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Trinità nell’arte, il vultus trifrons


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Tra le sfide più alte affrontate dall’arte occidentale, nella sua strettissima connessione con l’iconografia religiosa, spicca quella di offrire una rappresentazione, percepibile e chiaramente intelligibile, della sintesi prima e ultima del credo cristiano: la Trinità divina:

Sin dalle origini, rappresentare fenomenicamente il mistero fondamentale della Fede implicava il dover distinguere, senza operare una scissione, tre elementi disgiunti, dando forma visibile alla compresenza, contiguità e continuità di Padre, Figlio e Spirito Santo. Nell’arte più primitiva, in una fase anteriore a quella in cui la pittura, in modo particolare, ne avrebbe dato una connotazione maggiormente descrittiva e naturalistica, la rappresentazione della Trinità cristiana venne affidata ai simboli (specie quelli geometrici, come il triangolo equilatero o i tre cerchi intrecciati).

Ovviamente l’uso del simbolo, oltre che consentire un rapporto più stretto con il concetto astratto del sacro, rispondeva bene alle esigenze di sintesi e di chiarezza nel corso di un lungo periodo di tempo. Un filone iconografico che andò affermandosi a partire dal XII secolo e che ebbe una larga diffusione in ambito centroeuropeo, prevedeva la rappresentazione della Trinità come figura umana costituita da un solo corpo e da tre teste, oppure, secondo una soluzione preferita in Italia, da una testa con tre volti, il cosiddetto vultus trifrons.

Scuola di Leonardo da Brescia,  Cristo “triforme”, 1542 circa. Vigo di Fassa (Trento), chiesa di santa Giuliana
Scuola di Leonardo da Brescia,
Cristo “triforme”, 1542 circa. Vigo di Fassa (Trento), chiesa di santa Giuliana

I precedenti più immediati di ogni rappresentazione trinitaria cristiana vanno rintracciati nei simulacri della dea Ecate di epoca classica, a loro volta direttamente discendenti dai tricefali egizi (come Serapide). Il volto trifronte compariva pure nelle arcaiche raffigurazioni allegoriche della Prudenza. Nel contesto della diffusione dell’Umanesimo e dell’ammirazione per il lascito culturale dell’antica Roma tale rappresentazione, coerente con le divinità bifronti o trifronti del Pantheon dell’Urbe, dovette apparire una soluzione molto elegante ai pittori italiani dell’epoca. Ma fu proprio la sospetta contaminazione con il paganesimo a far sì che queste immagini della Trinità venissero guardate con sospetto dalla Chiesa post-tridentina.

Poche sono in verità le testimonianze pittoriche di tale tipologia iconografica sopravvissute alla dichiarazione di eresia emessa nel 1628 da papa Urbano VII e ai conseguenti roghi dei dipinti. Tale figura, di cui è stata anche notata un’ascendenza celto-germanica, era chiamata dai protestanti il “Cerbero cattolico”, mentre in contesto cattolico giunse ad essere indicata come “emblema diabolico” e “immagine improba”, fino alla soluzione definitiva imposta dal pontefice.

Tra gli esempi rimasti vi è un affresco che decora l’abside della chiesa, di origine precarolingia, di santa Giuliana a Vigo di Fassa, in Trentino: nel mezzo troneggia, al posto del più consueto Cristo Pantocrator, l’icona della Santissima Trinità in un’unica persona a tre visi con aureola crociata, colta nell’atto di benedire con la mano destra e reggente con la sinistra il globo sormontato dalla croce.

La posa della figura è ieratica, con un manto rosso ornato col monogramma del nome di Gesù e con fiori, fregiato da una larga bordatura. Come era consuetudine in questo tipo di immagini, gli occhi sono quattro, con una funzione “necessitante” alla immanentizzazione terrena della triade trascendente. Il viso di mezzo ha una barba bianca lunga, quello a destra una barba sempre bianca ma più corta, quello di sinistra una barba rossiccia; il colore dei capelli corrisponde a quello delle barbe.

L’opera, eseguita all’incirca nel 1542, è stata assegnata ad un pittore vicino alla scuola di Leonardo da Brescia, attivo all’epoca a Bressanone.