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Accoltellato il figlio di Tiziano. Tre moventi per un crimine. Investigare nel mondo dell'arte



di Lionello Puppi

lotto-ritrattoduomoconzampadoroAll’avvio di marzo del 1562, Orazio Vecellio, “figliuolo di misier Titiano”, rivolgeva supplica agli “illustrissimi et eccellentissimi Capi dell’eccelso Consiglio de X” affinché gli fosse concessa “licentia di poter portare le armi con un [suo] servitor per questa città et per ogni altro luocho dello Stato […], per difesa della vita” sua. La otteneva il 20 di quello stesso mese, con una risicatissima votazione favorevole: sappiamo bene, del resto, che, quanto a concedere il porto d’armi a privati cittadini, le autorità veneziane preposte alla pubblica sicurezza erano quanto mai parsimoniose (e che, poi, in ispecie nel dominio di Terraferma, troppi di tanta severità s’infischiassero, è un altro discorso…).
Sta di fatto che i Capi dei Dieci concedono al postulante che, “per defencion della persona sua, possa portar l’arme con un servitor apresso di sé in questa città nostra, come in qualunque altra città et luogo nostro”, alla condizione di segnalare il nome del “servitore” e ogni spostamento. Evidentemente, avevano ravvisato né pretestuose né fasulle, ma concrete e attendibili le motivazioni addotte dal figlio prediletto del gran Tiziano, il quale aveva invocato il diritto alla legittima difesa contro “le insidie” che poteva ordirgli Leone Leoni, lo scultore celeberrimo ma più rissoso di Caravaggio, ben noto alla Giustizia della Serenissima, che in effetti lo aveva bandito dalle terre dello Stato, per aver fatto attentare, quasi vent’anni prima, nel 1544, alla vita dell’allievo Martin Pasqualigo che lo aveva accompagnato a Venezia ma si era poi rifiutato di venirsene via con lui.

Tiziano ritrae se stesso ,alla nostra sinistra, il figlio, al centro e il nipote, a destra
Tiziano ritrae se stesso ,alla nostra sinistra, il figlio, al centro e il nipote, a destra

Ma perché Orazio temeva? Nella supplica ai Capi dei Dieci, lo specifica, chiaro e tondo: perché, “già doi anni”, allorché si trovava a Milano “per riscoter bona suma di denari”, il Leoni lo aveva aggredito, infliggendogli “sète ferite per amazar[lo]”, ed era riuscito a cavarsela solo grazie al ricorso al vescovo di Brescia – Domenico Bollani, amico del padre e suo – che gli aveva procurato “fidata scorta d’huomini”; e lo avevano prelevato e protetto sino a Venezia.
Non mente, Orazio; quell’assalto, quel ferimento erano davvero accaduti, e sappiamo anche quando e dove, il 14 giugno 1559, e proprio nella casa del Leoni, un edificio donato allo scultore da Carlo V nella contrada “de Moroni” che, all’epoca, non aveva ancor goduto degli interventi di rinnovamento che lo trasfigureranno nell’attuale, impressionante evidenza del “palazzo degli Omenoni”.
Ma cosa aveva scatenato la furia di Leone? E’ fuor di dubbio, infatti – e l’abbiamo premesso -, che il caratteraccio del personaggio fosse quello che era, ma occorreva pur un detonatore che glielo facesse esplodere, e par viceversa difficile riconoscerlo, trovarlo; né, a tal fine, per dirla tutta, gli studiosi, sia dei Vecellio che del Leoni, si son dati da fare più di tanto, accettando ora questa ora quella fra le versioni dei fatti disponibili. Ma si dà il caso che, non solo siano testimonianze espresse dall’una delle due parti in causa – quella offesa; l’altra tace: o, meglio, come vedremo, lavora in silenzio perché ci si metta un sasso sopra, e non se ne parli più -, ma appaiono ora reticenti, ora contraddittorie. Sono documenti, e dovrebbero parlar chiaro; e, invece, no: eludono, cancellano, sottendono. Vediamoli.


