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Ugo Valeri, cantore dell’inquietudine


di Francesca Baboni

x_9[“H]a invaso una, due, tre salette con la foga ch’è la caratteristica del suo temperamento, ha inondate le pareti di disegni, pannelli, quadri, pastelli, schizzi ad olio; ha messo insieme impressioni dal vero, fantasticherie, illustrazioni di libri, scene còlte per le strade, aspetti di vita mondana, composizioni tragiche, satiriche, ironiche, spasmodiche di riso e di pianto. Non ci avessero offerto altro per le sale della Permanente, basterebbe la raccolta di Valeri per metterci in condizione di proclamare che esse hanno raggiunto lo scopo per le quali furono aperte. La collezione del Valeri rappresenta una delle più memorabili affermazioni di artisti negli ultimi dieci anni.”Così scriveva entusiasta il critico d’arte Gino Damerini nel 1909 dalle colonne della “Gazzetta di Venezia”, consacrando questo giovane artista che alla mostra d’autunno di Ca’ Pesaro, coinvolto dall’entusiasmo di Marinetti, aveva presentato una personale di sessanta opere senza alcuna manifestazione di progettualità estetica ma con quella fervente foga giovanile che non poté mai placarsi e sfociare nella maturità più piena perché morì nell’ebbrezza del suo desiderio impaziente. E di questa inquieta frenesia, la stessa che risucchiò tutta la vita e l’arte di inizio secolo, viene definito il disegnatore perfetto, il solo che riesca ad esprimerne lo spirito con la sua opera complessa e travagliata, precorritrice dei tempi a venire; un artista audace e scapestrato, ribelle ed inquieto, che suscitò subito l’entusiasmo e l’ammirazione dell’allora Direttore di Ca’ Pesaro e arguto critico Nino Barbantini e che trovò la fine della sua carriera nel 1911 a soli 38 anni, cadendo da una finestra di quello stesso Palazzo che lo aveva portato al successo appena due anni prima.Ugo nasce a Piove di Sacco nel 1873, secondo di tre figli tra i quali il fratello a lui più caro Diego, una delle voci più delicate della poesia del Novecento; nel 1888 si trasferisce con la famiglia a Padova, dove segue studi classici terminati i quali, nel 1895, si iscrive all’Accademia di Belle arti di Venezia per seguire il suo unico e vero amore, la pittura, e dove entra in contatto con i mostri sacri del sapere accademico quali Ettore Tito (suo maestro e punto di riferimento), Luigi Nono, Giacomo Favretto e Guglielmo Ciardi. L’indole ribelle e inquieta dell’artista lo spinge in seguito alla ricerca di qualcosa che vada al di là della pittura tradizionale d’accademia, di soluzioni diverse e più ardite intraviste nei viaggi verso i maggiori centri italiani, dapprima Bologna, in seguito Napoli “dove presi una tale sbornia di colori e di luci – scrive – che d’allora tutti gli altri paesi mi sembrano neri. E mi dedicai al bianco e nero.” Nel 1897 si iscrive all’Accademia di Bologna sotto l’ala del maestro di figura Domenico Ferri che lo spinge verso la grafica colpito dal suo stile personale e all’avanguardia, irruente e fluido, quello stile che gli permetterà di entrare a buon diritto nel mondo, allora di moda, delle riviste illustrate bolognesi. Diverse sono le composizioni che appaiono in quegli anni sulle pagine dei giornaletti satirici circolanti tra gli studenti dell’Accademia, colmi di motti e scherzi che Valeri era solito fare per sbeffeggiare i professori. Uno spirito ribelle e dissacrante quale il suo non poteva certo rimanere immune dal fascino della vita “scapigliata” delle combriccole bolognesi, come quella dei “Giambardi della Sega”, goliardica brigata di artisti che aveva scelto il decadente Palazzo Bentivoglio come sede preferenziale per fare baldoria e dipingere. “Ugo Valeri trovava ei pure il modo di spassarsela – affermano le carte dell’epoca – abbozzava quadretti, studi, fantasmagorìe, teorie di macchiette e tante altre curiose composizioni che rivelavano, nella loro improvvisazione, lo stupefacente scintillìo di un genio strambo e fecondo… la travagliata sua versatilità sentimentale e beffarda si sfogava”.Ma è il fascino della strada che Valeri subisce e del quale diventa il cantore: l’uomo che si mescola fra la gente, la osserva, ne respira gli umori, ne sente l’inquietudine e il fascino, che si infila tra gli avventori dei caffè, tra le sartine, nelle feste popolari e nelle case di tolleranza, ne cattura le emozioni e le riporta sulla tela per rendere la frenesia di una città che corre instancabile verso uno sviluppo accelerato; Valeri è pienamente uomo del suo tempo, confuso dall’incalzare degli eventi e dal turbinio della vita moderna, narratore della gioia di vivere e delle vie caotiche piene di gente in preda all’entusiasmo di un periodo non a torto definito Belle Époque.E’ l’esasperata ricerca del dinamismo e della velocità della vita moderna – che sarà il soggetto preferito da Boccioni, in questi anni ancora sui banchi di scuola – che spinge l’Artista a raffigurare le danze sfrenate delle feste di primavera, dove le linee serpentinate dei corpi di gusto liberty si intrecciano fino a formare un tutt’uno indistinguibile al punto che ci sembra di partecipare a quel muoversi frenetico dei corpi e di sentire la musica di una di quelle orchestrine di campagna che Valeri amava tanto. L’arte per Valeri nasce dal caos, da quel ritmo confuso e caotico che lo porta a “squilibrare” volutamente il baricentro delle figure seguendo la lezione di Medardo Rosso (che, proprio spostando l’asse della scultura, aveva rotto lo schema tradizionale della composizione plastica); in Valeri troviamo in nuce i prodromi della rivoluzione concettuale e spazio-temporale futurista, la stessa carica sperimentale che gli porta la profonda stima di Marinetti, anche se l’artista non aderì mai direttamente al suo movimento, rimanendo sempre in bilico tra passato e presente, sganciato da una tradizione italiana e orientato ad un gusto internazionale che ne fa un caso a sé nel panorama nazionale del suo tempo. Ed è proprio Marinetti che Valeri incontra nel 1905 a Milano, dove aveva intrapreso l’attività di illustratore di libri e riviste, insieme a Boccioni e a Carrà (che ricorda come “impetuoso di carattere, compiva talvolta sotto l’effetto del vino atti che deplorava amaramente”); ed è sempre Marinetti che lo vuole come collaboratore ad illustrare il suo “Le dieux s’en vont D’Annunzio reste” nel 1908 (ma nella caricatura di D’Annunzio che esegue non c’è la volontà di deformare bensì di rendere “il tratto caratteristico e morale della persona”: “Io stesso che sono una caricatura nell’aspetto e nello spirito – dice Valeri – non potrei definire la caricatura come la più sincera espressione del vero? Tanto ognuno lo sente e lo vede a modo suo. Sono oscuro?”).Nel libro scandalo “Quelle signore” che illustra per Notari, censurato nel 1906, Valeri entra nel mondo delle “donnine allegre”, quelle donnine che saranno riprese da Arturo Martini e da Gino Rossi, grottesche e triviali nell’eccesso del trucco, mostrando lo stesso uso espressionistico del colore che aveva scelto Toulouse-Lautrec per descrivere la vivace vita di Montmartre; mentre nelle due allegorie dell’Autunno e della Primavera del 1907, mostra di riflettere anche su tematiche di più ampio respiro legate alla poetica simbolista.Creare e sperimentare sempre dunque, passare dalla pittura ad olio al disegno, da un genere all’altro, senza remore, senza paura del giudizio degli altri, seguendo sempre e solo il proprio istinto: la vita di Valeri è la sua