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Turner e le incredibili manie dei pittori tonali




Perfezionisti, fino all’esasperazione. Un pittore tradizionale generalmente sviluppava una sensibilità tale al colore da estenuarsi in continui spostamenti del dipinto – con mutamenti lievi degli accordi cromatici, in linea con le mutate condizioni di luminosità -, affinché esso raggiungesse un’unità cromatico-tonale, in qualsiasi condizione di luce.
Ciò significava che nessuna parte dell’opera doveva apparire – se non volutamente o ricercatamente – contrassegnata da una luce irreale o da un verde troppo acceso o da un azzurro del cielo che non si vaporizzasse nelle ombre o nelle parti emergenti alla luce.  Soltanto successivamente alla prova di congruenza di tutti gli accordi cromatici, l’opera poteva considerarsi conclusa. I più esigenti valutavano – nel corso di importanti esposizioni – anche gli effetti che dipinti esposti accanto al proprio avrebbero esercitato sulla tela sia per il lieve riverbero delle opere vicine che per l’impatto visivo che i dipinti contigui avrebbero provocato sullo spettatore. Così accadeva che gli ultimi ritocchi avvenissero nel museo o, come nel caso di Turner, che il quadro fosse addirittura portato nelle sale espositive della Royal Academy di Londra in forma di abbozzo e qui concluso, a ridosso dei giorno di apertura della mostra.

Legarsi all’albero di un’imbarcazione in balia di una tormenta per assistere direttamente agli effetti del vento flagellante o trascorrere un lungo viaggio in treno con la testa fuori dal finestrino per ammirare la pioggia cadere e mescolarsi con il vapore emesso dalla locomotiva non sono le sole – apparenti – bizzarrie che emergono dalla biografia di William Turner.
Racconta Isabelle Miller in Capolavori incompiuti. Il gusto dell’imperfetto, che il pittore era solito presentarsi alle rassegne che lo vedevano come ospite portando tele appena abbozzate. Scelta singolare ma che trova un fondamento tutt’altro che banale.
Nel XIX secolo, infatti, i dipinti esposti in occasione di importanti mostre venivano collocati in vasti saloni, l’uno accanto all’altro e posti su sette, otto file in altezza, come ben mostra Johann Zoffany, contemporaneo di Turner, nel quadro La tribuna degli Uffizi. (qui sotto)

Oltre a ciò, era uso che i pittori non fossero a conoscenza dell’effettivo allestimento fino al vernissage, pochi giorni prima dell’apertura dell’evento, momento nel quale veniva stesa sulle superfici la trasparente vernice finale e gli artisti, in alcuni casi, intervenivano – rischiosamente – con aggiustamenti, lumeggiature od ombre per correggere la propria opera.
Nel 1835 Turner invia alla British Institution un abbozzo che un collega dell’epoca definisce “uno scarabocchio di colori vari, senza forma né fondo, come il caos prima della creazione”. Il mattino della vigilia, William entra in sala, osserva la collocazione dell’abbozzo e, mentre gli altri definiscono gli ultimi particolari, con veloci pennellate realizza l’intero quadro, L’incendio del Parlamento. La galleria diviene, così, all’improvviso un atelier, in cui il pittore tiene conto della luce del luogo – ottimizzando i colori per quella precisa esposizione – e dei colori dei quadri che sarebbero stati affiancati al suo. Il tono, infatti, vibra di una luce diversa a seconda del colore dominante dell’ambiente e dell’influenza di percezione indotta, ad esempio, dalla presenza di altri quadri accanto.

Tre anni prima, al vernissage del 1832 alla Royal Academy,  l’artista s’era avveduto che la sua ‘Città di Utrecht’ prende il mare,  (qui sotto) ricca di tonalità scure, soffriva particolarmente della vicinanza a L’inaugurazione del ponte di Waterloo di Constable, dipinto cromaticamente molto vivace. Decise allora sul momento di aggiungere un puntino rosso nel mezzo del mare grigio. Sconcertato Constable disse “E’ venuto e ha sparato un colpo di fucile”. Due giorni più tardi tornò in sala e terminò l’elaborazione della sagoma rossa trasformandola in una boa, quella che vediamo nel dipinto, qui sotto

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