 
Tordi in gabbia
e colpi di pugnale
Il primo è il verbale della deposizione rilasciata al Capitano milanese di Giustizia il 15 giugno 1559 – che era il mattino dopo, dunque, il ferimento – da Orazio, disteso sofferente a letto in una camera dell’albergo all’insegna del Falcone (“in lecto prostratum in camera quadam superiore in hospitio signi Falconis”), ed è carta pubblicata dal Cadorin nel 1833 che, oggi, sembra irreperibile. Orbene, il figlio di Tiziano dichiara che, trovandosi a Milano “sono qualche giorni”, ed avendo preso alloggio al Falcone, il Leoni, suo “amico et come padre”, l’aveva invitato a trasferirsi a casa sua, e l’invito era stato accolto: c’era rimasto suppergiù un mese ma, avendolo, nel frattempo, accostato un’“Eccellenza” – in cui potremmo riconoscere Consalvo Ferrante di Cordoba, duca di Sessa e governatore di Milano – impegnandolo a “lavorar de ritratti”, e mancando la casa del Leoni della “discretione” necessaria ad eseguir quel compito, aveva deciso di trasferirsi là vicino (“lì a Sant’Andrea”).
Mentre (“hieri sera circa l’Ave Maria”) i servitori stavano effettuando il trasloco dei “ritratti” e Leone ed Orazio stavano seduti ad osservare dalla sala da pranzo, un tordo in gabbia, spaventato dal trambusto, aveva preso a “sbattere” ed il secondo s’era alzato per deporre il suo mantello sulla prigione del povero uccelletto affinché si chetasse; ed ecco che, senza proferir parola, il primo gli si avventa contro colpendolo col pugnale due volte al viso, e ripetutamente ancora mentre tentava di fuggire. Gli si era unito il figliastro Alessandro al grido di “dàgli, ammazza, ammazza” e, a malapena, Orazio era riuscito a riparar nella casa prossima di un medico, tal Cademosto, che, con altri gentiluomini accorsi, lo traeva in salvo. E invoca giustizia, il disgraziato; chiede che siano escusse le testimonianze. Ma al magistrato interessa, prima, capire le ragioni dell’aggressione: le indichi, il Vecellio, che le sappia o le presuma (“qua de causa id fecit vel eam presumit”). E la risposta – lo vedremo – è una mezza verità; meglio, una verità nascosta. “Io non posso pensare in altro, se non procede da qualche invidia vedendo lui ch’io ero amato da Sua Eccellenza”. Il duca di Sessa, quindi; il governatore.
L’altro documento è costituito dalla lettera che Tiziano invia addirittura a Filippo II invocando giustizia, la più severa, nei riguardi del “più scelerato huomo del mondo”, del reo di mille delitti “enormi”, del “falsario di monete” condannato dal duca di Ferrara al rogo da cui solo il diavolo l’aveva scampato, dell’“inimico di Dio”. La missiva, di qualità letteraria molto sostenuta (a redigerla sarà stato il nuovo, giovane segretario Giovanni Mario Verdizzotti), è datata 12 luglio 1559, e si trova presso l’Archivo General de Simancas. Orazio doveva essere rientrato a Venezia da poco, ed aver a viva voce raccontato al padre l’incidente; tuttavia, lo scenario cambia e muta anche il racconto dello svolgimento dei fatti. Orazio è a Milano in luogo di Tiziano stesso, che vi era stato chiamato dal duca di Sessa per riscuotere gli arretrati delle pensioni gravanti sulla Camera, ma, “mezo infermo” e, soprattutto, impegnato a finir pitture commissionategli dal sovrano, aveva preferito delegare il figlio, il quale, giunto nella capitale lombarda e dopo “l’haver ispedita alcuna faccendetta” – facciamoci caso -, s’apprestava a ritirare il denaro: ed ecco che il Leoni lo invita a casa sua, “sapendo […] della essatione di tali provvisioni” e “mosso da diabolico istinto”, per assassinarlo e “per torgli il danaro”.
Poi, quando, garbato e sorridente, Orazio rinunzia all’ospitalità e s’appresta al congedo, il ribaldo decide d’anticipare il “pensato assassinamento”, avventandosi, assecondato dal figlio e da alcuni suoi scherani, “con le spade e coi pugnali nudi in mano”, sul malcapitato giovane: che, a malapena, riesce a porsi in salvo, grazie anche all’aiuto prestatogli da “un servitore, che era con lui” e stava allontanandosi per portar “fuori di casa […] certi quadri”.
 