pittura e la sua pittura la sua vita. Spiega bene Giandomenico Romanelli nel catalogo della mostra sugli anni di Ca’ Pesaro l’eclettismo dell’Artista quando lo descrive come “allusivo quanto basta per poter essere ascritto ad una qualche pattuglia simbolista, tanto piacevole da essere scambiato solo per un grande illustratore; colto, ironico, cifrato, notturno e ‘maledetto’, ma maledetto in quel di Parigi, tra gli sperperatori dei Casinò e Toulouse-Lautrec, i dandies e le donnine; ma poi anche tanto di casa tra goliardia e papiri di laurea e allora sì con qualche attenzione al mondo di Vienna, all’impresa straussiana e magari a Hoffmansthal”.Ed è nelle sale di Ca’ Pesaro, quando tra il 1908 e il 1920 si svolge un’esperienza rivoluzionaria e secessionista giocata da un manipolo di artisti giovani diversi fra loro ma uniti nell’impegno di rinnovare il linguaggio artistico della Biennale accademica e tradizionalista, che Valeri è la “tromba” come disse Arturo Martini, il precursore della nascente Secessione che avrà come protagonisti artisti quali Casorati, Martini, Rossi, il primo Boccioni, provenienti da tutto il Veneto; è il primo che “brucia” l’immagine, toglie le transazioni per sentire da vicino le vibrazioni psicologiche, è il primo davanti al quale tutti rimangono a bocca aperta, ed è guardando le sue opere esposte che lo stesso Boccioni deciderà di esporre una personale nelle stesse sale un anno dopo.Ed è Nino Barbantini, critico intelligente e sostenitore a spada tratta dell’ideale di una modernità vera, autentica, slegata dal passato, quella appunto di Valeri e dei cosiddetti “capesarini”, ad affermare nel 1920 a conclusione della sua esperienza a Ca’ Pesaro: “Si può dire che nel 1908 a Venezia e nel Veneto un’arte giovane non ci fosse; e se affermare che la crearono le mostre di Ca’ Pesaro sarebbe per lo meno esagerato, è certo ch’essa venne sviluppando e definendo colà la propria fisionomia”.“Ha invaso una, due, tre salette con la foga ch’è la caratteristica del suo temperamento, ha inondate le pareti di disegni, pannelli, quadri, pastelli, schizzi ad olio; ha messo insieme impressioni dal vero, fantasticherie, illustrazioni di libri, scene còlte per le strade, aspetti di vita mondana, composizioni tragiche, satiriche, ironiche, spasmodiche di riso e di pianto. Non ci avessero offerto altro per le sale della Permanente, basterebbe la raccolta di Valeri per metterci in condizione di proclamare che esse hanno raggiunto lo scopo per le quali furono aperte. La collezione del Valeri rappresenta una delle più memorabili affermazioni di artisti negli ultimi dieci anni.”Così scriveva entusiasta il critico d’arte Gino Damerini nel 1909 dalle colonne della “Gazzetta di Venezia”, consacrando questo giovane artista che alla mostra d’autunno di Ca’ Pesaro, coinvolto dall’entusiasmo di Marinetti, aveva presentato una personale di sessanta opere senza alcuna manifestazione di progettualità estetica ma con quella fervente foga giovanile che non poté mai placarsi e sfociare nella maturità più piena perché morì nell’ebbrezza del suo desiderio impaziente. E di questa inquieta frenesia, la stessa che risucchiò tutta la vita e l’arte di inizio secolo, viene definito il disegnatore perfetto, il solo che riesca ad esprimerne lo spirito con la sua opera complessa e travagliata, precorritrice dei tempi a venire; un artista audace e scapestrato, ribelle ed inquieto, che suscitò subito l’entusiasmo e l’ammirazione dell’allora Direttore di Ca’ Pesaro e arguto critico Nino Barbantini e che trovò la fine della sua carriera nel 1911 a soli 38 anni, cadendo da una finestra di quello stesso Palazzo che lo aveva portato al successo appena due anni prima.Ugo nasce a Piove di Sacco nel 1873, secondo di