliani perché sottraesse il quadro “alla casa Vecellia ché gli avrebbe” fatto dare “per esso, dal Granduca, quello avesse voluto”.


E così fu: lo Zuliani portò “al detto pittore” il dipinto, chiedendo duecento doppi che il Ricci dichiarò di far subito sborsare al granduca: ch’era, dunque, l’ultimo dei Medici, Gian Gastone (1723-1737). Una nuova sfornata di documenti, di lì a poco, introduceva però nella vicenda dell’Autoritratto disorientamento e confusione: e si trattava del carteggio scambiato dal predecessore di Gian Gastone, Cosimo III (1670-1723), con Francesco Schilders, suo agente in Anversa, tra il 5 febbraio 1676 e il 14 settembre 1677 (nove lettere edite nella Nuova Raccolta… di Michelangelo Gualandi nel 1845).
Su quel mercato, in effetti, era apparso un “[auto]ritratto di Tiziano […] pinto in tela attaccato sopra tavola […] sul quale un altro maestro ha agregato quasi altrettanto, cioè ingrandito della metà”, e il Granduca, sebbene l’“ingrandimento” gli spiaccia, non esita: accertata l’autenticità, lo Schilders lo compri senz’altro, ma, dopo esserselo assicurato, eviti di staccare la tela dal telaio.
Acquistata “per terza mano” e cento “pataconi”, l’opera giungeva, per la via di Colonia, a Firenze nel settembre del 1677. E dunque? A complicar le cose, concorreva la scarsa, o nulla, visibilità espositiva data al ritratto pervenuto nel 1733, sì da indurre taluni studiosi (gli stessi Crowe e Cavalcaselle, per esempio; e se non mi inganno) ad immaginare l’esistenza di un solo dipinto – che, rocambolescamente, appare, scompare e riappare -, quello proveniente da Anversa: che i citati Crowe e Cavalcaselle, con Fischell, Richter, altri, ritengono autografo, o realizzato con la collaborazione di Marco Vecellio, assai vicino alla redazione di Berlino e non estraneo all’incisione pubblicata da Agostino Carracci nel 1587. In realtà, i due autoritratti esistono, ciascuno con la propria storia esterna, che li accomuna nel destino dell’approdo a Firenze, dove, presso gli Uffizi, si trovano entrambi, come ha chiarito Wethney: l’uno su tavola, con l’effigiato a mezzo busto (cm 66×49) e l’altro su tela, con l’effigiato a mezza figura (cm 77×63).
Ma qual è, per esprimerci così e se è ravvisabile, il grado d’autografia (che non esclude il contributo dei collaboratori) dell’uno e dell’altro? Rimandiamo la risposta, problematica, alla mostra bellunese, sopra annunciata.
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