Ospitalità violata
e servette compiacenti
Annotiamo puranco codesto dettaglio prima di passare ad esaminare gli ultimi due documenti. Si tratta di carte redatte – all’evidenza di svariate notazioni interne – parecchio tempo dopo l’increscioso episodio; persino successivamente – stimo – alla supplica di Orazio per il rilascio del porto d’armi: e sono costituite da una minuta di lettera di Orazio ad una “Excellentia” – la cui identificazione, stavolta, non ci sentiamo di ipotizzare – e da un esposto, redatto in terza persona, di circostanziata ricapitolazione dei fatti e alla minuta, malgrado la giunta di qualche nuovo dettaglio, chiaramente correlato (la prima, inedita, sta nella Biblioteca “P. Bertolla” di Udine; il secondo, oggi irreperibile, fu edito dal Cadorin). Oggetto d’entrambe è l’opportunità della concessione del perdono al Leoni, richiesta da varie parti con pressante insistenza, ma considerata con grande perplessità dall’interessato.
I due documenti concordano con l’affermazione di Tiziano nella lettera a Filippo II testé commentata, essersi recato Orazio a Milano per riscuotere, giusta accordi finalmente presi, crediti da tempo dovuti: e aggiungiamo, adesso, che la circostanza è confermata da altre fonti, a cominciare da uno scambio di lettere di figlio e padre fra marzo e giugno 1559. Concordano pure sull’ospitalità accordata dal Leoni nella propria dimora ad Orazio che, appena giunto a Milano, aveva preso alloggio nell’albergo del Falcone. Se, in più, l’esposto sottolinea l’eccellente rapporto intrattenuto dai Vecellio con il Leoni, enfatizza l’aiuto da loro offertogli allorché fu a Venezia, richiama l’episodio del ferimento del Pasqualigo per insinuare che l’insofferenza per la protezione a costui poi prestata possa essere stata tra i motivi dell’assalto ad Orazio (oltre che una tresca di questi con una serva di casa Leoni e il furto del danaro): entrambe le carte convergono però su un dato mai esplicitamente sollevato dagli altri documenti, ma cripticamente alluso.
Non solo per la “essatione” delle “provisioni” dovute, Orazio s’era recato a Milano: ovvero, visto che c’era, s’era portato appresso “quatordeci pezzi di pitture” (meglio: “14 pezi di quadri di picture”) per commerciarli con i “Signori di quella Corte”. Li aveva esibiti, per cominciare, al governatore, il duca di Sessa: il quale, non solo s’era offerto di comprarli tutti, ma aveva chiesto ad Orazio di ritrarlo a figura intera; e l’una cosa e l’altra erano state fatte (ma del ritratto si sono perdute le tracce). Quei quattordici pezzi (saranno stati di non grande formato se risultano ceduti per mille ducati, ma ne ignoriamo i soggetti) dovevano però esser giunti a Milano arrotolati, e il duca pretendeva che gli fossero recapitati incorniciati. Orazio arruola così un “maestro de legnami”, presso il quale ordina che le tele siano trasportate: ed è precisamente nel corso di codesto trasloco che il Leoni assalta il giovane Vecellio, mentre, tranquillo e ignaro, assisteva al viavai trastullandosi col tordo in gabbia.
E’ – pare evidente – lo scatto sconsiderato, ma in qualche guisa comprensibile (non giustificabile, certo), di un iracondo che non sopportava di vedersi sfilar via sotto il naso quei “pezi di quadri” su cui qualche pensiero doveva aver fatto; e, forse più: richieste insistenti ad Orazio affinché, se non tutti, qualcuno almeno gli fosse ceduto, e giocando la sicura carta dei buoni rapporti, sino a quel momento e nonostante tutto, intrattenuti con i Vecellio. Sappiamo bene, a riprova – obliqua, se si vuole, ma rilevante -, che lo scultore aretino fu accanito collezionista d’opere d’arte, e di pitture in ispecie.