tre figli tra i quali il fratello a lui più caro Diego, una delle voci più delicate della poesia del Novecento; nel 1888 si trasferisce con la famiglia a Padova, dove segue studi classici terminati i quali, nel 1895, si iscrive all’Accademia di Belle arti di Venezia per seguire il suo unico e vero amore, la pittura, e dove entra in contatto con i mostri sacri del sapere accademico quali Ettore Tito (suo maestro e punto di riferimento), Luigi Nono, Giacomo Favretto e Guglielmo Ciardi. L’indole ribelle e inquieta dell’artista lo spinge in seguito alla ricerca di qualcosa che vada al di là della pittura tradizionale d’accademia, di soluzioni diverse e più ardite intraviste nei viaggi verso i maggiori centri italiani, dapprima Bologna, in seguito Napoli “dove presi una tale sbornia di colori e di luci – scrive – che d’allora tutti gli altri paesi mi sembrano neri. E mi dedicai al bianco e nero.” Nel 1897 si iscrive all’Accademia di Bologna sotto l’ala del maestro di figura Domenico Ferri che lo spinge verso la grafica colpito dal suo stile personale e all’avanguardia, irruente e fluido, quello stile che gli permetterà di entrare a buon diritto nel mondo, allora di moda, delle riviste illustrate bolognesi. Diverse sono le composizioni che appaiono in quegli anni sulle pagine dei giornaletti satirici circolanti tra gli studenti dell’Accademia, colmi di motti e scherzi che Valeri era solito fare per sbeffeggiare i professori. Uno spirito ribelle e dissacrante quale il suo non poteva certo rimanere immune dal fascino della vita “scapigliata” delle combriccole bolognesi, come quella dei “Giambardi della Sega”, goliardica brigata di artisti che aveva scelto il decadente Palazzo Bentivoglio come sede preferenziale per fare baldoria e dipingere. “Ugo Valeri trovava ei pure il modo di spassarsela – affermano le carte dell’epoca – abbozzava quadretti, studi, fantasmagorìe, teorie di macchiette e tante altre curiose composizioni che rivelavano, nella loro improvvisazione, lo stupefacente scintillìo di un genio strambo e fecondo… la travagliata sua versatilità sentimentale e beffarda si sfogava”.Ma è il fascino della strada che Valeri subisce e del quale diventa il cantore: l’uomo che si mescola fra la gente, la osserva, ne respira gli umori, ne sente l’inquietudine e il fascino, che si infila tra gli avventori dei caffè, tra le sartine, nelle feste popolari e nelle case di tolleranza, ne cattura le emozioni e le riporta sulla tela per rendere la frenesia di una città che corre instancabile verso uno sviluppo accelerato; Valeri è pienamente uomo del suo tempo, confuso dall’incalzare degli eventi e dal turbinio della vita moderna, narratore della gioia di vivere e delle vie caotiche piene di gente in preda all’entusiasmo di un periodo non a torto definito Belle Époque.E’ l’esasperata ricerca del dinamismo e della velocità della vita moderna – che sarà il soggetto preferito da Boccioni, in questi anni ancora sui banchi di scuola – che spinge l’Artista a raffigurare le danze sfrenate delle feste di primavera, dove le linee serpentinate dei corpi di gusto liberty si intrecciano fino a formare un tutt’uno indistinguibile al punto che ci sembra di partecipare a quel muoversi frenetico dei corpi e di sentire la musica di una di quelle orchestrine di campagna che Valeri amava tanto. L’arte per Valeri nasce dal caos, da quel ritmo confuso e caotico che lo porta a “squilibrare” volutamente il baricentro delle figure seguendo la lezione di Medardo Rosso (che, proprio spostando l’asse della scultura, aveva rotto lo schema tradizionale della composizione plastica); in Valeri troviamo in nuce i prodromi della rivoluzione concettuale e spazio-temporale futurista, la stessa carica sperimentale che gli porta la profonda stima di Marinetti, anche se l’artista non aderì mai direttamente al suo movimento, rimanendo sempre in bilico tra passato e presente, sganciato da una tradizione italiana e orientato ad un gusto internazionale che ne fa un caso a sé nel panorama nazionale del suo tempo. Ed è proprio Marinetti che Valeri incontra nel 1905 a Milano, dove aveva intrapreso l’attività di illustratore di libri e riviste, insieme a Boccioni e a Carrà (che ricorda come “impetuoso di carattere, compiva talvolta sotto l’effetto del vino atti che deplorava amaramente”); ed è sempre Marinetti che lo vuole come collaboratore ad illustrare il suo “Le dieux s’en vont D’Annunzio reste” nel 1908 (ma nella caricatura di D’Annunzio che esegue non c’è la volontà di deformare bensì di rendere “il tratto caratteristico e morale della persona”: “Io stesso che sono una caricatura nell’aspetto e nello spirito – dice Valeri – non potrei definire la caricatura come la più sincera espressione del vero? Tanto ognuno lo sente e lo vede a modo suo. Sono oscuro?”).Nel libro scandalo “Quelle signore” che illustra per Notari, censurato nel 1906, Valeri entra nel mondo delle “donnine allegre”, quelle donnine che saranno riprese da Arturo Martini e da Gino Rossi, grottesche e triviali nell’eccesso del trucco, mostrando lo stesso uso espressionistico del colore che aveva scelto Toulouse-Lautrec per descrivere la vivace vita di Montmartre; mentre nelle due allegorie dell’Autunno e della Primavera del 1907, mostra di riflettere anche su tematiche di più ampio respiro legate alla poetica simbolista.Creare e sperimentare sempre dunque, passare dalla pittura ad olio al disegno, da un genere all’altro, senza remore, senza paura del giudizio degli altri, seguendo sempre e solo il proprio istinto: la vita di Valeri è la sua pittura e la sua pittura la sua vita. Spiega bene Giandomenico Romanelli nel catalogo della mostra sugli anni di Ca’ Pesaro l’eclettismo dell’Artista quando lo descrive come “allusivo quanto basta per poter essere ascritto ad una qualche pattuglia simbolista, tanto piacevole da essere scambiato solo per un grande illustratore; colto, ironico, cifrato, notturno e ‘maledetto’, ma maledetto in quel di Parigi, tra gli sperperatori dei Casinò e Toulouse-Lautrec, i dandies e le donnine; ma poi anche tanto di casa tra goliardia e papiri di laurea e allora sì con qualche attenzione al mondo di Vienna, all’impresa straussiana e magari a Hoffmansthal”.Ed è nelle sale di Ca’ Pesaro, quando tra il 1908 e il 1920 si svolge un’esperienza rivoluzionaria e secessionista giocata da un manipolo di artisti giovani diversi fra loro ma uniti nell’impegno di rinnovare il linguaggio artistico della Biennale accademica e tradizionalista, che Valeri è la “tromba” come disse Arturo Martini, il precursore della nascente Secessione che avrà come protagonisti artisti quali Casorati, Martini, Rossi, il primo Boccioni, provenienti da tutto il Veneto; è il primo che “brucia” l’immagine, toglie le transazioni per sentire da vicino le vibrazioni psicologiche, è il primo davanti al quale tutti rimangono a bocca aperta, ed è guardando le sue opere esposte che lo stesso Boccioni deciderà di esporre una personale nelle stesse sale un anno dopo.Ed è Nino Barbantini, critico intelligente e sostenitore a spada tratta dell’ideale di una modernità vera, autentica, slegata dal passato, quella appunto di Valeri e dei cosiddetti “capesarini”, ad affermare nel 1920 a conclusione della sua esperienza a Ca’ Pesaro: “Si può dire che nel 1908 a Venezia e nel Veneto un’arte giovane non ci fosse; e se affermare che la crearono le mostre di Ca’ Pesaro sarebbe per lo meno esagerato, è certo ch’essa venne sviluppando e definendo colà la propria fisionomia”.