I silenzi di Orazio
e la sparata di papà
Non conveniva, però, ad Orazio, anzi sconveniva, confessare all’ufficiale di Giustizia che lo interrogava intorno alle cause della violenza, che l’ira del Leoni era scattata all’interno di una faccenda di smercio di quadri portati all’uopo da Venezia a Milano; e men che mai in quanto il traffico coinvolgeva un potentato del calibro del duca di Sessa, da cui, tra l’altro, dipendeva il buon esito delle trattative per riscuotere gli arretrati delle pensioni paterne. Ed ecco che allude a “ritratti” generici, cose fatte da lui a Milano, e li rammenta giusto e solo per disegnare
– diciamo così – la scena dell’assalto.
Né a Tiziano conveniva tirare in ballo quegli scottanti “pezi di picture” rivolgendosi a Filippo II che, magari, avrebbe voluto saperne di più e, comunque, non avrebbe gradito che fosse data risonanza al disinvolto traffico mercantile che di sue opere andava facendo il gran pittore cui aveva dato manifesta e solenne predilezione. Glissa, pertanto, su “alcuna faccendetta” per denunciare, a capo di un’abilissima requisitoria, ove in crescendo sono enumerate tutte le precedenti malefatte del Leoni, un tentativo di omicidio a scopo di furto. Che è sparata talmente grossa da lasciarci interdetti, quantunque appaia ripresa più tardi da Orazio che, però, si fa premura di mescolarla col suggerimento d’altre motivazioni, a cominciare dai mai sopiti rancori per la faccenda del Pasqualigo. E quei quattordici quadri vengono fuori solo assai più tardi, quando, forse, il richiamarli non era più così scottante o, meglio, non se ne poteva proprio più fare a meno. E, tuttavia, vengono fatti entrare in scena, e uscirne, anonimamente, e senza che ci venga detto, con parole esplicite, perché.
In tanta bagarre, non sarà sfuggito – stimo – il silenzio, che viene quasi da dire assordante, della controparte. Il Leoni, infatti, apparentemente tace, ma non è difficile immaginare che, scultore cesareo qual era stato, ambito dalla corte spagnola, protetto dal terzo duca d’Alba, Alfonso Álvarez de Toledo, brigasse nell’ombra presso i suoi potenti amici e committenti affinché fosse estorta ad Orazio una parola pubblica di perdono che avrebbe messo una pietra sopra sul malaugurato incidente.
Ma v’è un altro silenzio ancor più rumoroso perché, quasi, ostentato: quello di Filippo II. All’accorata lettera di Tiziano che gli chiedeva giustizia, non risponde; peggio: platealmente la ignora, ed il Maestro, che sprovveduto non era, capisce il messaggio talché, quando tornerà a rivolgersi al “Rey”, il 22 settembre 1559, si preoccupa innanzitutto di professargli la propria incondizionata devozione, e la protesta per l’offesa cruenta sofferta dal figlio viene relegata alle ultime battute e dopo la roboante affermazione di voler essere per l’Asburgo ciò che Apelle fu per Alessandro. Sempre senza riscontro, l’appello ad un atto di giustizia affiorerà, più flebile, in una missiva del 24 marzo 1560; e vi si smorzerà. Orazio, frattanto, si arrovellava se concedere o no quella dichiarazione di perdono che non gli piaceva affatto; e dovevano essere persino minacciose le esortazioni a rilasciarla se, nella sospensione e ad ogni buon conto, inoltra ai Capi dei Dieci la supplica da cui abbiamo preso avvio.
Si è adombrato addietro che ignoriamo – e non sapremo probabilmente mai – il soggetto delle quattordici pitture cedute al duca di Sessa: se possiamo agevolmente ritenerle confezionate dalla bottega e timbrate dal Maestro, non è da escludere che replicassero opere dipinte per Filippo II e le corti d’Asburgo, nella logica produttiva che la mostra tizianesca in corso a Belluno ha cercato di documentare. Mentre resta palese l’impressionante, persino torrenziale, iperattivismo di un atelier impegnato a contentare committenti e clienti d’alto lignaggio, ma anche a nutrire un più capillare ed esteso commercio di quadri.